Oggi, a più di vent’anni dalla dissoluzione dell’impero sovietico, chiedersi «che cos’è l’Europa?» vuol dire porsi una domanda essenzialmente identica a quella che ci si poteva fare ai tempi del duumvirato Stati Uniti–Unione Sovietica. Questo perché la questione «Europa» è più fondamentale del suo rapporto con l’attualità, con la contingenza.
Che l’Europa oggi stia attraversando una crisi profonda è chiaro a chiunque. Meno chiara è la natura di tale crisi. È necessario tener presente che la cosiddetta “cultura europea” è ormai un fatto planetario: tutto ciò che è accaduto nelle potenze emergenti, a partire dalla Seconda guerra mondiale e dopo, con il duumvirato Stati Uniti–Unione Sovietica e in anni più recenti in tutte le “nuove” potenze come Cina, India, Brasile, e prima ancora Giappone, è un prodotto della cultura europea. L’Europa come entità geografica ha quindi cessato di rivestire il ruolo che aveva prima della Seconda guerra mondiale, ma l’essenza della cultura europea (il grande problema qui è appunto capire in cosa consista) è tutt’altro che in crisi, anzi, è tuttora dominante. Dominante nel senso di apparato scientifico-tecnologico: scienza e tecnica nascono in Europa così come quella filosofia, di cui tanto poco si parla, dalla quale la scienza ha mutuato, pur prendendone le distanze, le categorie fondamentali.
Per comprendere cosa sia l’Europa non basta risalire alla scienza moderna, ma serve andare molto più indietro fino alla sua matrice filosofica, nonostante questo carattere filosofico si sia arricchito e sia stato mascherato dagli apporti delle varie forme di cultura, delle opere, che hanno costituito l’Europa stessa. Ci si interroga oggi su quale sarà il destino di quest’Europa in crisi, in preda a forze economiche, a processi di globalizzazione, che spingono verso una maggiore aggregazione ma al tempo stesso anche verso la disgregazione. È proprio compito del filosofo indicare il percorso che inevitabilmente attende l’Europa, lasciando a politici ed operatori economici il compito di stabilire cosa sia “più conveniente” fare.
Già ne Gli abitatori del tempo, scritto negli anni della Guerra fredda, si parla di elementi costitutivamente disgreganti: di fatto i duumviri, con la loro concordia discors, hanno determinato una pace durata decenni, mantenendo comunque l’Europa in una posizione subordinata. Chiaramente non avevano alcun interesse a che l’Europa divenisse una forma di unificazione politico-militare-economica che avrebbe danneggiato quella strategia dell’equilibrio che garantiva la pace. C’erano però anche forze unificanti, come il capitalismo che, per sua natura, tende a rovesciare le barriere nazionali che impediscono il libero scambio: il capitalismo per l’Europa è stato un fattore unificante. I problemi nascono quando si vogliono definire «unificazione» e «separazione».
Per capire il fenomeno della separazione è necessario risalire alle origini europee dell’Occidente, nel senso che la filosofia porta alla luce un modo di pensare il mondo che è costitutivamente separante: per la prima volta si pensa il mondo come una fluttuazione in cui gli eventi vengono dal non essere, stanno per un po’ nell’esistenza per poi precipitare nuovamente nel non essere, cioè nel nulla. Un pensiero, quello del nulla, che nella sua radicalità era assolutamente sconosciuto prima del nascere della filosofia, ma che ora appartiene essenzialmente alla nostra cultura. Oggi qualsiasi persona condivide, a grandi linee, la concezione del presente come qualcosa che ieri «non era», come qualcosa che ieri «era niente». Nel momento in cui si riflette sul significato radicale del niente portato alla luce dal pensiero filosofico, si capisce come non possa esserci unificazione tra ciò che esiste adesso e ciò che ieri era nulla, come non possa esistere un legame che unisca l’essere nulla delle cose ieri e il loro esistere in questo momento. L’oscillazione delle cose tra il nulla e l’essere è un concetto essenzialmente separante, e proprio questa separazione sta alla matrice del costituirsi di ciò che chiamiamo Europa e del modo in cui oggi è considerata.
