Dedicando un libro alle Poetiche del testo filosofico, Eleonora Caramelli si addentra in un sentiero piuttosto intricato e oscuro, quello tracciato dalla plurisecolare liaison fra filosofia e letteratura. “Intricato”, poiché solcato da una relazione che, seguendo la sfumatura del francese, è sia erotica, sia, come ogni vero amore, prolificamente polemica; di più, “oscuro”, o quasi nascosto, nonostante la sua longevità, poiché ben poco battuto. Del resto, come ricorda Caramelli, la locuzione “filosofia della letteratura” è un’invenzione piuttosto recente e il ritardo nell’esprimere questa dicitura dovrebbe insospettire circa la presunta innocenza del proposito stesso (cfr. Caramelli 2024, p. 7).
Nonostante le complicanze indicate, Caramelli riesce a dirimere le maglie del tema e a dipingerlo in un quadro fertile di riflessioni. L’autrice, del resto, si occupa di filosofia della letteratura da diverso tempo: professoressa di Estetica presso l’università di Bologna, è da anni anche membro associato del FleCiR – Centro Interuniversitario di Ricerca su Filosofia e Letteratura. A questo proposito, si possono menzionare alcuni scritti dell’autrice già dedicati al tema; in particolare, la monografia Eredità del sensibile. La proposizione speculativa nella Fenomenologia dello spirito di Hegel (2015) e la curatela del libro La logica della letteratura di una narratologa come Käte Hamburger (2015).
Tuttavia, nel percorso di Caramelli, la peculiarità di questo testo è significativa: qui l’autrice affronta il tema della scrittura filosofica direttamente, non solo illuminandola sulla linea frastagliata che segna il confine con la scrittura letteraria, ma ponendosi lei stessa in dialogo con gli autori che arricchiscono la riflessione, ovvero Hegel e Merleau-Ponty – due filosofi che, come ben sottolinea, pur lontani nel tempo «hanno una cosa in comune: sono degli sperimentatori e critici del linguaggio filosofico» (Caramelli 2024, p. 35).
Come precondizione indispensabile per assistere a tale dialogo, Caramelli mette in guardia i lettori e le lettrici circa conclusioni troppo facili e avventate sulla liaison filosofico-letteraria. Innanzitutto, ricorda di diffidare da coloro che propongono una sorta di traslazione dalla letteratura alla filosofia, come se la prima avesse qualcosa da insegnare alla seconda. Nondimeno, facendo attenzione a non obliterare la specificità di entrambe, Caramelli esorta comunque ad approfondire il discorso in direzione di una filosofia della letteratura che renda la sfumatura del genitivo soggettivo, secondo cui le due discipline, in un certo senso, si imparentano, si frequentano, ma infine ritornano ognuna a casa propria. Del resto, come ribadisce Caramelli, se c’è un monito che la letteratura può suggerire alla filosofia è, in primo luogo, quello di non mirare a priori verso una ideale comunione, perché è precisamente la diversità a essere di interesse filosofico (cfr. ivi, p. 28).
A seguito di tali premesse, l’autrice apre il lavoro sul caso di studio hegeliano: nella Fenomenologia si trova infatti l’ingresso di un celebre personaggio letterario, l’Antigone dell’omonima tragedia di Sofocle. Come racconta Caramelli, l’eroina tragica viene «scritturata» (ivi, p. 54) da Hegel come figura, ma sembra interpretare un ruolo non propriamente lineare. Di fatto, se nell’opera classica Antigone era «il pathos greco per eccellenza» (ibidem), portatrice di una serie di valori granitici e pronta ad agire in conformità ad essi, nella Fenomenologia sembra recitare un ruolo che non le appartiene del tutto, poiché in punto di morte pronuncia quasi una ritrattazione, come mettendo da parte quella autonomia che era al contrario la sua stessa cifra. Infatti, affermando «[p]oiché soffriamo, riconosciamo di avere sbagliato» (Hegel 1807, p. 315), l’Antigone di Hegel corrompe il senso originale del testo, che doveva suonare piuttosto: “se soffrissimo [davanti agli dei], riconosceremmo di avere sbagliato”. L’originale suonava dunque come una provocazione, poiché per l’Antigone la morte stessa era la vittoria della propria intangibilità. Per Caramelli, questo non è né un travisamento, né un errore: la traslazione dell’Antigone antica sul piano del dubbio moderno coincide con la trasformazione da personaggio letterario a figura di pensiero. Seguendo insieme a Caramelli tale possibilità, l’Antigone di Hegel non sarebbe un’eroina corrotta, bensì un personaggio nuovo, emancipato dalla propria fonte classica.
