Per una sinistra cosmopolita

 

 

Un giudizio analitico, secondo Kant, è quello il cui predicato è incluso nel soggetto. Ad esempio, «nessuno scapolo è sposato», oppure «ogni corpo è esteso» (non «ogni corpo è pesante», perché potrebbero esserci dei corpi non pesanti). In Italia e in Francia, «ogni intellettuale è di sinistra» è un giudizio analitico: non ci sono intellettuali che non siano di sinistra, tranne tipi come quello che, è capitato di leggere, «vestito di tutto punto, si spara un colpo al cuore sull’altare di Notre-Dame» (come se uno potesse entrare a Notre-Dame in mutande). In Inghilterra e in parte in Germania, ad esempio, non è così: “X è un intellettuale di sinistra” è un giudizio sintetico, porta con sé un’informazione che non è compresa nel soggetto, perché in effetti possono esserci degli intellettuali di destra, nelle varianti rivoluzionarie, tradizionaliste, liberal-conservatrici ecc. Questa differenza ha conseguenze rilevanti. Qualche esempio per restare sul concreto. (1) Nietzsche, Heidegger, Schmitt e Jünger, autori totalmente e apertamente di destra, diventano di sinistra appena attraversano la frontiera italiana o francese. (2) Il ritorno del culto dell’eroe e di un certo futurismo (lo schiaffo, la guerra come igiene del mondo…) come elementi compatibili a sinistra, quando sono ovviamente di destra. (3) La passione per il mito, il fastidio per la ragione, l’odio o almeno la diffidenza per la scienza. (4) L’identificazione fatale tra “emancipazione” (che può anche essere del tutto individuale) e “rivoluzione” (necessariamente collettiva), per cui viene meno la differenza tra Robespierre e Sade.
Il ritorno di Marx in questi ultimi anni, per parte sua, è un ritorno non meno mitologico. Ed è caratteristico che ricompaia come spettro. Viene da chiedersi se gli spettri di Marx non siano una riedizione del marxismo immaginario di cui parlava Raymond Aron negli anni Sessanta. In effetti, da una parte, la figura del marxista immaginario fotografa un eterno dissidio fra teoria e prassi (il mondo è pieno di cristiani immaginari, e persino di fascisti immaginari). D’altra parte, coglie una difficoltà rilevata da un testimone non sospetto, il Lukács della Distruzione della ragione quando osservava che gli intellettuali sentono l’ingiustizia sociale e avvertono la necessità di un cambiamento, ma al tempo stesso non se la sentono di fare nulla di concreto, per cui riforme e rivoluzioni avvengono in un cielo mitico, quello, poniamo, dell’oltrepassamento della metafisica, e per l’appunto della critica della ragione scientifica e calcolante come strumento di dominio. Quando, «per la contraddizion che nol consente», diventa troppo difficile continuare a dichiararsi di sinistra, si dice che la ragione è uno strumento di dominio e di violenza e – soprattutto, venendo al dunque – che la sinistra è conservatrice. Doppio salto mortale. L’eroe sfida il sentire comune e assume il rischio dell’isolamento. E per amore della verità dice delle cose di destra, con la clausola che è tanto più di sinistra quanto più è di destra poiché la sinistra è conformista. Tutto questo sembra perfettamente in linea con l’etica dell’eroismo: non è proprio come spararsi a Notre-Dame ma ci si avvicina, visto che, almeno in teoria, è mettersi contro la propria casta in nome dei propri principi.
Lasciando le conseguenze di questa teoria a chi ha il tempo per trovarle, vorrei rassicurare l’eroe: il rischio è immaginario, perché la caratteristica fondamentale dell’Italia è di essere un paese di destra. Ci si stupisce sempre, ma è così. Il senso della collettività è largamente superato dall’individualismo e dal familismo amorale. Quando il PCI è stato al suo massimo, non rappresentava che un terzo degli elettori. Dall’unità a oggi il prevalere di governi di destra non ha paragone, non dico con la Francia e l’Inghilterra, ma con la Germania e la Spagna. E per i più dichiararsi di sinistra, o almeno non dichiararsi di destra, è stato l’equivalente di dichiararsi cattolici in tanti altri secoli. Più o meno con la stessa convinzione e motivazione di Guicciardini: «El grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato di amare, per el particular mio la grandezza loro. Non fusse per questo avrei amato Martin Lutero quanto me medesimo». Questo per quanto riguarda gli intellettuali, che tuttavia sono una minoranza poco interessante, perché il vero soggetto della politica è un altro. Un altro che siamo tutti noi in quanto soggetti della politica, e che significativamente si presenta come il grande rimosso, ciò di cui non si può e non si deve parlare benché lo si presupponga quando si escogita una strategia di massa, che sia fare un film di successo, un campionato di qualche sport, una grande adunata religiosa.
