Critica e autocritica del progresso

È concepibile una situazione in cui la categoria di progresso perda il suo significato, e che tuttavia non sia la situazione della regressione universale che oggi si allea col progresso. In tal caso il progresso si trasformerebbe nella resistenza all’incessante pericolo della ricaduta. Il progresso è quest’opporre resistenza al pericolo su ogni gradino, non l’abbandonarsi al flusso globale del processo, non il lasciarsi andare in balìa della scalinata.

(Theodor W. Adorno, da Parole chiave. Modelli critici)

  1. Critica e progresso

Negli ultimi anni il tema del progresso è tornato all’attenzione del dibattito filosofico, e non sono pochi oggi i contributi teorici a recuperare un’idea forte di progresso che non si limiti a pensarlo in termini di possibilità, ma anche di realtà fattuale. [1] Alcuni di questi contributi si rifanno all’idea di evoluzione morale o di incremento etico-politico in termini di conquiste istituzionali e giuridiche. Una ripresa teorica che si presenta curiosamente in controtendenza rispetto alla generale percezione di una crisi del progresso e di fiducia che sembra investire le società occidentali. Tuttavia, la rivalutazione di un concetto così esigente deve sapersi accompagnare a una consapevolezza delle sue eventuali distorsioni e dei suoi eventuali nodi problematici. Il dibattito che ha di recente animato la teoria critica intorno all’idea di progresso può senza dubbio aiutare ad accrescere tale consapevolezza. 

Il punto di vista che la teoria critica può offrire è quello di un’analisi dei rapporti di potere relativi e spesso impliciti ai concetti e alle formazioni di pensiero; un’impresa teorica non meramente decostruttiva poiché interessata anche a illuminarne contenuti di riflessione ed emancipazione. In polemica con le varianti deterministiche, continuiste e positivistiche del marxismo, la Scuola di Francoforte è nota tra le altre cose per aver mostrato un radicale scetticismo “dialettico” verso il progresso, specie da parte in figure come Theodor W. Adorno e notoriamente in Walter Benjamin. Come ben si evince dalla documentata “biografia collettiva” scritta da Stuart Jeffries Grand Hotel Abyss [2], l’idea di progresso appariva agli occhi dei primi francofortesi come potenzialmente ingannevole per le classi subalterne e come un dispositivo di giustificazione delle catastrofi passate e presenti in nome di una presunta necessità storica.

Con la svolta generazionale e filosofico-normativa inaugurata da Jürgen Habermas, inserita in un quadro storico ben diverso, quello dell’Europa post-bellica, il tema del progresso morale nella teoria critica ha riacquisito notevole importanza, con una sua riabilitazione in chiave post-metafisica, problematica e fallibilista. Da concetto ‘sinistro’ il progresso appare una possibilità nonché un’idea effettivamente ricostruibile nella storia. Habermas prima e Axel Honneth, in seguito, avrebbero infatti associato le loro proposte etico-politiche a un recupero del progresso morale come insieme di processi di apprendimento, rifacendosi variabilmente tanto alla psicologia dello sviluppo (Kohlberg) quanto ai processi di costruzione del sé attraverso l’interazione sociale (Hegel, Mead). Habermas ha infatti concepito la sua etica del discorso come l’esito di un processo di razionalizzazione e apprendimento comunicativo che conduce progressivamente gli attori sociali ad assumere un punto di vista universalistico sulla morale, mentre nei testi di Honneth le dinamiche di riconoscimento si presentano come l’esito cumulativo di lotte sociali, culminate nella storia delle istituzioni della modernità europea. [3] 

Habermas e Honneth intendono perseguire una concezione non deterministica della storia, non solo rifacendosi alla filosofia della storia kantiana di carattere pragmatico, ma anche seguendo un metodo che si potrebbe descrivere nei termini di una ricostruzione razionale del progresso morale, attingendo in questo anche all’eredità di Hegel. In breve, il metodo ricostruttivo cercherebbe di ricavare dall’esperienza sociale quegli ideali che emergono dall’immanenza e mostrano in qualche modo un loro surplus di validità, ovvero una loro proiezione normativa trascendendo il contesto storico: l’ideale dell’autonomia così come quello della libertà sociale e del riconoscimento reciproco.

  1. Il problema coloniale

In anni recenti, tuttavia, alcuni critici come Thomas McCarthy e soprattutto Amy Allen hanno messo in dubbio i presupposti neo-progressisti della nuova teoria critica. McCarthy, con il suo studio Race, Empire, and the Idea of Human Development (2009) si è concentrato sulle forme storico-culturali di abuso, distorsione, manipolazione del concetto di “sviluppo”, spesso utilizzato per giustificare atti ingiustificati di colonialismo e imperialismo. Il progresso è presentato da Mccarthy come “intrinsecamente ambivalente, indispensabile e pericoloso” [4]. Al tempo stesso, egli tenta di riabilitare l’idea di sviluppo in chiave genuinamente inclusiva e democratica, ricollegandosi non soltanto all’etica del discorso ma anche al modello dello “modernità multiple”. 