A questo punto, Caramelli si sofferma sull’orizzonte problematico che tale ipotesi apre, ovvero quello della riformulazione filosofica di un personaggio letterario. Nel caso di Hegel, la questione può essere compresa a partire da uno sguardo sul suo sperimentalismo poetico, che probabilmente è «più sfuggito che voluto» (Caramelli 2024, p. 62). Infatti, la battuta con cui Antigone prende parola, staccandosi dal testo senza alcuna introduzione dichiarativa, potrebbe essere interpretata come un vero e proprio monologo interiore del personaggio – uno strumento che, in narratologia, fa sì che il personaggio sostituisca il narratore e lo cancelli (cfr. Genette 1972, p. 222; cit. in Caramelli 2024, p. 65).Per Caramelli, tale posizione fa sì che i versi di Antigone si distinguano anche rispetto al testo filosofico, in modo tale che l’eroina, da ultimo, si emancipi persino dalla discorsività filosofica, ritornando alla propria libertà. In tale maniera, per Caramelli, si vede bene anche la non sovrapponibilità di letteratura e filosofia, dove la riflessione sulla distinzione stessa ricompensa, da una parte, la letteratura con più libertà, e dall’altra la filosofia con più lucidità. Così, la filosofia sembra trovare il riconoscimento autocritico della propria fallibilità proprio nel confronto con la letteratura, per poi dismettersi da essa, e provare e riprovare ancora.
Lo stesso meccanismo ritorna esplicitamente in un autore come Merleau-Ponty, protagonista filosofico della seconda parte della conversazione. Il pensiero merleau-pontiniano ha infatti sempre insistito sul fatto che la postura della filosofia debba essere caratterizzata da una torsione, così che il movimento filosofico per eccellenza diventi un movimento a ritroso, in grado di accedere senza pregiudizi a un momento pre-espressivo, ben più ricco e vivace di quello preordinato, limitato in maniera infeconda della dimensione del “dato”. Può sembrare strano affermare che un testo di filosofia possa accedere, con la parola, a un mondo che sta dietro la parola stessa, ma non lo è se si mette a confronto con la posa della letteratura: «quando il vissuto è diventato un libro possiamo leggere e rileggere, andare avanti e indietro», e in tale circolarità far riemergere qualcosa che non si trova in maniera affermativa, ma quasi di sbieco, in modo tale che prima non poteva essere visto (ivi, p. 92).
Di fatto, Caramelli ricorda che il romanzo è ciò che riesce a uscire dal vicolo cieco in cui ci troviamo quando ci accorgiamo che «niente è più difficile che il sapere esattamente quello che noi vediamo» (Merleau-Ponty 1945, p. 102; cit. in Caramelli 2024, p. 92). In altri termini, come spiega l’autrice, finché il sapere si pensa solo come sapere disincarnato, è incompatibile con il vedere; invece, proprio quando proviamo a scrivere quello che vediamo, sapere e vedere si riavvicinano. Per questo, Merleau-Ponty confronta il suo stesso stile filosofico diversi stili letterari, in particolare con quello di Proust, in cui trova una vera e propria “maniera di filosofare”. Del resto, Proust è abilissimo nel presentare il doppio senso fin qui mostrato: solo alla fine de À la recherche du temps perdu il narratore si rende conto che quello che stava cercando dall’inizio era la sua stessa vocazione di scrittore; allo stesso modo, arrivati apparentemente alla fine del percorso, anche noi ci accorgiamo che quanto abbiamo letto è la genesi stessa del romanzo, e possiamo ripercorrerlo per vedere altrimenti ciò che subito si era presentato in maniera ingannevole (cfr. ibidem).
