Duro intelligere e morbido sentire
il peggio che ci possa capitare.
Patrizia Cavalli
Leopardi e la filosofia è un testo di recente edizione, curato da Gabriella Giglioni e Gaspare Polizzi, che si sostanzia in una serie di scritti all’interno dei quali il filosofo e storico della filosofia italiano Remo Bodei tenta, a più riprese, un confronto con il pensiero e l’opera di Giacomo Leopardi. Pubblicata postuma nel 2022 dalla casa editrice Mimesis all’interno della sua collana LEOPARDIANA, la raccolta si compone di nove saggi, di cui quattro inediti [1], elaborati dall’autore in un arco temporale che va dal 1992 al 2017. Come sottolineato dai due curatori, tale continuità testimonia senz’altro l’“attenzione di lunga durata” che Bodei riserva al poeta. All’interno dei vari scritti, l’autore affronta alcuni dei loci classici della poetica leopardiana – quali, ad esempio, il materialismo, la concezione della natura, il concetto di ultrafilosofia, ecc. –, mettendoli in risonanza con la tradizione filosofica che l’autore padroneggiava come pochi altri suoi contemporanei.
Questo tentativo di recupero si colloca nel solco del più generale interesse, registrato all’interno della teoresi e della critica italiane novecentesca e contemporanea, nei confronti del lascito filosofico di Giacomo Leopardi. In particolare, nel primo saggio, intitolato La scoperta del Leopardi filosofo e tratto dall’intervento tenuto da Bodei nel 2017 in occasione del XIV Convegno Internazionale di studi Leopardiani, i debiti dichiarati sono quelli nei confronti del maestro Cesare Luporini e dell’amico e compagno Sebastiano Timpanaro, entrambi fautori di una linea interpretativa tesa a collocare Leopardi entro la tradizione materialista. Già questo riferimento diretto ai due studiosi sembra, peraltro, porre Bodei in una posizione molto distante da chi accosta la riflessione del recanatese al pensiero di filosofi come Schopenhauer, Heidegger, Cioran. I molti richiami alle opere di Luporini e Timpanaro attraversano, peraltro, tutto il testo, facendosi segno tangibile del dialogo vivace, a volte critico, che Bodei intrattenne sul tema leopardiano con i due studiosi e, più in generale, con la prospettiva esegetica incline a ricondurre il poeta entro la tradizione materialista. Se è indubbio che il Leopardi di Bodei non si risolva del tutto in questa posizione, soprattutto – come vedremo – per il grande rilievo assegnato dallo stesso autore alla dimensione cosmica propria della riflessione leopardiana, appare comunque chiaro come all’interno del testo venga attestato maggior credito all’interpretazione materialista rispetto che alla tendenza a operare una lettura di Leopardi in chiave esistenzialista. In primo luogo, ciò appare giustificato dal fatto che Bodei giudichi l’accostamento di Leopardi al materialismo come filologicamente più rigoroso, ma non si tratta solo di una questione di metodo. Infatti, più si entra nel vivo dell’esegesi, soffermandosi sulla selezione dei topoi leopardiani operata dall’autore e sulla struttura entro cui egli li articola in costellazione, più tale “corrente calda” diviene decisiva. Entriamo, dunque, nel merito.
La prima citazione diretta dell’opera di Leopardi che troviamo nel testo è la seguente: «come l’uomo non può né collo intelletto né colla immaginazione né con veruna facoltà né veruna sorta d’idee oltrepassare d’un sol punto la materia» (Zib. 3503, 23 settembre 1823). Se si esamina la teoria della conoscenza leopardiana, elaborata sotto l’influenza dell’empirismo e del sensismo, la tenuta della posizione materialista appare saldissima. Citando Bodei, secondo il poeta «ogni conoscenza parte dai sensi ed è integrata dall’immaginazione della ragione sulla base dell’elaborazione incessante dei materiali che vengono loro trasmessi, quel che effettivamente ci risulta è la datità indeducibile di tutte le cose» (p. 32). Il piano su cui si ragiona risulta quindi quello della pura immanenza. La postura anti-metafisica e anti-dialettica, che l’autore attribuisce a Leopardi, viene ricondotta, in diversi punti del testo, proprio a questa petizione di principio. Bodei fa emergere l’atteggiamento diffidente con cui Leopardi si relaziona tanto ai filosofi metafisici, tesi a postulare verità astratte arbitrariamente fatte discendere da principi universali, quanto ai dialettici, a cui il poeta rinfaccia di proporre un rimedio posteriore – in quanto sintesi del processo – a mali di cui gli esseri umani sono affetti in questo “qui e ora”.