Con l’ausilio degli studi post-coloniali e di una rilettura e ripresa di Adorno e Foucault, Amy Allen, con il suo lavoro The End of Progress: Decolonizing the Normative Foundations of Critical Theory (2017) ha mosso con più vigore una critica radicale verso le teorie stadiali del progresso di Habermas e Honneth, accusando i due autori di ‘imperialismo informale’. [5] Le concezioni di progresso storico-morale della nuova teoria critica elaborate alla luce del metodo ricostruttivo, questa la tesi centrale di Allen, non sarebbero esenti da uno strutturale eurocentrismo. Il punto di vista che vede i processi di apprendimento morale culminare nella modernità europea determinerebbe in ultima analisi una non troppo velata narrativa di “self-congratulation” (autocompiacimento), che si fonda su una divisione inevitabile tra chi “ha appreso” e chi si trova “al di fuori” da questi processi di apprendimento. 

Una storia del “not yet”, per dirla con lo studioso indiano Dipesh Chakrabarty, del “non ancora”, per il quale alcuni popoli dovrebbero aspettare di conformarsi a processi di apprendimento morale già avvenuti in Europa, soggiornando in una scomoda “sala d’attesa” della storia. [6] Se il progresso implica una visione a suo modo stadiale, vuol dire che esso adotti una gerarchia che stabilisce chi è “avanti” rispetto a chi si trova “indietro”. In questo senso, sebbene in un’ottica universalistica votata all’emancipazione, l’idea di progresso morale portata avanti da Habermas e Honneth potrebbe nascondere un carattere informalmente imperialista. 

È qui che Allen suggerisce di tornare al modo di pensare il progresso dei primi francofortesi, in particolare all’Adorno della dialettica negativa e critico del progresso storico, con l’innesto fondamentale di Foucault, rintracciando non a caso nel metodo genealogico e problematizzante la chiave di una teoria critica del progresso. Quest’ultima dovrebbe essere in grado non di confermare razionalmente un punto di vista, quello europeo-occidentale, bensì di decentrare il nostro sguardo, problematizzandolo costantemente, facendo emergere quel legame sapere-potere che è intrinseco a ogni ordine del discorso. 

Facendo questo, in verità, Allen non si discosterebbe molto da un modello di critica immanente come “autocritica della modernità” (Stefano Petrucciani [7]), ovvero un’impostazione che denuncia la civiltà occidentale alla luce dei suoi stessi presupposti. Allen, infatti, non avrebbe in mente di avanzare una “negazione astratta dell’eredità normativa della modernità, bensì una più piena realizzazione di tale eredità” [8]. La pratica dell’autocritica consisterebbe nel mostrare le contraddizioni interne agli ordini sociali (ad esempio, colonialismo e globalizzazione) se messi in relazione a concetti e ideali esigenti ad essi correlati (progresso e universalità). Inutile nascondere però che l’esercizio di questa critica riflessiva possa facilmente cadere in una negazione indeterminata dell’oggetto della critica. 

Nel tentativo di fuoriuscire dal vicolo cieco della logica implicitamente eurocentrica dello sviluppo, a una lettura del progresso che guarda all’indietro (backward-looking progress) Allen contrappone un’idea alternativa, negativistica e future-oriented di progresso morale, basata su uno sguardo umile e aperto all’alterità. Il criterio di questa pretesa negativistica è il cosiddetto “contestualismo meta-normativo”, secondo cui “noi” euro-occidentali accettiamo alcuni valori contestuali a un primo ordine di normatività, come libertà, autonomia, eguaglianza, giustizia, e così via, e tuttavia assumiamo una normatività di secondo ordine che impone di pensare quei valori come essenzialmente contestuali e di abbracciare nient’altro che apertura e umilità epistemica, nell’ottica di un “learning to unlearn” [9]. È tutto questo sufficiente nell’ottica di una teoria critica del progresso che miri a decolonizzarne il contenuto morale, e perciò aprirlo a coloro che si sentono legittimamente esclusi da eventuali logiche di apprendimento eurocentriche?

  1. Un’autocritica del progresso?

La critica post-coloniale pone un problema reale, che qualunque genere di teoria del progresso deve saper affrontare. Se però le obiezioni di ‘imperialismo informale’ nei confronti di un’idea stadiale di progresso morale vanno prese sul serio, si tratta anche di comprendere quali siano i limiti di proposte alternative come quella di Allen. Per quanto ella non intenda avanzare una “negazione astratta dell’eredità normativa della modernità”, Allen insiste nel dire, seguendo qui Adorno, che realizzarla vuol dire trascenderla, ma la sua rischia di essere un’auto-critica del progresso a metà: nel trascenderlo sembra perderlo del tutto. 

In primo luogo, sul piano etico e propositivo, il problema del contestualismo meta-normativo può risiede essenzialmente nel dividere in due la nostra esperienza morale individuale e collettiva: da un lato portatori contestuali di valori locali, dall’altro individui aperti e umili. Così facendo c’è il rischio di una reiterazione di ciò che Edward Said contestava proprio nel suo Orientalism, vale a dire il dispositivo dell’“othering” [10]: ritenere che l’Altro sia radicalmente altro, a tal punto da non immaginare una prospettiva condivisa di norme. Eppure, il presupposto etico della teoria critica non dovrebbe fondarsi soltanto su una generica forma di apertura più simile al discorso interculturale, bensì su una nozione forte di emancipazione. 

