Nei giorni in cui un dibattito ininterrotto ricentra alcune idee, quali per esempio quella di ‘libertà occidentale’ o quella di ‘lotta al fondamentalismo’, e mentre allo stesso tempo ne ri-plasma altre, come quella di ”un’identità francese ultraeuropea’, mi trovo a voler allargare il cerchio su alcune questioni a margine dei fatti appena avvenuti.
Dall’alba successiva all’esecuzione parigina, molte testate hanno procurato esaurienti geografie dell’espansione del jihadismo, mostrando come un’ipotesi geopolitica avvertita possa connettere i fondamentalismi mediorientali anche a varie aree più a ovest, cioè a tutto il Nord Africa e a una parte dell’Africa sub sahariana.
Questa porzione del discorso di allarme permette cioè di riconsiderare alcune ‘figure’ della narrazione contemporanea sul multiculturalismo, che mi sembra interessante ricordare.
Un tempo venne Oliviero Toscani. Fra il 1989 e il 1990 il fotografo ufficiale di casa Benetton attrasse su di sé premi e critiche con due campagne in cui appunto il multiculturalismo si faceva bandiera etica oltreché commerciale. La prima delle due aveva come emblema uno scatto in cui si raffigurava il seno di una donna di colore in contrasto con la pelle bianca di un neonato fra le sue braccia. In quel caso il discorso Benetton pungolava direttamente diversi aspetti del razzismo verso gli individui di pelle scura. Ma la seconda campagna evolveva la strategia comunicativa in un altro senso. Non si evocavano più solo due ‘razze’. Al centro di una fotografia famosissima, nel 1990, c’erano un bambino asiatico, uno nero e uno bianco. L’opposizione fra Nord e Sud di una stessa fascia di popolazione del pianeta esplodeva dai lati e richiamava la ricchezza di un confronto fra Occidente e Oriente.
Questa considerazione ‘omnicomprensiva’ di tutte le tipologie delle culture umane, che Toscani evocava attraverso il contrasto estetico fra fototipi genetici, negli ultimi anni è d’altronde al centro della programmazione pedagogica dell’Unione Europea.
A ciascun Paese membro, cioè, si cerca di inoculare un senso dell’integrazione che informi per prima cosa le strategie di insegnamento nella scuola primaria e secondaria.
Appare subito evidente, però, che le ragioni di questa scelta designano tipi di destinatari eterogenei. Nel caso più semplice si tratta di educare alla ‘diversità’ un gruppo di alunni omogeneo, tutti i figli dei figli dei figli dei figli di persone nate e cresciute in uno stesso stato dell’Unione. La narrazione multiculturalista, in questo caso, può essere considerata funzionale ad attrezzare i ‘cittadini della nuova Europa’ ad un allargamento della concezione dell’identità come nazionale; allargamento che sarà loro utile nella rapida trasformazione ‘continentale’ della società europea.
Tutt’altra cosa è dover insegnare la diversità a una classe di prima elementare in cui i bambini non discendono tutti da individui cresciuti per generazioni nello stesso Paese. In questo secondo caso la pedagogia chiama in causa il problema del riconoscimento reciproco. L’Altro si materializza fra i banchi e il concetto di ‘identità indigena’ chiede di essere ripensato. Ecco che il discorso delle direttive europee sul multiculturalismo entra nel suo vivo.
L’elemento semioticamente rilevante nel caso di questo secondo contesto pragmatico, dunque, appare quello dell’assegnazione di determinati valori alla diversità, espressi a partire da determinate tematizzazioni. Consultando diversi testi con i quali l’Unione Europea si sforza di dirigere il processo educativo, fra i quali rimando al report 2004 Eurydice per l’istruzione comunitaria, si possono individuare tre componenti tematiche della narrazione multiculturalista: la cultura, la religione, la lingua. Per darne una descrizione ancora più dettagliata, però, si può ricorrere alle categorie di una logica (semiotico) deontica, secondo la quale, cioè, tracciare il modo in cui una pedagogia di questo tipo suggerisce o indica, oppure vieta, il confronto con l’Altro su ognuno di questi temi. Infine, c’è anche la questione di quale ruolo viene assegnato al Sé e all’Altro in termini di simmetria.
La prima componente mi sembra essere quella di una tematizzazione simmetrica della diversità culturale, per cui potremmo parlare di una vera e propria prescrizione da parte della narrazione multiculturalista. La seconda appare quella di una valorizzazione simmetrica della diversità religiosa, che risulta piuttosto ammessa in molti discorsi che realizzano questa narrazione. La terza tematizzazione, nuovamente prescritta, è quella asimmetrica che riguarda la diversità linguistica.