Quest’ultimo affondo appare decisivo, perché aiuta a comprendere a quali esiti conduca il materialismo in Leopardi. Ponendo in contrasto il dolore, del tutto immanente, causato dalla condizione umana, con il carattere di posteriorità proprio della sintesi dialettica, il poeta fa emergere la componente trascendente di quest’ultima e, quindi, la sua inutilità. Tale critica spietata e lucidissima, tuttavia, non conduce la riflessione di Leopardi verso derive relativistiche. La ragione distruttrice, che opera «sempre togliendo, niente sostituendo» (Zib. 2710, 21 maggio 1823), deruba gli esseri umani delle illusioni ponendoli davanti ad una nullità che, tuttavia, non è puro vuoto ma – citando la famosa espressione contenuta nello Zibaldone – è un nulla solido, dotato di un suo statuto ontologico. La ragione, quindi, disvela una precisa verità che nella sua crudeltà rimane insindacabile. Bodei, lungi dal ritrarre Leopardi come un pensatore irrazionalista, fa emergere a più riprese come – soprattutto a partire dall’ultima fase del suo percorso intellettuale – il recanatese giunga a una rivalutazione della ragione, a cui attribuisce il grande merito di far pervenire alla coscienza degli esseri umani la dolorosa condizione in cui versano in quanto esseri gettati – prendendo qui in prestito un termineheideggeriano – davanti all’abnormità e all’indifferenza dell’elemento naturale.
All’interno di diversi saggi presentati in Leopardi e la filosofia troviamo, inoltre, la messa in discussione di un altro dei pregiudizi classici generalmente associati al poeta recanatese, ovvero quello che tende ad assimilarlo a una prospettiva anti-illuminista. Secondo Bodei, Leopardi non è in realtà mosso dalla volontà di operare una critica radicale che destituisca l’illuminismo delle sue proprie basi, ma è spinto piuttosto dalla forte esigenza di completare il processo che l’illuminismo ha messo in moto, al fine di oltrepassarlo. Il mezzo proposto, a tal scopo, è quello del ricongiungimento della ratio con il proprio “altro da sé”, ovvero con la poesia e l’immaginazione. In primo luogo, ciò risponde a una necessità di natura teorica: solo il filosofo che abbia avuto esperienza del bello e delle illusioni è in grado di comprendere l’esperienza umana nella sua totalità. Una ragione epurata dall’estetico risulta perciò, più che inutile, nociva. Ma, con ancora più urgenza, tale riconciliazione si impone sul terreno della ragion pratica. Se il filosofo è in grado di mostrare all’essere umano la gravosità della sua condizione, solo il filosofo che sia al contempo anche poeta sarà in grado di creare nuove illusioni che permettano l’alleanza solidale del genere umano contro la natura.
Fin qui la trattazione ha messo in luce la continuità sussistente tra l’esegesi sviluppata da Bodei all’interno di questi saggi e la visione di un Leopardi materialista (Timpanaro) e progressista (Luporini). Risulta a questo punto opportuno sottolineare che all’interno del testo sono riscontrabili anche delle decise prese di distanza rispetto a tale concezione. Ciò che infatti, secondo Bodei, il recanatese non perdona all’illuminismo è di aver condotto i suoi contemporanei alla superbia. La miope pretesa che Leopardi ravvisa come l’illusione del suo tempo è quella che porta l’essere umano a credere di poter giocare ad armi pari contro la natura. Questa presunzione, propria del secol superbo e sciocco, è figlia di una forma di razionalità miope, che tende ottimisticamente a sopravvalutare l’efficacia dei suoi mezzi tecnici ed a confonderli con i propri fini. Leopardi, pensatore cosmico, assume un punto di vista macroscopico per ricondurre la ragione entro la giusta prospettiva, imponendole un confronto con gli infiniti spazi e i sovrumani silenzi che la circondano e che finiranno per annientarla, e da cui non può uscire che profondamente ridimensionata. Bodei appare estremamente affascinato dal punto di vista cosmico assunto dal poeta e a questo tema dedica alcune delle pagine più belle e teoreticamente più dense del libro (nello specifico, a questo tema sono dedicati i due saggi Pensieri Immensi. Leopardi e l’“ultrafilosofia”, originariamente apparso su “Micromega. Almanacco di filosofia”, 5, 2002, e Infinito e sublime in Leopardi [cfr. pp. 57-61, 64-75]). Riportiamo di seguito alcune frasi tratte proprio dal saggio Infinito e sublime in Leopardi:
Leopardi è un vertiginoso poeta cosmico, che, fin della Storia dell’astronomia composta all’età di quindici anni, vede l’uomo inserito, sperduto e insignificante nell’universo infinito. Appartiene ad una tradizione che include Lucrezio e, per certi versi, Pascal. In questa genealogia si potrebbero inserire sia i filosofi pitagorici, platonici, aristotelici, sia, sul piano letterario, lo stesso Dante della Commedia, se non fosse però che in essi il cosmo è sinonimo di bellezza e di ordine divino, mentre Leopardi rappresenta, al contrario una natura smisurata e distruttiva, dove dominano la nascita e la morte (p. 64).