Parlo del popolo. Non del popolo idealizzato o semplicemente allucinato, ma del popolo reale, tutti noi in quanto popolo, cioè del popolo bue. Tipicamente, negli ultimi seminari di Derrida su La bestia e il sovrano sistematicamente dedicati a una decostruzione delle figure della bestialità presenti nella scena politica del populismo mediatico mondiale (leoni, scimmie, sciacalli, falchi e colombe, lupi e agnelli ecc.), manca questa bestia innominabile, o nominata solo con una metafora tutto sommato eufemistica. Ma è al contrario proprio da una analisi più spregiudicata possibile del popolo bue, invece che del re della foresta che si deve partire per spiegarsi il populismo mediatico e porvi rimedio. Infatti, chi permette il populismo, se non il popolo bue? E cosa rende bue questo popolo, se non la radicale mancanza di illuminismo, l’esclusione del sapere a vantaggio del potere? D’accordo con le analisi di Žižek, qui il grande paradigma è davvero il momento in cui Goebbels, dopo Stalingrado, in un grande discorso al Palazzo dello Sport di Berlino, chiede alla folla se vuole una guerra totale, più totale di qualunque altra, e il popolo risponde entusiasta: «Sì!». Il popolo è stato accontentato, ed è interessante leggere nei diari di Goebbels come lui fosse ben consapevole della svolta costituita da quel discorso. In questa vicenda non è difficile vedere uno dei gesti più anti-illuministi della storia, «e gli uomini preferirono le tenebre alla luce», come il versetto di Giovanni che Leopardi pone in esergo alla Ginestra. «Qual puoi bramar felicità più vera / Che far d’ostriche scempio infra gli amici?», si chiedeva ancora Leopardi, nei Nuovi Credenti, descrivendo i discendenti di quei lazzari che, pochi decenni prima, avevano fatto scempio dei repubblicani nella reazione borbonica del 1799. «Il Popolo gli diede sopra [si parla di Nicola Fiano, ufficiale compromesso con la Repubblica napoletana], e lo lacerò tutto, lasciandoci sopra quasi le sole ossa. Fu ridotto a brandelli dalla carnivora plebe. Forse tutto fu abbrustolito e mangiato. Il fegato so, che fu ridotto a cottura, e mangiato tutto nell’istesso Mercato dalla vil Plebe Sanfedista. Un lazzaro avendo ricusato di mangiarne, fu ammazzato».
E allora? Vorrei suggerire, di fronte a questo dato di fatto, due considerazioni, una sul concetto di “sinistra”, l’altra sul concetto di “cosmopolitismo”. Quanto al concetto di “sinistra”, identificata con “conservazione”, verrebbe quasi da dirsi: se la sinistra è conservatrice, figuriamoci la destra. Ma sarebbe cavarsela con una battuta, e soprattutto dire una cosa falsa. Non c’è dubbio che c’è un senso in cui – che so – Bismarck o Thatcher, sono stati dei grandi innovatori, molto più dei loro antagonisti di sinistra. Per trovare degli innovatori i cui avversari fossero dei conservatori bisogna andare molto indietro nella storia, e tornare all’Ancien Régime. Credo che nei dibattiti su destra e sinistra, tradizione e innovazione, si possa almeno convenire su un punto, e cioè che Luigi XVI era conservatore e che Napoleone era innovatore (così è stato percepito da tutta l’Europa, allora e adesso). Tuttavia, vorrei portare l’attenzione su un punto che a mio avviso è cruciale: chi potrebbe seriamente sostenere che Napoleone era di sinistra? La domanda è assurda e non ha nemmeno un senso. Da quando, con la Rivoluzione Francese, il governo si è identificato con l’innovazione, la trasformazione e la razionalizzazione, e non con il mantenimento di un ordine garantito dalla tradizione e dal diritto divino (per aver chiaro ciò di cui sto parlando sarà sufficiente leggere un grande libro scritto con una grandissima prosa come Del Papa di de Maistre), è del tutto ovvio che l’innovazione viene dalla destra, ossia dalla parte che ha il governo. Il che, peraltro, spiega per quale motivo la sinistra, se e quando giunge al governo e deve imporre delle trasformazioni, diventa di destra: non perché, esaurita la spinta rivoluzionaria, diventi conservatrice, ma, proprio al contrario, perché risponde all’esigenza di innovazione che, negli Stati successivi all’Ancien Régime, è consustanziale all’azione di governo. Nessuna sorpresa dunque sul fatto che tra i grandi innovatori politici italiani si trovino Mussolini, Craxi, Berlusconi, non Matteotti, o Gramsci (che peraltro filosoficamente la pensava come Gentile), o Berlinguer. Sono stati i primi a segnare le grandi trasformazioni del Paese. Che poi queste si siano risolte nella maggior parte dei casi in catastrofi, è un altro paio di maniche: resta che i veri trasformatori sono stati loro. Sono loro che hanno ratificato o addirittura promosso la laicizzazione del paese, la separazione della politica dalla morale, la statalizzazione prima e la liberalizzazione poi.
