Sul ritorno alle “crisi” nella teoria critica contemporanea

‘Critique’ is the subjective evaluation or decision concerning a conflictual
and controversial process a crisis.”
(Seyla Benhabib)

1. Un ritorno alle crisi?

Nell’ambito della critica sociale, il concetto di “crisi” è per certi aspetti originario. L’intera ricerca sociale delle prime generazioni della Scuola di Francoforte può essere ricondotta a una vera e propria “teorizzazione della crisi europea”[1]. Le indagini anche empiriche della prima fase della teoria critica della società erano incentrate sulle forme di crisi che investivano le società dell’epoca: dagli studi sull’autorità e la famiglia, sino a quelli sulla personalità autoritaria e sull’antisemitismo. I frammenti filosofici che compongono Dialektik der Aufklärung (1947) possono essere considerati nel loro insieme un grande manifesto della crisi della ragione occidentale, concepito per spiegare l’avvento dell’autoritarismo in virtù delle stesse premesse della modernità illuministica. Si può dire, tuttavia, che quella radicalmente messa in stato d’accusa da Adorno e Horkheimer era una “meta-crisi”, incentrata su una critica più o meno totalizzante della ragione strumentale.

Dal punto di vista del loro allievo e prosecutore Jürgen Habermas, l’accusa nei confronti della ragione occidentale operata dai suoi maestri aveva tuttavia il limite di far implodere la critica stessa nella crisi, perché incapace di individuare una razionalità pratica alternativa a quella strumentale. [2] A riabilitare il nesso tra crisi e critica fu d’altra parte lo stesso Habermas – in uno scenario radicalmente mutato – nello studio intintolato Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973),tradotto in italiano come “La crisi della razionalità nel capitalismo maturo”[3] e in inglese “Legitimation Crisis”. In questo libro, Habermas faceva notare come nel capitalismo regolato dal welfare (tipico della stagione 1945-1975), a differenza del capitalismo liberale classico, le crisi economiche erano assorbite dallo Stato, generando tuttavia a sua volta una crisi politica di legittimazione delle istituzioni, nonché di partecipazione democratica. 

Nel corso dei suoi successivi sviluppi teorici, in particolare già sul finire degli anni Settanta, il tema della crisi viene in parte abbandonato. In Teoria dell’agire comunicativo (1981), Habermas preferisce il lessico delle “patologie sociali”, indicando con queste le forme di distorsione, deterioramento o reificazione interne al mondo della vita, per via dell’intrusione delle logiche di mercato e degli apparati burocratici. Più avanti, Axel Honneth approfondì e fece proprio il lessico delle patologie sociali interpretandolo nell’ottica delle dinamiche di misconoscimento, di umiliazione, esclusione sociale e offesa. [4]

Non c’è dubbio che ci siano anche ragioni di tipo storico del progressivo abbandono del tema della crisi, in particolare nell’opera più tarda e matura di Habermas, legata a doppio filo ai temi normativi dell’etica del discorso e della teoria della democrazia. Erano principalmente i problemi di disaccordo e diversità nelle società multiculturali e pluraliste ad essere al centro di queste riflessioni, nel quadro di riferimento delle liberal-democrazie europee ed occidentali, in quegli anni in relativo assestamento ed espansione, almeno fino alla fine degli anni Novanta. È però del tutto diverso il quadro storico al sorgere degli anni Duemila. Dalla crisi dei rapporti transatlantici con le guerre al terrorismo, sino alle numerose crisi dell’Unione europea e dell’Eurozona tra il 2008 e il 2013, Habermas stesso si è trovato a più riprese a dover esprimere posizioni critiche e persino auto-critiche, riconoscendo l’eccezionalità strutturale degli eventi in corso. [5]

