Expo-sizione orientalista. Quel che ci racconta una mostra fotografica su Marco Polo oggi.

 

C’era una discreta folla in coda per entrare al MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino, nei giorni delle festività natalizie. Non numeri da capogiro – da mostre-monstre su Van Gogh, Renoir e gli impressionisti, tanto per intenderci – ma certamente insoliti per un’istituzione che ha il compito di conservare opere d’arte e manufatti provenienti da civiltà lontane, solitamente poco conosciute e poco attraenti per le “grandi masse”. Il motivo dell’affluenza è presto detto: visitare la mostra fotografica intitolata Marco Polo. La Via della Seta nelle fotografie di Michael Yamashita, curata da Marco Cattaneo (direttore responsabile della rivista National Geographic Italia) e inaugurata poche settimane fa.

Chi si occupa di orientalismo ed esotismo come il sottoscritto non può che sorprendersi e interrogarsi innanzi al successo di una “personale” che non sembra vantare quei caratteri di eccezionalità e quella forza esperienziale che solitamente garantiscono popolarità e introiti alle esposizioni-eventi mainstream. Le stampe di Yamashita non sembrano, infatti, assicurare prerogative come l’autorialità, la rarità, l’antichità, l’inaccessibilità, la forza partecipativa o l’unicità dell’oggetto artistico esposto. Il fotografo statunitense di origini giapponesi, collaboratore storico del National Geographic e autore di diversi libri fotografici sul Fareast, è un professionista apprezzabile ma non gode certo di fama universale e d’altro canto il soggetto dei suoi lavori– la rappresentazione dei luoghi attraversati da Marco Polo durante il suo viaggio dall’Italia fino alla Cina (e ritorno) – non abbraccia un tema attuale, né risponde a qualche urgenza di natura politica o sociale. Basti ricordare che dal continente asiatico oggi proviene un numero vertiginoso d’immagini e che sulle avventure del mercante veneziano si è detto e scritto molto in passato sfruttando anche mezzi divulgativi come le mostre, le serie televisive, i documentari, i film di finzione, le animazioni, persino i videogame. Le code alle casse stupiscono anche per una seconda ragione: il materiale fotografico è stato prodotto una quindicina di anni fa e ha già conosciuto una certa diffusione internazionale. Il primo libro che ha raccolto le foto odeporiche di Yamashita, intitolato Marco Polo: A Photographer’s Journey, è stato stampato nel 2002, rieditato sette volte in inglese e tradotto in varie lingue del mondo tra cui l’italiano (nel 2002 e nel 2011 per White Star). Il documentario confezionato a partire da quella spedizione (Marco Polo: The China Mystery Revealed, 2003) è stato proiettato diverse volte nel canale tematico a pagamento della National Geographic Society ed è stato inserito tra le venti produzioni audiovisive più importanti dell’Istituto, mentre sul web si possono vedere in forma gratuita una buona parte di quegli stessi materiali: nella pagina ufficiale di Yamashita (qui), in alcune gallerie presenti nel sito del committente (qui e qui), all’interno di un webdoc intitolato The Marco Polo Odyssey (qui) e altrove.

Mentre visitavo la mostra e osservavo, con attenzione, i suoi avventori mi sono domandato quanti di essi avessero consapevolezza delle informazioni che ho appena riportato e quanti invece, entrati nelle sale del museo senza una particolare preparazione, avessero convinzione di osservare riproduzioni uniche e originali, capaci di offrire dei paesi asiatici visitati da Marco Polo e, sette secoli dopo, da Yamashita la loro immagine attuale, corrente, “vera”. La scarsità – forse strategica – di notizie filologiche presenti nei comunicati stampa, nei paratesti (guide, cataloghi, ecc..) e nei pannelli informativi che arredavano le sale del museo, ha verosimilmente alimentato questo possibile malinteso che reputo – si noti – non nefasto o deleterio per l’esito complessivo dell’evento culturale, bensì illuminante dei processi fruitivi che si sono attivati in quegli spazi (e della sua fortuna?), sui quali vale la pena soffermarsi qualche secondo.