A un certo punto, nelle grandi strutture totalitarie del Novecento, indubbiamente più innovative di tutti i sogni socialdemocratici, si è imposto il fenomeno del populismo, che è probabilmente l’unica vera innovazione nella politica degli ultimi secoli, perché ha saputo imporre, nel pieno della modernità, un accordo tra sovrano e popolo che prima era caratteristico dall’Ancien Régime nei suoi momenti migliori. È tuttora in questo orizzonte che si muove il dibattito politico in Italia, nella gara tra una destra che è strutturalmente innovativa e una sinistra che è strutturalmente conservatrice, e che tuttavia deve inseguire la destra nei suoi comportamenti e nei suoi slogan. A questo punto, si può forse dare risposta a un apparente mistero della politica italiana, il fatto cioè che una sinistra che potrebbe assumere per sé il motto di Beckett, «fallire ancora, fallire meglio», continui ad avere un margine di consenso, e una presenza elettorale, sino a quando degli innovatori troppo radicali la mettono fuori legge. Chi la vota, sa di poter ottenere protezione, che nella fattispecie significa “conservazione”. E tutto diventa chiaro: c’è una struttura costruttiva, che è innovatrice, e una struttura decostruttiva, che è conservatrice. A questo punto, per evitare una situazione di stallo, c’è una grande prospettiva per la sinistra italiana: perdersi in Europa, in una sinistra cosmopolita (perché non penso che il concetto di “sinistra”, proprio perché è storicamente determinato, si possa applicare altrove che in Europa), che possa enunciare vecchi e obsoleti princìpi di tutela dei deboli, rispetto delle regole, pagamento delle tasse.
Perché questo meccanismo funzioni, tuttavia, è appunto necessario che l’Italia si perda in Europa, perché solo l’Europa può garantire quello che manca all’Italia, che non è la politica, ma il governo, cioè anzitutto lo Stato. Proprio su questo punto il cosmopolitismo diventa decisivo, perché è l’unico rimedio a una tendenza che è radicata nei secoli, e che ha ragioni storiche che sarebbe lungo e anzitutto superfluo indagare qui (il dominio straniero, e dunque il ribellismo, la presenza di uno Stato nello Stato, la Chiesa, e dunque la perenne indecisione su cosa appartenga a Cesare e cosa appartenga a Dio ecc.). Mussolini, alle prese con gerarchi che rubavano e soldati che scappavano aveva giustamente osservato che governare gli italiani è inutile. Gli stessi italiani, però, quando vanno in altri paesi, accettano le regole, a meno che decidano di impiantare dei sistemi mafiosi. Invece di sognare un impero latino, l’unione di tutti i Paesi in cui questi problemi sono strutturali, sarebbe a mio avviso conveniente auspicare che sempre più, nel tempo, decresca la sovranità degli stati, si stemperino le peculiarità nazionali, si uniformi l’Europa sotto un impero che soprattutto non sia latino.
Per mettere la cosa in termini senz’altro troppo concreti: è preferibile essere governati da un laureato dell’École Nationale d’Administration, o da un cancelliere tedesco come Adenauer, o Brandt, o Schmidt, o Merkel, oppure dal dipendente di una azienda televisiva o da un funzionario che passa il suo tempo su Facebook? Io personalmente, visto che sono di sinistra e dunque conservatore, non ho dubbi: i primi mi danno più garanzie dei secondi. Se poi qualcuno, innovatore perché di destra, volesse contro-obiettarmi che ci sono elementi infinitamente più innovativi nei secondi, e che magari (ma raramente si giunge a questa sincerità) la mafia e la ’ndrangheta sono le uniche multinazionali originate in Italia che funzionino davvero, e che la camorra è la realizzazione di una politica rizomatica che va oltre i più audaci sogni dell’Anti-Edipo, gli risponderei: «Hai perfettamente ragione: gli innovatori sono loro. Gli emancipatori sono loro, nel senso che chi fa da sé fa per tre, e loro indubbiamente emancipano anzitutto e soprattutto se stessi. Ciò detto, visto che non siamo più nel Settecento, non vedo perché io dovrei lottare per l’innovazione come se il nemico da battere fosse l’Ancien Régime. “L’attuale re di Francia è calvo?” era una domanda insensata già ai tempi di Russell, figuriamoci adesso. Mi auguro che venga un giorno in cui sarà insensata anche la domanda “L’attuale Presidente della Repubblica italiana è calvo?”, e per intanto cerco di migliorare me stesso e, per quel poco che posso, di evitare che un innovatore radicale proponga la legalizzazione della camorra».

Questo testo è tratto da Manifesto per una sinistra cosmopolita, Mimesis Milano 2013 di cui costiutisce la postfazione.

 



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