Al contempo, anche sulla scia dei lavori dello stesso Honneth, ma anche di Rainer Forst, Rahel Jaeggi e Hartmut Rosa – direttamente o indirettamente allievi ed eredi dell’opera di Habermas – i nuovi esponenti della teoria critica hanno contribuito a riscoprire concetti e categorie a loro modo “classiche” della Scuola di Francoforte, quali alienazione, capitalismo, riproduzione sociale e lavoro, tra i tanti possibili. [6] Minimo comune denominatore di questo rinnovamento anche generazionale della teoria critica vi sono il superamento della sola sfera della comunicazione come “luogo della critica” e l’analisi a tutto campo della società, dalle istituzioni all’economia, dalla sfera pubblica al lavoro, oltrepassando la logica bidimensionale sistema/mondo della vita di eredità habermasiana. Anche i contesti “sistemici” dell’economia e del potere vengono analizzati e criticati nella loro intrinseca qualità normativa, non come sfere in qualche modo “neutre” e prive di valore. Come ha notato lo stesso Habermas, sollecitato su questo in una recente intervista, le nuove tendenze della teoria critica a lui successive hanno in tal senso variamente condotto un’esplorazione ulteriore dei diversi contesti sociali delle pretese di validità. [7]

Le sfide che la teoria critica ma più in generale la filosofia sociale ha di fronte sono quelle ben sintetizzate nelle formule “permacrisi” e “policrisi”, in qualche modo adatte a descrivere la condizione odierna, almeno quella relativa agli ultimi due decenni e in particolar modo esplosa negli anni dell’emergenza pandemica. È impossibile non menzionare gli eventi che hanno segnato questa nuova fase, tra gli altri: la crisi finanziaria post-2008, l’ascesa del populismo di destra, la crisi della democrazia rappresentativa, l’emergenza migratoria e climatica, l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze, l’emergere e l’accelerazione di nuove tecnologie.

2. La crisi come coagulo di contraddizioni

È dalla “global critical theory” che proviene un interesse sistematico verso il recupero dell’analisi delle crisi e in particolare dall’opera recente di Nancy Fraser. La filosofa femminista statunitense, teorica della parità partecipativa e della teoria bidimensionale della giustizia [8], ha infatti praticato quello che può essere definito un vero e proprio “crisis turn” nel dibattito sulla teoria critica internazionale. D’altra parte, già in diversi scritti nei primi anni Duemila così come in alcune interviste rilasciate [9], Fraser ha sostenuto l’idea secondo cui quello che Habermas aveva fatto per diagnosticare la crisi del capitalismo regolato dallo Stato, andrebbe fatto oggi per quel che riguarda la crisi del neoliberalismo. Il quadro trasformato, diverso da quello “keynesiano-westfaliano” [10] non imporrebbe soltanto un cambio degli ambiti di applicazione della teoria critica, ad esempio dalla dimensione locale a quella globale, bensì un vero e proprio mutamento della riflessione sulla giustizia.

In particolare, Fraser ha dedicato nei suoi ultimi scritti attenzione specifica al tema del capitalismo – riattivando anche in questo caso un’analisi sorprendentemente dimenticata dalla teoria critica –, concepito come il centro di gravità socioculturale entro cui e a partire dal quale è possibile spiegare le numerose crisi del contemporaneo. Lungi dall’essere meramente una struttura economica, il capitalismo è pensato da Fraser come un vero e proprio habitus che ingloba in sé diverse modalità di vita. Seguendo le categorie marxiane di “accumulazione”, “sfruttamento” ed “espropriazione”, estendendole anche agli ambiti della riproduzione naturale e sociale, Fraser ritiene che il capitalismo funzioni attraverso un meccanismo di cannibalizzazione, ma con una logica predatoria ben più ampia e sfaccettata di quella classicamente analizzata da Marx: “A differenza delle tendenze alla crisi evidenziate da Marx, – scrive Fraser – queste non derivano da contraddizioni interne all’economia capitalista, ma si fondano sulle contraddizioni tra il sistema economico e le sue condizioni di possibilità, tra produzione e riproduzione, società e natura, economia e sistema politico, sfruttamento ed espropriazione” [11]. Queste crisi si presentano infatti come “crisi di cannibalizzazione”, corrispondenti a quattro contraddizioni principali: ecologica, sociale, politica e razziale.

