Di Carolina de Stefano (Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna)
e Serena Giusti (Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna)
L’influenza della Unione europea (Ue) nello spazio post-sovietico è, rispetto a quella esercitata nei paesi dell’Europa centrale ed Orientale divenuti membri tra il 2004 ed il 2007, molto flebile. In questa aerea infatti l’identità europea non è maggioritaria e l’inclinazione verso l’integrazione con la Ue è meno netta. L’Ue ha cercato di dosare pressioni sulle élite nazionali con interventi che favorissero l’attivazione della società civile e la partecipazione dei cittadini alla costruzione democratica. Sinora, però, queste pressioni dall’alto e dal basso non hanno prodotto una trasformazione irreversibile nei paesi destinatari.
L’ipotesi è che laddove non ci sia un movimento nazionale diffuso a sostegno del cambiamento, il peso dell’UE come attore esterno sia modesto soprattutto se poi manca una prospettiva di adesione. Tra i paesi coinvolti nella Politica europea di vicinato (Pev) e poi nel Partenariato orientale (PO) non si registrano modelli vincenti capaci di suscitare un effetto snowballing (effetto valanga) nella regione. Il processo di avvicinamento dell’Ucraina alla UE, che sembrava tra i più promettenti, ha subito una decelerazione a causa di quello che da Bruxelles è stato considerato un deterioramento della qualità della democrazia accompagnato da un crescente “assoggettamento” a Mosca. E quando la Ue, temendo uno slittamento dell’Ucraina verso la Russia, ha alzato la propria offerta con la disponibilità a sottoscrivere un Accordo di associazione, ha messo in moto un processo di sfaldamento del paese stesso.
L’Ue non ha tenuto in debito conto la divisione culturale, linguistica ed economica dell’Ucraina. Ma soprattutto la Ue non è stata in grado di prevedere la reazione, per altro presagibile, della Russia che aspira a mantenere un controllo post-imperiale su quei paesi che ancora considera come il suo ‘estero vicino’. Così quando la Russia ha reagito a quello che ha considerato un cambio di regime indotto dall’Occidente, annettendosi la Crimea, l’Ue ha stentato a trovare una posizione comune.
La diversa intensità con cui i membri Ue sono economicamente legati alla Russia continua ad essere alla base della mancanza di coesione nella politica di Bruxelles verso Mosca. Le repubbliche baltiche e gli ex-paesi satellite avrebbero voluto che l’Occidente reagisse in maniera più forte e autorevole al ritorno autoritario di Mosca nello spazio post-sovietico. I paesi che invece intrattengono con la Russia importanti relazioni economiche in settori strategici come quello dell’energia – Italia, Francia e Germania – condannano il revanchismo russo ma allo stesso tempo mediano in ambito Ue per non esacerbare la tensione ed isolare eccessivamente la Russia. La decisione di comminare sanzioni selettive contro la Russia, dirette sia a persone che imprese, è stata sofferta e preso sotto la pressione di Washington.
Anche la sottoscrizione dell’accordo di associazione è stata sofferta: la parte politica sottoscritta nel marzo 2014 è stata scorporata da quella economica che prevede la possibilità per i prodotti ucraini di accedere al mercato europeo attraverso una graduale riduzione dei dazi. Al tempo stesso il mercato interno ucraino si apre alle merci europee. Il Cremlino però ha chiesto e ottenuto un rinvio sull’applicazione commerciale dell’accordo, che diverrà operativo solo nel 2016. Si tratta di una concessione alla Russia che rivela la debolezza e la contraddittorietà europea.
Tale debolezza e l’incapacità dell’UE di agire come interlocutore unitario sono emerse evidenti anche nel formato e nelle modalità in cui si sono svolti i negoziati multilaterali che hanno portato alla firma del secondo Protocollo di Minsk sul cessate il fuoco nel Donbass nella notte tra il 12 e il 13 febbraio.
Il secondo Protocollo di Minsk riprende nel contenuto, con alcune differenze, il testo del Minsk I dello scorso 5 settembre, fissando la data d’inizio del cessate il fuoco questa volta al 15 febbraio, prevedendo il ritiro di armi pesanti dalla linea del fronte al fine di creare zone di sicurezza di 50, 70 e 140 km secondo la tipologia di armamenti, nonché il ritiro di tutte le formazioni militari “straniere” e delle forze mercenarie sotto la supervisione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Come il precedente, le parti firmatarie sono da un lato il Trilateral Contact Group (Russia, Ucraina, OSCE), dall’altro i rappresentanti delle autoproclamate Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk.
Rispetto al Minsk I, i negoziati di Minsk II presentano però una novità importante: sono stati guidati e sostenuti – con una dichiarazione conclusiva che si è andata ad affiancare al protocollo – dalla Francia e dalla Germania a seguito di incontri bilaterali e multilaterali con i presidenti di Ucraina e Russia. Il ruolo assunto dal Cancelliere Merkel e dal Presidente Hollande, nell’assenza dell’Alto Rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha avuto come conseguenza l’istituzionalizzazione del c.d. formato “Normandia” (Ucraina, Russia, Germania, Francia), un meccanismo diplomatico per la risoluzione e il monitoraggio dell’evoluzione della crisi ucraina a scapito dell’Europa a 28. Da un lato le divisioni all’interno della Ue non consentono di pervenire ad una posizione comune, dall’altra la Russia non è disposta a negoziare direttamente con paesi, in particolare i tre paesi baltici e la Polonia, così dichiaratamente ostili e favorevoli invece a un rafforzamento della Nato nei loro territori e al confine orientale.
Lo svolgersi dei negoziati a Minsk ha poi posto alla ribalta della diplomazia europea la Bielorussia, il cui presidente Lukashenko è considerato “l’ultimo dittatore d’Europa”. La debolezza europea, infine, aumenta con il passare del tempo e il continuo aggravarsi e approfondirsi della crisi delle relazioni tra Russia e UE e della situazione economica, politica ed umanitaria in Ucraina, a cui ad oggi non è stata trovata alcuna soluzione soddisfacente.
Come era prevedibile e come era stato preconizzato fin dall’inizio, in effetti, anche il secondo protocollo di Minsk – sebbene importante nell’aver cercato e trovato almeno formalmente margini di compromesso e negoziazione tra governo ucraino, Russia e forze separatiste filorusse – è lontano dall’essere risolutivo, ed è già stato ignorato con scontri a fuoco e reciproche accuse di violazione delle condizioni previste.
Il testo, che peraltro si limita nei suoi intenti a garantire un cessate il fuoco al fine di creare spazi a successive negoziazioni, presenta in effetti numerose lacune e ambiguità. Tra queste, in particolare, la non previsione di forze di peacekeeping incaricate alla verifica del rispetto del Protocollo in favore di una generica responsabilità dell’OSCE, che tuttavia non ha le capacità per sanzionare chi dovesse infrangerlo. Motivo per cui, forse, la Russia predilige l’OSCE.