Non sembra pertanto emergere nella proposta di Allen il fatto che l’Altro non sia semplicemente un interlocutore da ascoltare umilmente, ma che ma sia dotato di un potere autonomo, che possa e debba rendersi indipendente dal dominio del legame sapere-potere. Perché allora non riaffermare un principio discorsivo di non-dominio come livello di normatività di secondo ordine, che ecceda la morale abituale dei valori contestuali? Nel suo libro, McCarthy, partendo da una posizione più cauta rispetto a quella di Allen in merito all’eredità della morale moderna, lo scrive: “il principio etico-discorsivo di uguale partecipazione degli interessati alla costruzione condivisa delle strutture normative che governano la vita in comune” [11]. Un principio oltremodo formale e perciò stesso aperto e open-ended, come pure vorrebbe Allen, neutro rispetto ai valori di volta in volta da mettere in pratica e altresì capace di dotare eguale potere di co-legislazione.

Si tratta, in secondo luogo, di riflettere su quale nozione critica e normativa di progresso, possibilmente non stadiale, possa considerare elementi contestuali senza cedere a relativismo e convenzionalismo. La domanda può essere formulata come segue: come si può criticare il progresso senza fare a meno del progresso, anche quello passato? Proiettare un progresso al futuro è un esercizio tutto sommato semplice, se concepito come un dovere e un imperativo morale. È invece il progresso retrospettivo e storico a costituire il nodo teorico problematico nell’ottica di Allen e gli studi postcoloniali. La sfida sta quindi nel pensare un progresso rivolto al passato non in termini evolutivi e rigidamente sviluppisti, e in questo alcuni recenti contributi di teoria critica possono fornire argomenti utili e promettenti in tal senso, nello specifico il lavoro recente di Rahel Jaeggi su Fortschritt und Regression [12]. 

Non deve essere però dimenticato anche l’aspetto più propriamente pratico del progresso, vale a dire la sua funzione regolativa, capace di orientare gli attori sociali entro un determinato scopo e indirizzo che si presume legittimo. Il progresso ci permette d’altro canto di comprendere la nostra posizione storica rispetto a ciò che vogliamo ottenere, fornisce orientamento, il che non implica necessariamente doversi collocare in uno stadio di apprendimento ‘superiore’ rispetto agli altri. È quello che Kant tra le altre cose intendeva con l’idea di una storia prognostica e l’immagine del signum rememorativum, demonstrativum, prognostikon, l’indizio storico che ci fa dire a che punto siamo e dove forse andremo.[13] Un’autoriflessione critica del concetto di progresso può forse aprirlo a contesti socioculturali non occidentali, basandosi lo stesso su un criterio formale e ragionevolmente universale che giudichi in prima istanza le forme di regressione, o che ne sia in qualche modo ammonitore.

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[1] A titolo di esempio si veda H. Sauer, Moral Teleology: A Theory of Progress, Routledge, London 2023; rimando anche a F. Bina, Il progresso morale, Il Mulino, Bologna, in via di pubblicazione.

[2] S. Jeffries, Grand Hotel Abyss: The Lives of the Frankfurt School, Verso, London 2016, cap. 1.

[3] Sono molti i luoghi in cui Habermas e Honneth sviluppano e sistematizzano queste intuizioni, ma si vedano in particolare, rispettivamente, i saggi contenuti in J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985 e A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002.

[4] T. McCarthy, Race, Empire, and the Idea of Human Development, Cambridge University Press, Cambridge 2009, p. 18. 

[5] A. Allen, The End of Progress. Decolonising the Normative Foundations of Critical Theory, Columbia University Press, New York 2017.

[6] Cfr. D. Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, New Jersey 2007, p. 8.

[7] Cfr. S. Petrucciani, Theodor W. Adorno’s Philosophy, Society, and Aesthetics, Palgrave Macmillan, Cham 2021, p. 149ss.

[8] A. Allen, The End of Progress: Decolonising the Normative Foundations of Critical Theory, cit., p. 165.

[9] W. Mignolo, Delinking: The Rhetoric of Modernity, the Logic of Coloniality and the Grammar of De-Coloniality”, in “Cultural Studies” 21, no. 2/3, 2007, pp. 449-514: 485.

[10] E. Said, Orientalism, Penguin, London 2003, pp. 201 e 281.

[11] T. McCarthy, Race, Empire, and the Idea of Human Development, cit., p. 14.

[12] Si veda R. Jaeggi, Fortschritt und Regression, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2023. Ho provato anche a sviluppare queste tesi qui solo accennate in A. Volpe, Progress, Self-criticism, and Normativity: On Amy Allen’s The End of Progress, in “Critical Horizons”, forthcoming.

[13] Cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 223-239.


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