All’indomani del trauma dell’11 settembre, il filosofo sloveno Slavoj Žižek pubblicò un importante saggio, tradotto in tutto il mondo, che parafrasava nel titolo una battuta di uno dei film culto della fine degli anni Novanta, ovvero Matrix. Il titolo era Benvenuti nel deserto del reale. Che il rapporto con ciò che definiamo “realtà” sia stato il problema saliente del passaggio di millennio, lo attesta la pubblicazione di un altro testo particolarmente importante. Il 1996 il critico e teorico dell’arte Hal Foster pubblicò un fortunato saggio dedicato ad alcune delle tendenze più significative dell’arte contemporanea; il titolo del libro era The Return of the Real e vi trovavano posto tanto il Minimalismo quanto la Pop Art, le teorie del postmoderno e l’etnografia militante, la teoria critica post-adorniana e la psicoanalisi lacaniana. Il reale come ri-emergenza determinata da una necessità di ordine sociologico e culturale, oltre a trovare il suo riscontro nelle teorie filosofiche del Nuovo Realismo, ha avuto un ruolo essenziale per tutte le arti, dal momento che il reale può essere compreso in maniera plurale e complessa: può essere il reale traumatico della serie Death and disasters di Andy Warhol o la dissoluzione del soggetto di Cindy Sherman, tenendo presente che dopotutto il tema della funzione della mimesi e il ruolo dell’illusione sostanziano e innervano la storia dell’arte – e non solo dell’arte – di tutto l’Occidente fin dalla classicità, almeno da Zeusi, se non persino dal Paleolitico e da Lascaux. E se per il Vasari, Michelangelo Buonarroti era il “divino e meraviglioso artista” perché capace di imitare alla perfezione la natura sfidando persino Dio, sappiamo bene che dalla fine dell’Ottocento in poi il paradigma di riferimento nell’arte non è più stato quello naturalista o “mimetico” in senso classico. Nel Novecento l’arte inizia a farsi astratta, trasfigurando il reale facendo sì che l’espressione artistica si caricasse del significato sconvolgendo la forma stessa, fino al “trionfo dei significanti” che ha segnato tutto il postmoderno.
Per tutte queste ragioni, dialetticamente, quasi per contrappasso, una delle tendenze espressive che coinvolge la scena americana a partire dagli anni ’70 è stata quella della riappropriazione radicale della figura e dell’illusionismo, come reazione all’astrattismo troppo cerebrale di matrice europea e trapiantato nel dopoguerra anche negli States a partire dall’Espressionismo astratto americano. Proprio alla sua forma più eclatante, ovvero quella dell’“iperrealismo”, Palazzo Bonaparte di Roma ha deciso di dedicare una ricca e approfondita mostra dal titolo Sembra vivo! Sculture iperrealiste dei più grandi artisti contemporanei, visitabile fino al prossimo 8 ottobre.
Nell’argomentazione di Foster, l’iperrealismo sottomette il reale, con il rischio paradossale di realizzare simulacri in grado di far svanire completamente il reale stesso. Alle tendenze genericamente realiste e iperrealiste anche molto differenti tra loro – che comprendono fenomeni affini alla Pop Art nonché le produzioni neokitsch di Jeff Koons – Foster contrapponeva lo slancio progressista dell’“arte etnografica”. Da un lato il desiderio dell’abiezione come tentativo di appropriarsi di ciò che è più reale della realtà stessa, ovvero l’oggetto del trauma e del desiderio, dall’altro il ritorno della dimensione referenziale come fiducia nell’esistenza di un’autenticità primitivistica al di là e al di qua dell’ideologia. Facendo riferimento a Critica della ragion cinica di Peter Sloterdijk, il critico americano affermava:
“[…] Warhol aveva messo in pratica un’ironia kinica o una ragione cinica? Di certo aveva simulato la schizofrenia come difesa contro le richieste contraddittorie dell’artista d’avanguardia nella società dello spettacolo, ma è difficile capire se lui si difendesse oppure si identificasse con essa. Nella pittura di simulazione e nella commodity-sculpture diventa quasi impossibile tracciare una simile distinzione, specie nella diffusa pratica del nichilismo capitalista”.