Se fosse confermata l’errata percezione di attualità delle fotografie, si può dedurre innanzi tutto che esse sono invecchiate lentamente o non sono per nulla invecchiate. Quindici anni non sono pochi nella vita di un’immagine. Si sfoglino i nostri album di fine Novecento e si scoprirà quanto sia avvertibile il tempo trascorso non solo nei volti dei nostri cari, ma anche nell’abbigliamento, negli arredi urbani, nei panorami, negli oggetti che ci circondano. Nel caso delle raffigurazioni presenti al MAO, invece, è raro accorgersi del tempo trascorso dal momento dello scatto a quello della sua ricezione. La mostra è composta quasi esclusivamente di paesaggi naturali incontaminati (panorami montuosi, dune del deserto, laghi trasparenti, risaie regolari), monumenti del lontano passato (minareti, moschee, muraglie cinesi), uomini, donne e bambini senza nome, immortalati prevalentemente nel bel mezzo delle loro funzioni sociali (scolari, allevatori, contadini, monaci, pescatori, ecc.). In altri termini, se si escludono alcuni ritratti di Ahmad Shah Massoud, militare e politico afghano morto pochi giorni prima l’11 settembre, non vi è traccia di eventi, persone note, oggetti del vivere quotidiano che possano “datare” con qualche certezza le immagini. Si tratta di un effetto probabilmente voluto dal fotografo e dal curatore: ripercorrere l’itinerario di viaggio di Marco Polo porta a cercare (utopisticamente e inverosimilmente) le tracce di quel passato ancora visibili nel “presente”, con la conseguenza di restituire al visitatore un immaginario cristallizzato tanto di quei luoghi (qui, qui, e qui alcuni esempi) quanto delle persone che li abitano (qui, qui, qui e qui altre occorrenze), come se il trascorrere di circa sette secoli non avesse mutato i connotati di alcuni angoli remoti (?) della terra.

Una controprova giunge dalle poche fotografie che riproducono paesaggi a noi più famigliari, in modo particolare quelli di Venezia, città natale di Marco Polo, luogo da cui è iniziato il suo viaggio e quelli di Genova, dove si è concluso. Ad esempio, nello scatto di Piazza San Marco (qui) – ovvero in uno dei pochi posti al mondo che ha conosciuto veramente poche trasformazioni dai tempi de Il Milione a oggi – ecco comparire un’enorme nave da crociera, simbolo del turismo di massa, della globalizzazione dei consumi, di una contemporaneità che tende a corrodere e consumare il tempo e i tessuti urbani, ma solo di un Occidente storicizzato. Si aggiunga che l’immagine – a differenza di molte altre presenti nelle sale – restituisce dinamismo grazie alla presenza di numerosi gabbiani che si librano in cielo e soprattutto alla scelta di fotografarli con un tempo di posa lungo che accentua la vivacità del loro volo. Insomma: in Occidente le cose succedono in fretta. E hanno una certa imponenza e dinamicità.

Chi conosce testi ormai classici come Orientalism di Edward Said, sa perfettamente che la mostra finanziata dalla National Geographic Societysi configura come un’operazione tipica, anzi direi plastica, dell’orientalismo euroamericano novecentesco, di un orientalismo inteso come forma egemonica che sfrutta un’artefatta distinzione geografica (il mondo diviso in due metà: Oriente e Occidente) per essenzializzare e, di conseguenza, controllare meglio le culture che provengono da lontano. «L’Oriente – scriveva Said nel 1978 – è un palcoscenico nel quale l’intero Est viene confinato. Sul palcoscenico compaiono figure il cui compito è rappresentare il più ampio ambito da cui provengono. L’Oriente non appare più come uno spazio illimitato al di là del familiare mondo europeo, ma come un’area chiusa, un ampio palcoscenico annesso all’Europa. L’orientalista non è altro che uno specialista in un campo del quale la vera responsabilità spetta all’Europa, così come il pubblico è storicamente e culturalmente responsabile del dramma (oltre che rispondente a esso) tecnicamente allestito dal drammaturgo» (E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 69). Non sarà difficile avvertire l’eco di queste parole negli spazi espositivi torinesi. Abbiamo “un orientalista” (Yamashita) “specialista in un campo del quale la vera responsabilità spetta all’Occidente” (la National Geographic Society), “un palcoscenico” (le sale del MAO) nel quale “compaiono figure” (carovane di cammelli, donne in burqa, fumatori di oppio, contadini nelle risaie, guerriglieri islamici, ecc.) il cui “compito è rappresentare il più ampio ambito da cui provengono” (Iran, Afghanistan, Iraq, India, Indonesia, Cina, Mongolia), raffigurando un Oriente “non più come spazio illimitato, ma come un’area chiusa”, quella museale appunto.