Il primo termine /cultura/ nella pedagogia multiculturalista sembra comprendere aspetti diversi relativi alle abitudini di un gruppo umano, come la cucina, la scansione temporale delle attività quotidiane, le strutture familiari, le festività riconosciute, i giochi, gli strumenti, le arti, le istituzioni amministrative e burocratiche di varie aree geografiche. Il secondo versante, quello della /religione/ appare meno centrale per il multiculturalismo: sembra che si assuma in modo implicito che non è prevista una necessaria curiosità reciproca verso gli aspetti delle abitudini religiose dell’Altro, anche se di caso in caso può essere previsto un lavoro di comparazione fra pratiche e credenze. La terza tematizzazione infine, quella della /lingua/, si accompagna con la prescrizione di programmi di mantenimento da parte dell’Altro, cioè dell’alunno non ‘nativo’, della sua eventuale lingua madre diversa da quella dell’apprendimento scolastico. In questo senso si marca in modo chiaro una diversità non simmetrica, dato che mentre il confronto fra culture può essere svolto all’interno dello stesso ambiente di apprendimento scolastico per nativi e non nativi, l’esercizio della facoltà linguistica dell’Altro è incoraggiato secondo un percorso parallelo di supporto pedagogico, cioè fuori dall’ambiente condiviso fra nativi e non nativi.
Con queste brevi note su una pedagogia ‘multiculturale’ voglio tornare alle questioni di partenza. Come si riconnette la questione dell’allarme anti fondamentalismo con la narrazione multiculturalista? L’alterità del fondamentalismo ha a che fare con l’Altro nella nuova pedagogia dell’Unione? Mi pare possibile rispondere richiamando di nuovo la classificazione deontica che abbiamo visto. Infatti, e forse non troppo sorprendentemente, il multiculturalismo sembra interdire in modo radicale qualunque tematizzazione politica. Si può supporre, cioè, che diversi tipi di alterità saranno ammessi attraverso l’espressione di ‘figure’ legittime del multiculturalismo, anche se saranno espresse da individui culturalmente ‘vicini’ ai luoghi identitari del jiadismo, di religione musulmana e di lingua araba. Ma la discriminante è proprio l’interdizione politica. Quello che il multiculturalismo europeo vieta è dunque l’assimilazione fra un’identità religiosa e una politica. Non è possibile, per questa narrazione, costruire piani di confronto politico, entro i quali prevedere un’alterità ‘integrabile’. Pena, è chiaro, la stessa distruzione della strategia che punta all’uniformazione europea.
Per fare più chiarezza sul modo in cui il multiculturalismo risulti una narrazione concorrente ad altre su un piano precisamente politico si può pensare all’Alterità dei nuovi cittadini europei di provenienza subsahariana. Per tutti gli alunni europei provenienti dal Ghana, o dalla Tanzania, o dal Camerun, o dal Senegal, come da molti altri paesi dell’Africa subsahariana, il multiculturalismo (sulla scorta dell’etica lanciata, fra gli altri, da Toscani) lavora attivando la diversità culturale e religiosa. Da qui un confronto fra diversi canti, cibi, ambienti naturali, abitudini familiari e strutture urbanistiche. Ma anche informazioni su tecniche edilizie europee e africane, credi religiosi popolari e tribali, feste, onomatopee delle varie lingue europee e bantu, o di uno dei numerosissimi ceppi linguistici africani. Persino qualche caso in cui un ‘nuovo europeo’ subsahariano possa venire incoraggiato a proseguire l’apprendimento dell’arabo, se proviene da una zona di lingua araba, e magari di religione musulmana.
Decisamente interdetto, tuttavia, nel discorso multiculturale, il confronto fra identità linguistiche, anziché diversità, come nel caso in cui l’Altro africano parli francese, inglese, italiano, o portoghese per l’eredità della contaminazione culturale verificatasi con la fase politica del colonialismo europeo.
L’antropologia culturale più recente ha dedicato una grande attenzione al problema dell’identità delle culture dell’africa sub sahariana reduci dall’esperienza coloniale. Sulla scorta dell’esempio drammatico dell’etnicizzazione ruandese di Hutu e Tutsi, in antropologia culturale oggi si assume che anche l’etnicità sia una categoria identitaria suscettibile di infiniti impieghi di tipo politico. In questo senso, probabilmente, la tematizzazione di un confronto di culture fra un Sè europeo e un Altro africano rischia di ipostatizzare differenze manichee e poco pertinenti. Laddove, invece, si può ben credere che riconoscere un nativo africano come un ex colonizzato rispetto a un sè come eventuale ex colonizzatore aprirebbe a una valorizzazione diacronica del processo di ‘appartenenza all’Europa’ più utile per entrambi.
Per uno sviluppo di queste osservazioni, infine, potrebbe essere interessante rendere conto di come, tanto quanto il colonialismo può essere studiato quale narrazione dotata di precise caratteristiche strutturali, lo stesso possa valere per il multiculturalismo. Un punto di partenza potrebbe essere riconoscere che la ‘civiltà dell’Europa’, figura citata spesso in questi giorni, è stata un elemento rivendicato da entrambe queste narrazioni.