In uno dei documenti audiovisivi della mostra, Marc Sijan, uno degli artisti presenti con opere come Embrace (2014), specifica chiaramente le differenze tra la pratica iperrealista e Madame Tussauds o i vari musei delle cere che invadono le città di tutto il mondo: le sculture iperrealiste di questi artisti rivendicano sempre un’intenzionalità espressiva che può essere di denuncia sociale (come è sempre stato per Duane Hanson, in mostra con Two workers del 1993) o avere un risvolto emozionale e psicologico (pensiamo a Sam Jinks con Woman and Child) o persino possedere un’intenzionalità metafisica con implicazioni filosofiche complesse (dall’Ordinary Man alle opere di Ron Mueck e di Carole A. Feuerman). Spesso si tratta anche di “trasfigurare il banale” come sosteneva Arthur Danto a proposito di Andy Warhol, ovvero di elevare alla dimensione artistica ciò che appartiene alla visione abitudinaria e che riguarda la società dei consumi e le pratiche della quotidianità, come se fosse possibile sviluppare un ragionamento dinanzi a dei “frame cognitivi” che siamo abituati a fruire in maniera passiva; una passività sospesa a favore dell’appercezione critica solo quando assistiamo a immagini, comportamenti, gesti, simboli nella loro immobilità, cristallizzati nella sala di un museo. D’altronde, è qui che si attiva una dialettica interessante: si tratterà pure di trasfigurazione del banale, ma trovare il banale nei musei non è la cosa più ovvia, almeno fino a qualche decennio fa. Mettere il banale nel museo è stato, da Duchamp e per quasi tutto il Novecento, il modo di ottenere lo shock. C’è da chiedersi se sia ancora efficace tale metodo, o se non ne sia rimasto solo il gusto feticista e consumista di vedere qualcosa di confondibile col reale recluso nelle mura di un museo – discorso che sembra sfiorare anche il dibattito sul postcolonialismo.
Difatti, il rischio di costruire un evento espositivo puntando soprattutto sull’illusione di realtà – attestato dallo stesso titolo della mostra, dal momento che si allude alla prevedibile reazione del pubblico che osserva le installazioni e afferma “Caspita! Sembra vivo!” – può costringere l’intero progetto a ridursi a un approccio ludico di mero entertainment, e non si può pensare che tale dimensione non fosse minimamente prevista al momento dell’organizzazione e dell’acquisizione delle opere, perché sagacemente proprio tale dimensione ludica, attrattiva, seduttiva, avrebbe rappresentato il probabile motore del successo della mostra. Questo è confermato dalla presenza della celebre banana di Maurizio Cattelan, ma anche da altre opere dell’artista italiano come Ghosts, la sala degli uccelli già allestita all’Hangar Bicocca di Milano e presentata con un ammiccamento da parco giochi, che d’altronde lo stesso artista italiano non disdegnerebbe.
Ci sono poi altri due fattori da prendere in considerazione per riconoscere l’importanza e l’attualità della mostra in oggetto e del dibattito che verte sull’iperrealismo. Sono due fattori strettamente connessi tra loro e che mettono in comunicazione la mostra Sembra vivo! con un’altra mostra romana, allestita a Palazzo Cipolla, a poche decine di metri proprio da Palazzo Bonaparte, ovvero Ipotesi Metaverso, mostra dedicata all’arte algoritmica, alla sperimentazione tecnologico-artistica e all’Intelligenza Artificiale applicata al settore della creatività. La prima considerazione da fare è che oggi le nuove tecnologie algoritmiche e le stampe in 3D sono in grado di produrre oggetti e statue naturalistiche ben più efficaci illusionisticamente di qualsiasi lavoro artigianale, per non parlare della costruzione degli ambienti digitali immersivi e della realtà virtuale. E se la realtà virtuale è tanto “reale” quanto la realtà ordinaria – per dirla con le parole del best seller di David J. Chalmers recentemente tradotto in italiano col titolo Più realtà. I mondi virtuali e i problemi della filosofia – allora l’arte rischia di ridursi a mera esibizione tautologica delle capacità della tecnica, peccato al quale spesso ha ceduto nel corso degli ultimi decenni. Se vuole sfidare qualsiasi didascalismo figurativo e qualsiasi trionfalismo autoreferenziale, l’arte deve scioccare, interrompere la fruizione irriflessa della quotidianità: questo le sculture iperrealistiche lo hanno fatto quando lo shock era motivato dall’aspetto illusionistico eccezionale, conseguito con perizia tecnica inusitata negli anni Settanta, Ottanta e Novanta.