Significative e paradigmatiche sono infatti le analisi che offre Fraser sulle forme di espropriazione e conseguentemente di contraddizione che investono l’ambito ecologico e in particolare quello della cosiddetta “riproduzione sociale”. Quest’ultima designa il complesso di attività e bisogni orientati alla vera e propria riproducibilità della vita nella società: dall’accudimento dei bambini in tenera età all’assistenza per gli anziani. Essendo un sistema nel quale l’economico ha sempre bisogno dell’extra-economico – risorse naturali, sforzi fisici, assistenza e cura, ma anche desideri – e Fraser individua nei meccanismi di espropriazione l’indice dell’ingiustizia che caratterizza il capitalismo: quest’ultimo dipende e sfrutta queste risorse senza alcuna restituzione e riconoscimento, destabilizzandole. [12] Laddove l’ambito ecologico è considerato dal capitalismo (erroneamente) come un fondo indefinitamente disponibile, quello della cura è soggetto a impoverimento e misconoscimento, operando così, si potrebbe dire, una forma di free-riding nei confronti di natura e riproduzione vitale. L’espropriazione della riproduzione sociale determina una “crisi della cura”, fondata sulla crescente separazione tra la sfera della produzione/valorizzazione e quella della riproduzione sociale – ma tale schema si estende anche all’ambito della politica e delle istituzioni.

In parallelo alla diagnosi di Nancy Fraser, peculiarmente calate nei contesti reali di crisi e contraddizione delle società contemporanee, Rahel Jaeggi ha portato avanti un’elaborazione teorica improntata sulle dinamiche di trasformazione sociale per il tramite di crisi e contraddizioni. A confronto con quello di Fraser, l’approccio di Jaeggi appare ben più metateorico e speculativo (una “metacritica etica” [13]), ma nondimeno decisivo per comprendere meglio il rapporto tra crisi e contraddizioni etico-sociali, ma anche il ruolo della critica dinanzi ad esse. Interrogarsi sulla natura delle trasformazioni sociali corrisponde per Jaeggi alla domanda sulla natura delle crisi. L’idea fondamentale che muove il suo programma teorico è che le forme di vita (Lebensformen), intese come “fasci inerti di pratiche”, si presentano innanzitutto come “istanze di risoluzione di problemi” [14]. Le Lebensformen indicano la sedimentazione di comportamenti ricorrenti, stabiliti entro un certo fine e un certo valore o insieme di valori. Ne sono esempi, tra gli altri: la famiglia, la vita metropolitana, il mondo del lavoro, le regole e condotte linguistiche, la società dei consumi, il capitalismo. Esse sono perciò qualcosa di meno delle istituzioni giuridicamente codificate e qualcosa di più delle semplici mode e delle preferenze soggettive. Combinando l’approccio dialettico di Hegel con il pragmatismo di John Dewey, Jaeggi sottolinea esse abbiano “successo” fintanto che riescono a risolvere problemi, in un complesso processo di sviluppo e riscatto delle norme etico-funzionali alla base del loro funzionamento. Jaeggi illustra come questa logica pertenga soprattutto alle grandi crisi e rivolgimenti delle forme di vita moderne, in particolare la famiglia nucleare borghese e il mercato capitalistico. Esse sono infatti nate dalla risoluzione dei problemi etico-funzionali degli ordini sociali precedenti, inglobando e riconfigurando nuove rivendicazioni così come esigenze di tipo sistemico. In quanto “ambienti di apprendimento”, le forme di vita possono dirsi funzionali fintanto che sono capaci di includere e riscattare le pretese etiche provenienti dal loro interno – dagli attori sociali che si muovono entro il loro perimetro. La razionalità delle forme di vita e della loro trasformazione è dunque intimamente legata a forme di apprendimento collettivo; “falliscono”, al contrario, se si trovano a non disporre più delle risorse normative per risolvere le contraddizioni che le innervano, vale a dire quando si presentano dei “blocchi riflessivi di apprendimento”. 