In realtà non esiste una risposta unica alla domanda «che cos’è oggi l’Europa?», ma ne esistono molte: una risposta religiosa, una politica, una economica, una geologica, una geografica, una psicologica, una etnologica, una antropologica, insomma una per ogni ambito del sapere umano. E sono tutte giustapposte, rigorosamente separate. Una separazione è di tipo concettuale, e deriva dalla visione della realtà come oscillante tra l’essere e il niente; un’altra separazione è invece dovuta alla specializzazione scientifica, per la quale l’Europa, come ogni cosa, non si presenta come qualcosa di unitario: ci sono molte Europe. L’elemento aggregante in tutti questi casi è il concetto, portato alla luce dal pensiero greco, dell’uscire dal nulla per tornare nel nulla. Alle spalle delle forze che, nel nostro tempo, determinano le scissioni che rendono difficoltosa l’unificazione europea, agisce quel concetto originario di isolamento/separazione che era sconosciuto alle culture pre-greche, pre-occidentali. Si tratta di un duplice concetto di separazione/unificazione, che sta alla radice delle difficoltà che l’Europa incontra nel processo di unificazione e che ai tempi della Guerra fredda aveva a che fare con gli interessi delle due Superpotenze. Questa difficoltà si può spiegare così: se le parti del mondo sono isolate le une dalle altre e il matrimonio tra due di esse avviene tra coniugi che rimangono ognuno presso di sé, separato dall’altro, allora ogni unificazione è un fenomeno provvisorio e accidentale, quindi fallimentare.
L’Europa è altresì destinata ad abbandonare le proprie radici cristiane, in quanto destinata ad abbandonare la “tradizione”. Per capire questo punto è necessario chiarire in cosa consista la tradizione e in che senso il Cristianesimo le appartenga essenzialmente. Per spiegarlo, bisogna ripartire dal concetto di niente evocato dai Greci. Evocando il niente, cioè la variazione del mondo come un uscire e un ritornare nel niente, i Greci evocano l’angoscia estrema. Sarebbe un errore attribuire all’esistenzialismo, a Kierkegaard o Heidegger, il concetto di angoscia per il nulla: sono i Greci ad evocare per primi il “mostro”, la nullità delle cose, per poi, come l’apprendista stregone, restare terrorizzati di fronte a ciò che essi stessi hanno evocato: la variazione del mondo come intrisa di nulla è uno spettacolo che scatena l’angoscia. La parola aristotelica thauma non va tradotta come «meraviglia» e «stupore», ma come «angoscia», «meraviglia angosciata», «terrore». Un terrore che deriva dalla nuova consapevolezza che la variazione delle cose è il loro morire e che l’istante appena trascorso è ormai nulla. L’uomo comincia a pensare la morte come annientamento, come un andare nel nulla, non più come a un viaggio da cui si può ritornare. Si tratta di una concezione essenzialmente diversa da quella precedente.
La tradizione che inizia con i Greci e arriva fino a Hegel, di fronte al pericolo estremo costituito dall’annientamento della vita, evoca un rimedio che nella sua configurazione più visibile e più nota viene chiamato «Dio», il «Sacro», l’«Eterno», l’«Immutabile», che protegge e contiene il divenire delle cose. Ma «dio» per i Greci, che non erano teologi, altro non era che il luogo in cui tutti i tratti di loro interesse venivano conservati: in fondo che cos’è «dio» se non il custode di tutto ciò che all’uomo interessa, colui che impedisce che un annientamento totale e irreversibile lo strappi a tutto ciò che ama e desidera? Questo è il quadro della tradizione: un senso eterno, divino del mondo che agisce da «rimedio», termine quest’ultimo usato da Eraclito ed Eschilo («saldi rimedi») di contro al pericolo estremo della morte. Questo processo, pur attraverso fasi varianti, ha questo tratto permanente, ossia la ricerca di un rimedio immutabile, di un senso immutabile del mondo, che in qualche modo anticipi il futuro eliminando l’angoscia legata all’imprevedibilità del futuro. Il terrore del niente che ci attende viene così lenito dall’esistenza di quel luogo divino che, contenendo tutto ciò che all’uomo interessa, anticipa il futuro.