Non mi dilungherò oltre sugli aspetti essenzializzanti di tali pratiche, lungamente adottate in passato anche dall’istituzione scientifica e filantropica americana (suggerisco sul tema almeno la lettura del recente American Iconographic: National Geographic, Global Culture and the Visual Imagination di Stephanie L. Hawkins, University of Virginia Press, 2010), preferendo soffermarmi su altre possibili e meno scontate ragioni di “successo” della mostra orientalista se non altro perché, rispetto ai tempi in cui scriveva Said, ovvero nel pieno di un bellicoso processo di decolonizzazione di molti paesi asiatici, oggi l’Europa, e l’Italia in particolare (non gli Stati Uniti però), giocano un ruolo sempre più marginale nello scacchiere geopolitico, specie nel quadrante asiatico. Pare insomma difficile credere che l’accorrere dei visitatori sabaudi al MAO dipenda da un loro desiderio egemonico anche solo parzialmente attuabile. Più probabile, al contrario, che si sia depositata una certa inconscia nostalgia di quei primati, di quei desideri che il medium fotografico riesce a “alimentare” meglio di altre forme espressive per il suo carattere rimemorativo. Aggiungo un elemento di riflessione in più. Forse anche perché siamo in vista dell’inizio dell’Expo milanese, la scelta di ritornare sulle gesta di Marco Polo è significativa perché potrebbe raccontarci di un ritorno – indicibile e inesprimibile apertamente – di quel senso di “inferiorità” tecnologica e culturale che riempiva diverse pagine de Il Milione e che oggi si riaffaccia a causa dei mutati scenari economici internazionali. Il mercante veneziano è, infatti, descritto nei testi di commento di Cattaneo e in alcune testimonianze di Yamashita come personaggio-ponte tra le culture (in particolar modo quelle agricolo-culinarie giacché sono frequenti le rappresentazioni di coltivatori, pescatori, allevatori, persino di cuochi cinesi che spadellano gli spaghetti), e come una sorta di “cervello in fuga”, migrante solitario che abbandona il proprio paese per andare alla ricerca di fortuna sulla principale via commerciale euroasiatica dell’antichità. Un modo di descrivere il viaggiatore, questo, che nasconde una sorta di transfert psicanalitico capovolto in cui a un personaggio del passato vengono associati inconsapevolmente caratteri e processualità che si rivivono, in parte, nel presente. Non bisogna dimenticare che questo senso d’“inferiorità” – plasticamente riprodotto da un fotografo di origini giapponese che lavora con un’istituzione americana e che viaggia lungo tutta la Cina – è paradossalmente beneaugurante perché prepara e anticipa di qualche decennio l’epoca delle grandi scoperte geografiche e delle successive politiche espansionistiche del Vecchio Continente dal XV secolo in avanti. Detto altrimenti: il visitatore comune italiano potrebbe apprezzare le fotografie di Yamashita perché, restituendoci un’Asia fuori dal tempo, pone in essere l’ipotesi speculare di un’Europa e di un’Italia fuori dal tempo, o meglio ancora, pronte a indietreggiare nella linea diacronica della Storia per rientrarvi da un punto che promette stagioni più floride di quella attuale.

L’ardita, ma non credo peregrina lettura è confermata indirettamente dall’altra foto “europea” presente alla fine della mostra, quella che cattura il Palazzo San Giorgio di Genova, sede della prigione dove è stato rinchiuso Marco Polo al ritorno dal suo viaggio e dove è stato scritto Il Milione. Si tratta dell’unico scatto presente nell’esposizione (qui) in cui compare uno specchio rifrangente (una superficie d’acqua) che ribalta letteralmente l’immagine riprodotta (la facciata del palazzo). L’immagine reca con sé un messaggio? Ci dice di un certo indulgente rispecchiarsi delle popolazioni europee? Ci informa che le fotografie orientaliste esposte sono una rappresentazione rovesciata delle realtà visitate? Oppure narra indirettamente di un mondo capovolto, quello attuale italiano, nel quale siamo noi gli indigeni da esotizzare e sono i cinesi (come capita ormai da un bel pezzo) i Marco Polo giunti da lontano per acquisire tecnologie, gusti e saperi di una civiltà in difficoltà e creare così le condizioni future di un egemonia politica ed economica su di essa?

L’egemonia dell’Est sull’Ovest in verità sembra ormai compiuta, visto il recente sorpasso del PIL della Cina su quello degli Stati Uniti, ma in un fragilissimo equilibrio economico e politico come quello attuale non è detto che la situazione resti tale a lungo. In un simile contesto, insomma, la mostra su Marco Polo potrebbe raccontarci, in piccolo, del nostro tentativo di esorcizzare l’idea di un’egemonia altrui mentre nel contempo cerchiamo controvoglia di abituarci ad essa. E se il prossimo venturo Expo milanese lo raccontasse in grande?



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