Se la tecnologia digitale e algoritmica riesce a fare meglio ciò che l’uomo faceva prima, allora il baricentro della questione va spostato, perché cambia profondamente il senso di ciò che abbiamo sotto gli occhi. Non è un caso infatti – e veniamo al secondo fattore – che anche nel settore dell’arte algoritmica che adotta modelli complessi di reti neurali o GAN (Generative Adversarial Networks) uno dei nomi più indicativi è quello di Mario Klingemann, che allontanandosi del tutto da ogni ambizione figurativa e per l’appunto “realista” (la stessa ambizione degli sviluppatori e dei fruitori di app come DeepAI, Midjourney e DALL·E 2) vira decisamente in ambiente uncanny valley, ovvero in ambiente perturbante, con immagini mai statiche e in eterno work in progress che si modificano continuamente senza mai tornare le stesse, che offrono alla visione figure e forme solo parzialmente riconoscibili, inquietanti, spesso distorte e che si vanno definendo gradualmente. Il fatto che l’uncanny valley, secondo il celebre grafico di Masahiro Mori, abbia a che fare con ciò che assomiglia molto all’umano “ma non abbastanza”, che è in grado di confondersi con esso ma mantenendo sempre un margine di destabilizzazione e un limite di estraneità assoluta, evidenzia lo stesso funzionamento psichico del perturbante freudiano, ovvero la capacità di ciò che appartiene al familiare e al domestico di sprigionare improvvisamente qualcosa di inusitato che può angosciare. Ebbene, proprio all’interno del percorso espositivo dedicato all’iperrealismo, per definizione caratterizzato da produzioni che sono pensate e realizzate secondo il principio assoluto della human likeness, trova spazio l’effetto perturbante dell’uncanny valley in forme differenti.
Questo si spiega se torniamo a Foster e al dibattito sull’illusione e sulla funzione della mimesi: se da un lato l’“iperrealismo classico” di Duane Hanson e John De Andrea vuole “spingere l’illusionismo fino al reale” (non è un caso che il passaggio successivo della confusione arte-vita è rappresentato proprio dagli happening e dalla body art), il secondo approccio dell’iperrealismo è quello che rifiuta l’illusionismo classico nel tentativo di rievocare il reale, in maniera obliqua, effettuando un ennesimo giro di boa sospendendo in maniera fulminante la pratica realista contaminandola con l’errore. Si tratta dell’arte abietta e delle rappresentazioni oscene e mostruose, tipiche di Paul McCarthy, che ritroviamo nella parte finale del percorso di Sembra vivo!, ovvero nelle sculture dell’australiana Patricia Piccinini, ibridi semi-umani affascinanti e repellenti, che recuperano lo shock interrompendo il gioco dell’illusione perfetta che era efficace (e perturbante) fino a qualche tempo fa, quando l’alta definizione digitale e la modellazione in 3D non hanno soppiantato qualsiasi approccio artigianale nella creazione dei “surrogati di vita”. Questo gioco della seduzione perturbante evidenzia quanto temporali e precarie siano le categorie teoriche di riferimento, prime fra tutte quelle estetiche, senza escludere persino il senso che diamo a ciò che definiamo “reale” e “vivo”.
Sembra vivo!. 26 maggio – 4 ottobre, Palazzo Bonaparte, Roma.
Ipotesi Metaverso. 5 aprile – 23 luglio, Palazzo Cipolla, Roma.
In copertina: Carsten Höller, Polpo, 2014, Poliuretano colorato di viola, occhi in vetro marrone. 40x171x120 cm, MASSIMODECARLO.