A mostrare la fallibilità di questo “rimedio” all’angoscia legata alla scoperta del nulla, e di conseguenza a mostrare la necessità per l’Europa di abbandonare la tradizione e quindi il Cristianesimo, ci pensa il sottosuolo essenziale della filosofia contemporanea. Questo sottosuolo, creatosi negli ultimi duecento anni, ha pochi protagonisti ma molto significativi. Il primo, più noto, è Nietzsche; un altro, poco conosciuto fuori dall’Italia, è Giovanni Gentile. A mostrare insieme a loro l’impossibilità del divino e di tutto ciò che al divino è connesso, vi è anche Giacomo Leopardi, nostro maggiore filosofo e massimo poeta. Perché il grande nemico del Cristianesimo, che senza dubbio rappresenta la connessione più vistosa della nostra cultura, non è quel «relativismo» che è riconducibile, da ultimo, allo scetticismo ingenuo che si autoelimina, ma è proprio quel sottosuolo in grado di distruggere la tradizione filosofico-culturale-operativa (se si crede in un dio, si agisce conformemente) dell’Occidente. Ora, se esiste questo sottosuolo che riesce a mostrare l’impossibilità dell’Eterno, e poiché esiste, allora anche il Cristianesimo risulta impossibile. Quindi il punto non sta nel fatto che l’Europa dovrebbe abbandonare la tradizione, ma nel fatto che è inevitabile che ciò accada, proprio perché tale sottosuolo mostra l’impossibilità della base concettuale su cui si fonda il Cristianesimo. È pensabile il Cristianesimo senza il concetto di «creazione»? No. La definizione del concetto di creazione è illuminante: la creazione è dal nulla, creatio ex nihilo, ovvero il mondo prima di essere creato era nulla e tornerà ad essere nulla dopo essere stato creato. Dio, secondo la teologia cristiana, è colui che (concetto molto chiaro nell’Apocalisse) distruggerà la vecchia terra e il vecchio cielo in vista dell’avvento della terra nuova, nella quale lupo amerà l’agnello, e del cielo nuovo, dove gli astri saranno a loro volta sintesi erotica amorosa.
Il motivo per cui il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo è in grado di eliminare la tradizione, quindi la tradizione cristiana, è che se l’eterno esiste non può esistere il divenire, poiché l’uscire e il ritornare nel nulla è una situazione in cui il futuro è nulla. Il futuro è «il non ancora» («noch nicht»), come diceva Bloch, e prima di lui Aristotele, Platone, Einstein, la scienza e la religione stessa. Se l’eterno esiste, esso è una legge che si impone non soltanto sulle cose presenti ma anche su quelle passate e future. In altre parole le cose future non vengono trattate dal dio come un nulla, un «ancora nulla», ma come sottoposte alla sua legislazione, come ascoltatrici della legge del dio, e quindi non come un nulla ma come un che di positivo. In altre parole, vengono entificate. Allora il motivo di fondo di questa inevitabile distruzione del passato – che si può trovare in Nietzsche, in Leopardi, in Gentile, ma anche in Peirce, in qualche modo in Bresson e in pochi altri (non in Heidegger e in Wittgenstein) – è appunto che è il rimedio stesso (dio) all’angoscia del divenire a rendere impossibile quel divenire che per primi riconoscono proprio coloro che, angosciati, evocano l’esistenza di un dio.
L’Europa è certamente sottoposta ad altre forze oltre al Cristianesimo, a grandi filosofie come il marxismo, il capitalismo, la democrazia; ma anche queste sono «gli angeli di Dio», i messaggeri del divino, perché sia il marxismo che il capitalismo, sia lo stato totalitario che la democrazia procedurale vengono considerati il rimedio contro il pericolo e i disagi della vita, rivestendo le forme mondane del divino. Che cosa accade, dunque, quando il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni dio e di ogni eterno? Accade che, di conseguenza, trovi dimostrazione anche l’impossibilità di una verità assoluta, definitiva. Si provi a riflettere sulla funzione del dio rispetto all’agire umano: l’uomo agisce con l’intento di dominare sempre di più il mondo, ma l’esistenza del dio costituisce un limite (si pensi al dio cristiano) a questo suo agire: «agisci pure – dice Dio all’uomo – ma fino a un certo punto, oltre il quale devi arrestarti altrimenti violi la mia legge».