Dalle due prospettive offerte Nancy Fraser e Rahel Jaeggi si potrebbero rintracciare le possibili “linee guida” di una teoria critica delle crisi. Non deve sorprendere che questo comune approccio abbia condotto le due filosofe a “incontrarsi” in un importante dialogo sul concetto di capitalismo, pubblicato nel 2018, nel quale entrambe sviluppano e intersecano ulteriormente il loro punto di vista: “We both support a crisis approach and the idea of developing a crisis critique” [15]. 

3. Una teoria critica delle crisi

Ma sul piano metodologico, cosa sta aggiungendo e cosa può aggiungere la teoria critica ai dibattiti sulle crisi in corso? Come suo tratto distintivo, la teoria critica esplorerebbe in primo luogo le cause immanenti dei fenomeni distorti, legandole a un contesto più ampio di relazioni di potere. Nella lettura emblematicamente offerta da Adorno nei Minima moralia, “non si dà questione etica che possa essere sganciata dall’analisi delle condizioni sociali in cui è posta” [16]. 

A differenza dei paradigmi liberali o delle etiche applicate, i fenomeni del populismo o la crisi delle autorità epistemiche tradizionali, per esempio, non verrebbero letti solo nei termini della rottura con la democrazia liberale e come del tutto estranei ad essa, bensì in un’ottica di continuità o meglio co-implicazione, mostrando come alcune caratteristiche intrinseche al sistema facilitino e permettano l’insorgenza di tendenze autoritarie o populiste. [17] Inoltre, l’approccio della teoria critica ricaverebbe la normatività e un “surplus di validità”, per dirla con Axel Honneth, dalle pratiche esistenti considerate, a partire dalla loro intrinseca specificità etica. Diversamente da un approccio di “neutralismo” o “astensionismo etico” che condurrebbe a un’indebita “irrazionalizzazione” [18] delle forme culturali e sociali, l’indagine teorico-critica tenterebbe di valorizzare gli aspetti specifici di ogni ambito del mondo della vita e di sfera di valore – dall’affettività alla vita lavorativa, dalla comunicazione alla deliberazione pubblica – trovando in essi e non in un criterio esterno le risorse riflessive e normative capaci di criticarne deviazioni o, per l’appunto, le crisi. 

Fraser ha denunciato a tale proposito il rischio metodologico di un “separatismo critico” (critical separatism) [19], vale a dire la tendenza delle teorie di concentrarsi su aspetti distorti specifici delle crisi, operando un’indebita astrazione. L’approccio separatista presuppone infatti che un fenomeno di crisi sia in qualche modo indipendente dalle relazioni di potere, anche ma non solo economiche, che ne pervertono il funzionamento. Dal canto suo, Rahel Jaeggi, insieme a Robin Celikates, ha parlato di “olismo moderato”[20] come approccio-guida dell’analisi critica, con il quale si descrive una prospettiva capace di superare sia l’individualismo metodologico incentrato su un soggetto-monade, sia un olismo totalizzante che conferisce eccessiva autonomia ai soggetti collettivi. L’olismo moderato si riferirebbe a invece alle pratiche inevitabilmente intersoggettive che strutturano la vita sociale, nelle quali è in gioco la relazione complessa tra individui e le aspettative stabilite dalle pratiche stesse. 