Bodei fa notare come tale concezione altro non sia se non il frutto della presa di coscienza di Leopardi dei risultati a cui l’astronomia e la fisica del suo tempo erano pervenute, materie che lui padroneggiava perfettamente e a cui si interessava fin dalla sua giovane età. In questo senso, come l’autore fa giustamente emergere, il recanatese è figlio della rivoluzione copernicana, di cui prende atto integrando l’abnorme e il caotico nella sua riflessione. Tale confronto aperto con il nulla, inteso come vastità e non come assenza di sostanza, è l’appiglio teorico che presta il fianco alle interpretazioni che collocano Leopardi entro la schiera dei pensatori nichilisti, Severino in primis. Bodei sembra non propendere per questa visione: all’interno dei suoi scritti, infatti, il carattere cosmico della riflessione leopardiana viene controbilanciato dal richiamo alla componente morale e civile.
A questo proposito, Bodei fa notare, ad esempio, che la ragione, per Leopardi, non dovrebbe limitarsi a constatare il solido nulla. A essa, al contrario, viene richiesto lo sforzo di farsi contaminare dal poetico per dar vita a un’ultrafilosofia che sia in grado di produrre un’alleanza solidale tra gli esseri umani. Con il richiamo alla nozione di ultrafilosofia, termine utilizzato solo una volta da Leopardi nello Zibaldone e fatto emergere con forza all’interno dell’analisi critica di Luporini, l’autore suggerisce la possibilità di trovare all’interno della visione leopardiana un antidoto al nichilismo. Una volta che l’indifferenza della natura è stata resa nota dalla ragione, spetterà alle nuove e benigne illusioni prodotte dalla poesia il compito di riunire gli esseri umani, portandoli ad assumere una postura dignitosa di fronte alla natura, che comunque è destinata a vincere e a sopraffarci, in un moto di solidarietà e non di orgoglio. Citando Bodei: «Leopardi non è perciò un “irrazionalista”, così come non è, per contro, un progressista” nel senso per noi tradizionale. E non è neppure, strettamente parlando, un “nichilista” (nel significato nietzschiano e post-nietzschiano del termine, secondo un accostamento costante, da Adriano Tilgher e Emanuele Severino)» (p. 12). Non resta allora che interrogarsi, in conclusione, su chi sia Leopardi per Bodei. A questo fine, ci richiamiamo ai versi conclusivi de La ginestra, a cui l’autore si richiama in quasi ogni saggio della raccolta:
[…] E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Il ritratto di Leopardi che sembra restituirci Bodei appare, nel complesso, quello di un materialista cosmico, la cui prospettiva sull’esistenza risulta sempre tesa tra la prospettiva universale e dilatata, che il poeta assume come propria, e il dolore particolare e determinato, che ci accomuna tutti. Leopardi è descritto in queste pagine come un pensatore coraggioso, che non arretra di un passo, né contemplando l’inquietante vastità dell’universo, né al cospetto della crudeltà della condizione umana. Davanti alla constatazione della sterminatezza che ci avvolge, i mali che affliggono i mortali non divengono insignificanti ma, al contrario, emergono con forza ancor maggiore. La fragile ginestra che cresce sulle pendici del Vesuvio, d’afflitte fortune ognor compagna, diventa così emblema non solo dell’intera umanità, ma dello stesso poeta che, rifiutando sia l’arroganza della ragione che il disfattismo del nichilismo, si allea con i suoi simili.
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[1] Questi sono: Infinito e sublime in Leopardi; la lezione Oltre la siepe tratta dall’intervento tenuto da Bodei nel 2008 in occasione del Festival di Filosofia; Leopardi per Celli. Passione del presente, deficit di futuro, testo del 2015, e infine la relazione su La scoperta novecentesca del Leopardi filosofo elaborata come apertura al XIV Convegno internazionale di studi leopardiani nel settembre 2017.