Il divino è il limite all’agire dell’uomo, ma il sottosuolo filosofico del nostro tempo è la distruzione del divino e perciò di ogni limite assoluto. In un frangente in cui l’agire dell’uomo non ha più davanti a sé nessun limite, è come se il pensiero filosofico dicesse all’uomo «vai e corri per questa tua pianura senza remore, perché non hai più davanti a te alcun limite assoluto che ti impedisca di procedere oltre». Si pensi alle questioni della bioetica, dell’ingegneria genetica, della procreazione assistita, del fine vita, dell’eutanasia: sono tutti problemi che nascono dal fatto che c’è un limite oltre il quale, secondo la tradizione e la tradizione cristiana, non si può andare. Ma se il sottosuolo, invece, dice che non c’è limite, allora l’uomo può agire senza remore. E questo agire in cosa si concretizza maggiormente? Ovvero qual è la forza che oggi costituisce la forma più potente dell’agire dell’uomo, quella che gli consente di trasformare più radicalmente il mondo? Se una volta si pensava che la preghiera potesse muovere le montagne, oggi è senz’altro l’agire tecnico guidato dalla scienza moderna a ricoprire questo ruolo. Sono proprio la tecnica e la scienza a rappresentare la forma più radicale dell’agire dei nostri tempi. Ecco emergere così la simbiosi che viene a costituirsi tra il sottosuolo, che distrugge la tradizione (quindi anche la tradizione cristiana) e che dice all’agire «tu non hai limiti», e la tecnica, che da questo discorso viene autorizzata a procedere senza limiti verso la realizzazione del suo scopo.
Bisogna sottolineare che la tecnica, però, non è una forza assimilabile a quelle citate in precedenza (capitalismo, comunismo, democrazia, ecc…), per il semplice fatto che lo scopo che si pone non è escludente (se una delle altre forze realizza il proprio scopo, lo fa a scapito di quello altrui). Queste altre forze, Islam compreso, considerano ancora, erroneamente, la tecnica come lo strumento per realizzare un mondo democratico, capitalistico, comunista ecc., tralasciando il fatto che anche la tecnica ha uno scopo. Di per sé la tecnica (e probabilmente dopo un po’ di elaborazione linguistica sarebbe d’accordo anche lo scienziato-tecnico) ha come scopo l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. In questo consiste ormai l’apparato che raccoglie tutte quelle forme di potenza che vanno sempre più omologandosi al tipo di potenza propria del sapere scientifico-tecnologico. Tale “apparato” è un sistema di sottosistemi (l’apparato militare, economico, giudiziario, finanziario, sanitario, scolastico, giuridico…), ognuno dei quali è animato da una logica che va progressivamente assimilandosi a quella delle scienze dure di tipo fisico-matematico. Qui per apparato scientifico-tecnologico si intende il sistema di tutti i sottosistemi che costituiscono ciò che oggi chiamiamo la «tecnica». E dalla tecnica scaturisce la tanto agognata supremazia: le forze che si illudono di servirsi della tecnica per i propri scopi sono in perenne conflitto fra loro e perciò devono potenziare lo strumento di cui si servono per combattere le avversarie.