La modalità di critica che sia Fraser sia Jaeggi mettono in pratica si basa sull’esposizione di specifiche contraddizioni, un dispositivo teorico a suo modo classico della teoria critica di stampo francofortese. All’alternativa tra critica esterna, di tipo neo-contrattualista, e una critica interna/ermeneutica che emerge dalle incoerenze tra valori manifesti e realtà, Jaeggi contrappone la cosiddetta “critica immanente”: la contraddizione si sposta dalla semplice inconsistenza o ipocrisia degli ordini sociali all’attrito che si crea tra ciò che promettono di realizzare e il loro funzionamento oggettivo. Una tipologia di giudizio che richiama esplicitamente l’idea di critica dell’ideologia marxiana e della negazione determinata. Non solo: entrambe le autrici riconoscono il legame intrinseco tra aspetti etici e aspetti funzionali. Le crisi, infatti, esprimono un doppio volto: esprimono tanto uno squilibrio sistemico funzionale quanto una contraddizione tra differenti pretese di validità (ad esempio, valorizzazione economica contro cura). È infatti evidente come le crisi abbiano a che fare con elementi di riproducibilità della società, il cui “buon” funzionamento non si trova ad essere immune da ragioni di carattere etico e normativo. 

Jaeggi, tuttavia, risponde che non c’è modo di indicare “una risposta positiva alla domanda su cosa renda buona o adeguata una forma di vita”. Ne esiste, invece, “una negativa e indiretta: forme di vita fallimentari soffrono di una carenza di riflessione pratica collettiva, […] non sono in grado di risolvere i problemi che si pongono” [21]. Si persegue così una strategia negativistica, per la quale la teoria (critica) – anche per evitare rischi di paternalismo – si asterrebbe dal fornire un’immagine alla trasformazione, e pertanto della fuoriuscita dalla crisi. Le trasformazioni entro e oltre le loro crisi dipenderebbero nient’altro dalla capacità degli attori sociali coinvolti di risolverle in una maniera autonoma e auto-riflessiva – in altri termini, democratica. Fraser, da parte sua, di fronte alla crisi del capitalismo si appella a una “ricollocazione socialista”[22], ispirata a una logica inclusiva e partecipativa. Ma alla base dev’esserci l’idea che la critica stessa operi come denuncia oggettiva e risoluzione soggettiva e discorsiva delle crisi. 

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[1] Cfr. H. Brunkhorst, Habermas, Firenze University Press, Firenze 2008, pp. 1-24.
[2] Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997.
[3] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1975.
[4] A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002.
[5] Cfr. A. Volpe, Le ragioni dell’Europa. Habermas e il progetto d’integrazione tra etica e politica, Mimesis, Milano-Udine 2021.
[6] Cfr. G. Fazio, Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, Roma 2021.
[7] C. Czingon, A. Diefenbach, V. Kempf, Moral Universalism at a Time of Political Regression, in “Theory, Culture & Society”, 37(7-8), 2020, pp. 11-36: 20.
[8] Cfr. A. Cavaliere, Una giustizia a due dimensioni. Redistribuzione riconoscimento nell’opera di Nancy Fraser, Giappicchelli, Torino 2023.
[9] Si veda l’intervista rilasciata al canale “Otra Vuelta de Tuerka” con Pablo Iglesias del 5 aprile 2019: https://www.youtube.com/watch?v=CcRT9TpU4os&t=2051s
[10] N. Fraser, Fortune del femminismo, Ombre Corte, Roma 2013, p. 221.
[11] Id., Capitalismo cannibale, Laterza, Roma-Bari 2023, ed. digitale.
[12] Id., Contradictions of Capital and Care, in “New Left Review, 100, July/August 2016, pp. 99-110.
[13] G. Fazio, Ritorno a Francoforte, cit., p. 347.
[14] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 197.
[15] N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalism: A Conversation in Critical Theory, Polity Press, Cambridge 2020, ed. digitale.
[16] G. Fazio, Ritorno a Francoforte, cit., p. 333.
[17] Cfr. Z. Gambetti, Exploratory Notes on the Origins of New Fascisms, in “Critical Times”, 3(1), 2020, pp. 1-32. 
[18] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, cit., p. 55.
[19] N. Fraser, Fortune del femminismo, cit., p. 99.
[20] Cfr. R. Jaeggi, R. Celikates, La filosofia sociale. Una introduzione, Mondadori, Milano 2022.
[21] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, cit., p. 435.
[22] Cfr. N. Fraser, Capitalismo cannibale, cit.


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