Per approfondire il momento della scrittura filosofica, Caramelli si sofferma quindi sul concetto di stile, che in Merleau-Ponty si sviluppa tramite il confronto con quello di Proust, che a sua volta riflette su quello di Flaubert, il quale, infine, afferma semplicemente che «lo stile è tutto» (Flaubert 1980, p. 507). In altre parole, Flaubert sa bene che in un romanzo non occorre spiegare la psicologia dei personaggi mediante asserzioni e dissertazioni, perché essa emerge tramite i loro atti. Dunque, non potendosi servire delle parti del discorso intellettualistiche, il narratore deve saper parlare per bocca delle cose; di fatto, di contro all’atteggiamento che va a cercare una qualche idea per trovare la parola, l’ispirazione poetica non può che procedere dall’esperienza alla scrittura.
Ripercorrendo tali riflessioni, Caramelli individua un rimando polemico alla filosofia: il «misterioso Proust-filosofo» sembra infatti suggerire a Merleau-Ponty come la ricerca filosofica rischi di andare nella direzione sbagliata quando presume che le sia sufficiente «spremere le meningi in solitaria per trovare la verità» (ivi, p. 136) . Di contro a tale atteggiamento, la “buona” filosofia dovrebbe essere quella che, «esponendo il fianco alla contingenza», può tornare sui propri passi senza vergogna, arricchendosi così di significati (ibidem). Del resto, come succede in Proust, la verità non si trova cercandola, ma erompe solo quando meno la si aspetta, come da sotto un coperchio.
In conclusione, seguendo una metafora che l’autrice riprende da Merleau-Ponty, si può affermare che, come il tessitore, anche il romanziere e il filosofo devono lavorare alla rovescia: così si troveranno infine circondati di senso (cfr. ivi, p 144). Ciò è l’ennesima dimostrazione del fatto che, attraverso le opere letterarie, la filosofia può e deve interrogarsi in maniera critica sullo statuto del proprio discorso, ma soprattutto guardarsi dietro le spalle, realizzando la proposizione speculativa in senso letterale, secondo la sfumatura dell’infinito riflettersi allo specchio. Dunque, il momento poetico del testo, che Caramelli chiama metaforicamente «legame musaico», è parte integrante del compito del filosofare: solo nel mettere in discussione il proprio rapporto con le parole, la filosofia può comprendere – senza mai afferrare del tutto – che il linguaggio dice qualcosa di vero sul reale proprio laddove non pretende di esaurirlo (Caramelli 2024, p. 147). Così Caramelli conclude il proprio lavoro, esortando i suoi lettori e le sue lettrici ad arricchire infinitamente la loro vocazione al pensiero, che resta feconda solo in un dialogo sempre aperto con la letteratura e con la filosofia.
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Caramelli, Eleonora
2024 Poetiche del testo filosofico: Hegel, Merleau-Ponty e il linguaggio letterario, Carocci, Roma 2024.
Flaubert, Gustave
1980 Correspondance, a cura di J. Bruneau, vol. II, Gallimard, Parigi 1980.
Genette, Gerard
1972 Discorso del racconto, in Id., Figure III, trad. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino 2006.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
1807 La fenomenologia dello spirito (1807), a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.
Merleau-Ponty, Maurice
1945 Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003.
Flaubert, Gustave
1980 Correspondance, a cura di J. Bruneau, vol. II, Gallimard, Parigi 1980.