A livello macroscopico, questo si è visto nella contrapposizione tra Stati Uniti/Unione Sovietica e si sta riproponendo oggi nella filiera di quelle nazioni atomicamente fornite – la prima filiera vede da un parte Stati Uniti, Francia, Inghilterra; l’altra ha come leader la Russia, in qualche modo l’Iran, verosimilmente la Corea del Nord. Ebbene queste due filiere contrapposte hanno in sostanza ereditato la potenza distruttiva dei duumviri. La conflittualità delle forze oggi in campo è tale per cui ognuna si serve della tecnica nel conflitto con tutte le altre. Ma poiché il conflitto è gestito promuovendo e incrementando il potenziale tecnico, si produce il seguente fenomeno di rovesciamento: ognuna di queste forze, che inizialmente ha come scopo quello che la costituisce per definizione (es. il «capitale», ossia il profitto privato, per il capitalismo), si vede costretta a potenziare il proprio strumento tecnico e con ciò finisce inevitabilmente con l’assumerlo come scopo. In questo modo il potenziamento dello strumento tecnico da mezzo diventa scopo. E qui va fatto il rilievo decisivo: poiché ogni azione è definita dal proprio scopo, se tale scopo cambia, cambia necessariamente anche l’azione. L’azione cioè non è più la stessa. Se, ad esempio, la Chiesa approva il capitalismo perché lo considera un sistema di produzione più efficace dell’economia pianificata di tipo sovietico, in realtà chiede al capitalismo niente di meno che di rinunciare al proprio scopo, imponendogli come scopo non il profitto privato, ma il bene comune. Si tratta dello stesso tipo di “violenza” operata ai danni del capitalismo dal sistema comunista che voleva distruggerlo: si distrugge un agire quando si impedisce la realizzazione del suo scopo.
Quando la tecnica da mezzo (nelle mani delle forze citate) diventa lo scopo del loro agire, si ha la fine di democrazia, capitalismo, islam, cristianesimo, ecc. La dominazione della tecnica sul pianeta non è altro che la dominazione di un insieme di forze che da scopi sono diventati i mezzi dell’agire tecnologico. Qui non si intende fare un’apologia della tecnica, ma solo una sorta di descrizione della storia d’Europa e della direzione che necessariamente prenderà. Descrivere non significa acconsentire, altrimenti si arriverebbe a sostenere il paradosso che Marx, poiché ha scritto un libro sul capitale, è un capitalista o che un entomologo, dato che studia i virus mortali, simpatizza con il virus mortale.
La storia d’Europa coincide con la storia del nichilismo, e quando si parla della destinazione della tecnica al dominio si allude al farsi massimamente coerente da parte dell’errore. In altre parole, quanto si è detto fin qui altro non è se non una descrizione di come nasce l’errore, che consiste nel pensare che le cose provengano dal niente e vadano nel niente. Si tratta dell’alienazione estrema perché si finisce per pensare che tutte le cose siano niente, dal nostro corpo allo spazio che occupa, all’Italia, all’Europa, al mondo, alle galassie, ai nostri sentimenti. Quando parliamo di dominazione della tecnica parliamo appunto del modo più rigoroso in cui l’errore si può realizzare. All’inizio è un errore incoerente perché, se da un lato affermando il loro oscillare tra l’essere e il niente si afferma la nullità delle cose, dall’altro si tenta di escogitare un rimedio contro l’angoscia provocata proprio dal loro divenire, dalla contingenza. Quando poi si è parlato del «sottosuolo», si è indicata la necessità che l’errore divenga coerente a sé stesso, cioè alla propria fede nel diveniredelle cose, eliminando quel dio che rende appunto impossibile il divenire, ovvero la nullità del futuro.
