C’è chi ama precisare che coloro che a Parigi hanno freddamente assassinato giornalisti, vignettisti, poliziotti e ebrei erano animati solamente dall’odio e dal desiderio di vendetta, che in loro non vi era alcuna passione religiosa. Ma davvero? Forse che se fossero stati dei veri credenti, angosciati dalle offese secondo loro arrecate al Profeta, l’assassinio che hanno perpetrato avrebbe qualche giustificazione, o sarebbe un delitto meno grave? Se si dà troppa importanza al valore della libertà, se ne dà troppo poca al valore della vita. Ci sono certamente casi in cui per difendere la libertà può essere o apparire giusto sacrificare la vita. Francia e Italia hanno dato chiara e concreta dimostrazione di ciò con la Guerra di Liberazione dal nazifascismo. Ma ci si consenta di pensare che, al di là dell’altissimo valore simbolico che ha acquisito la loro morte, consegnare consapevolmente la propria vita nelle mani di criminali assassini ( perché, a ben guardare, è questo che hanno fatto igiornalisti e i vignettisti di “Charlie”) è probabilmente un gesto di eccessiva generosità. Gestapo, SS, Brigate nere non erano meno criminali degli assassini di Parigi. Ma allora era in atto una guerra mondiale, allora si combatteva concretamente per la libertà dell’intero mondo, allora non mettere a rischio la vita poteva voler dire, in moltissimi casi, consentire che gli assassini si impadronissero della tua terra, della tua cultura, delle tue leggi, dell’intera tua vita, insomma. E non si dica che oggi si corre un uguale pericolo. Giusto il dolore, giusta l’indignazione, giusta la rabbia per tante splendide, preziose vite spezzate. Giusto, infine, pensare che il lavoro di quei giornalisti e di quei vignettisti, e il sangue che per quel lavoro essi hanno versato, sono stati un dono fatto alla libertà di tutti. Attenzione però. Se si elogia quel dono oltre misura, e solo di esso si vede la luce, si finisce per far credere a molti che la Francia non avesse altre guarantigie che quelle fragili matite, che il nemico è davvero alle porte, che il lavoro quotidiano di migliaia di giornalisti, di scrittori, di insegnanti non sia, o non possa essere, senza che altro sangue venga versato, un dono altrettanto prezioso.C’è un’umiltà, un’invisibilità del sacrificio che occorre sottrarre alla sua condizione occulta. E’inoltre necessario persuadersi che la vita umana è sacra senza bisogno che sia il Papa a benedirla. E che per questo chiunque e per qualunque motivo la spegne ha già violato la libertà senza che della libertà si sia neppure pronunciato il nome. Vita e libertà. Vita è libertà. C’è spesso un eccesso di enfasi in questa frase. Che spesso si pronuncia senza pensare ai milioni che vivono privi di libertà. E per i quali nessuno, o pochissimi, sono disposti a sacrificare la loro vita. Davvero la libertà è un bene così alto che è sempre giusto e necessario sacrificare o mettere a rischio la vita per tutelarlo? Se è in gioco la necessità, la prima cosa necessaria non dovrebbe essere istituire un patto che tuteli insieme vita e libertà? O è sempre necessario pensare che quando la libertà viene meno, o corre il rischio di venir meno, è con la schiavitù che occorre necessariamente fare i conti? Non dimentichiamo che gli antichi ci hanno insegnato che si può restare liberi pur essendo schiavi. Dopo Freud noi moderni dovremmo sapere che si può essere schiavi, e spesso di fatto si è, pur credendosi liberi. Diverse, più o meno gravi, più o meno palesi sono le forme di schiavitù. Credevano di essere liberi, ed erano schiavi, gli studenti fatti sparire e bruciati in Messico. Credevano, forse, di essere libere, ed erano schiave, le ragazze rapite e vendute in Africa. Sapevano invece di essere liberi, e lo erano davvero, i giornalisti di “Charlie”, tanto che solo uccidendoli si è riusciti a spegnere la loro libertà individuale. Non quella che ci hanno trasmesso e di cui non sarà facile sbarazzarsi con la violenza, finché sarà una libertà condivisa.Ma c’è anche un pudore della libertà. Un pudore della parola, innanzitutto. E poi il pudore tranquillo di chi è tanto libero che non avverte il bisogno di proclamarlo.