Quanto detto finora potrebbe sembrare un’apologia della tecnica, ma in realtà è un’apologia dell’errore. E non di un errore qualsiasi, bensì dell’errore inteso in senso ancor più radicale di quanto lo si intenderebbe se con “errore” si indicasse il peccato originale di Adamo. È un’apologia della coerenza dell’errore: il vero monstrum del nostro tempo diviene coerente con le sue premesse quando la tecnica prende il sopravvento. Ma la tecnica non ha l’ultima parola, come si vedrà. In tutto questo resta da definire il ruolo dell’uomo e il suo rapporto con la tecnica. Per comprendere questo punto è necessario togliersi di torno quell’atteggiamento che, per esempio, è presente in quella che Heidegger (che vuol salvare l’uomo) chiama Gelassenheit, abbandono alle cose in un atteggiamento di pensiero meditante e non calcolante. Qui, invece, si sta dicendo che, quando l’uomo si pone come obiettivo la propria salvezza, non si salva. Tornando all’esempio umano-teologico: l’uomo chiede a Dio di salvarlo, quindi la salvezza dell’uomo è lo scopo e Dio è il mezzo. Poi però si accorge che se il mezzo è qualcosa di cui può disporre, qualcosa che tiene in mano, Dio stesso – così declassato a mezzo per salvare l’uomo – diventa incapace, debole. Si costituisce perciò un processo tale per cui, da una situazione in cui l’uomo dice a Dio «salvami» e cioè «fai la mia volontà», si arriva ad un’altra, che rappresenta la maturità dell’errore, in cui l’uomo, conscio del fatto che Dio non lo può aiutare proprio in quanto mezzo nelle sue mani (e pertanto inficiato dalla debolezza costitutiva dell’essere umano), dice a Dio «sia fatta la tua volontà», trasformando la volontà di Dio in scopo.
La stessa cosa avviene con la tecnica: prima l’uomo le chiede di salvarlo (attribuendole quel ruolo salvifico che un tempo attribuiva alla preghiera), ma nel momento in cui la tecnica diviene un mezzo per la salvezza dell’uomo, tale salvezza è automaticamente inficiata dalla debolezza propria dell’umano. E anche in questo caso, come in quello umano-teologico, accade che l’uomo infine dica alla tecnica «sia fatta la tua volontà». Così l’uomo ottiene la salvezza rinunciando ad essere lui stesso lo scopo del processo salvifico e assumendo invece come scopo quell’incremento infinito della potenza della tecnica che consente, di riflesso, di migliorare sempre di più la condizione umana.
Un esempio più banale può chiarire questo punto: la critica del capitalismo nei confronti del comunismo consiste nell’obiettare che il comunismo, proponendosi come scopo la società giusta, finisce con il non saper dare ai lavoratori, agli operai, quello che invece il capitalismo riesce a garantire, assumendo come scopo non il benessere di questi strati sociali ma il profitto privato. Questo a conferma del fatto che l’uomo si salva rinunciando a porsi come scopo. Certamente senza elemento umano non si dà apparato tecnologico; però l’elemento umano è un analogon di quelle forze come la democrazia, la religione ecc., destinate a diventare esse stesse mezzi nelle mani della tecnica. Ragion per cui, mentre oggi il capitale si serve della tecnica per crescere sempre di più, domani sarà la tecnica a servirsi del capitale per incrementare in modo indefinito la propria potenza.
Il “paradiso” della tecnica, ovvero la coerenza estrema dell’errore, non è comunque l’ultima parola, perché verrà il tempo in cui i popoli parleranno proprio questo linguaggio, il linguaggio dell’errare estremo, per il quale le cose vengono nel nulla e tornano nel nulla. Questa altro non è se non la forma originaria dell’omicidio, il cui scopo è annientare, eliminare completamente l’avversario, il nemico, in modo che non possa più turbare o ostacolare i progetti dell’agente. L’eliminazione originaria consiste proprio nel pensare le cose come di per sé stesse attraversate, inficiate, inquinate dal nulla. Questo pensiero (che può turbare la coscienza religiosa) è anche il pensiero del divino, perché il divino realizza la forma di omicidio originario: se il Dio pensa l’uomo come qualcosa che di per sé è nulla (Tommaso diceva delle creature che sono propre nihil), crea le premesse per cui poi sulla terra gli uomini continuino ad uccidersi.
Da questo nichilismo si esce solo pensando a qualche cosa di infinitamente più alto di Dio e cioè pensando che ogni cosa, anche la più umile, è ed è impossibile che non sia, cioè è eterna. E questo è quello che nei miei scritti chiamo contenuto del de-stino della necessità.
Il testo deriva da un’intervista di Luca Taddio a Emanuele Severino realizzata per la Rai.
http://www.filosofia.rai.it/articoli/emanuele-severino-ripensare-leuropa/21117/default.aspx