C’è un orrore che si aggiunge all’orrore nell’eccidio di Parigi. Gli assassini non erano fanatici ignoranti, erano francesi educati in Francia. Sapevano bene, quindi, per averlo appreso sui banchi di scuola, che cos’è la libertà, che cos’è l’uguaglianza, che cos’è la fraternità. Conoscevano bene, insomma, ciò che avevano loro insegnato a rispettare e che hanno spregiato e violato.Si dirà che conoscevano le parole, i nomi, non i valori che i nomi rappresentano. Da questo non possono derivare che riflessioni amarissime su ciò che si è soliti chiamare, non senza presunzione, “L’universalità dei valori”. Che sono poi soltanto i valori dell’Occidente, anzi, della borghesia occidentale. Hanno certo un valore, quei valori, se non per altro perché la loro costruzione è costata sangue e sacrifici. Ma sacrifici e sangue erano solo in parte dei borghesi. In gran parte erano di chi dai borghesi è stato tiranneggiato.
E’ facile prevedere che il condivisibile e condiviso dolore, la giusta indignazione e la giusta rabbia provocati in molti dall’eccidio di Parigi contribuiscano, anche se non lo si voglia, ad occultare certe radici dell’islamismo militante più cinico e feroce. Queste radici non sono soltanto ideologiche, nascono anche dall’odio e soprattutto dal desiderio di vendetta. Non perderle di vista e tenerne presente la genesi non significa giustificarne l’esistenza. Vuol dire soltanto che la cultura occidentale ha il dovere morale e democratico, prima ancora che storiografico e antropologico, di ben comprendere, cioè di comprendere rettamente, tutte le ragioni (si preferisce dire le cause?) dello scontro che, in modi diversi, contrappone una parte del mondo islamico al mondo occidentale. Occorre allora non dimenticare che, nella guerra scatenata da George Bush junior ( che è un autentico criminale di guerra) contro l’Iraq, la ricerca di armi di distruzione di massa nascoste era soltanto un pretesto perché armi nascoste assolutamente non c’erano. Occorre soprattutto non dimenticare che in quella guerra sono stati sterminate migliaia di civili iracheni, in particolare donne e bambini. Occorre non dimenticare le disumane torture inflitte a detenuti musulmani nel carcere di Abu Ghraib. Occorre non dimenticare che il “democratico” Barack Obama non è stato ancora capace di chiudere Guantanamo, luogo di detenzione di musulmani dove sono state consumate da parte degli Stati Uniti le peggioro violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. Occorre non dimenticare i massacri di Palestinesi perpetrati a Sabra e Shatila da milizie cristiane alleate con gli Israeliani. Occorre non dimenticare che, dopo decenni di trattative, gli stessi Israeliani si rifiutano di accettare il principio “Due popoli, due Stati”, continuano a occupare con colonie pezzi di territorio palestinese e tengono Gaza in un perenne, sostanziale stato d’assedio. Ce n’è abbastanza, sembra, non certo per giustificare massacri di occidentali innocenti, ma per capire che, nei rapporti fra Occidente e Islam, gran parte di ciò che è accaduto e accade in Medio Oriente, in Europa e negli Stati Uniti è gravissima responsabilità di uomini e di istituzioni occidentali; e per comprendere che centinaia di migliaia di Islamici vivono con l’incubo di ulteriori sopraffazioni ancora più gravi da parte degli Occidentali e con un inestinguibile desiderio di vendetta. Se non ci si rende conto di questo, il “dialogo” fra Occidente e Islam, che è poi, in realtà, soprattutto un confronto fra istituzioni politiche, e che è auspicato da molti ma non da tutti, non solo non potrà avere inizio ma neppure essere immaginato. C’è mai stato qualcuno che si sia chiesto quale può essere lo stato d’animo di un giovane costretto a nascere e a crescere in un campo profughi in terra straniera anziché nella propria terra? La questione islamica, se così, frettolosamente, la si vuole chiamare, e segnatamente la questione palestinese, hanno un preminente carattere politico, ma vastissime e profonde implicazioni psicologiche. Trent’anni fa per incominciare a lavorare per la pace sarebbe forse bastato riflettere adeguatamente su Sabra e Shatila. Oggi quella riflessione è ancora utile ma non basta più. Perché le frustrazioni e l’odio di Sabra e Shatila (e di Gaza) si sono trasferiti a Parigi. E a Londra, a Madrid, a Berlino, a Milano, hanno invaso l’Europa. Non è già la guerra, come qualcuno dice. Ma chi ama la pace non può accontentarsi di credere che la soluzione di tutti i problemi sia abolire Schengen.