Bruno Latour, resettare la modernità

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Franco Farinelli al saggio di Bruno Latour Riassemblare il sociale (Meltemi Editore, 2022).

Sommessamente, il libro seguente rivisita e spesso rovescia, quasi sempre senza dirlo, le mosse decisive della costruzione non soltanto del discorso sociologico, ma dell’intera cultura moderna. Nel senso che, ripercorrendo quest’ultima con discrezione, esso si trova di volta in volta a capovolgerne gli esiti con una mossa fulminea e in una sola battuta.
Si prenda a esempio il luogo dove si afferma che è la cosa stessa a dispiegare la propria molteplicità, sicché è possibile apprenderla secondo diversi punti di vista prima di essere unificata in una fase successiva. Si tratta, alla lettera, della ripresa del dibattito cinquecentesco sul “primato delle arti” e dell’inversione del suo destino. Allora la pittura aveva vinto sulla scultura, difesa soltanto da Cellini e da pochissimi altri proprio a motivo della pluralità degli sguardi e della mobilità del soggetto che questa implica, al contrario della pittura che è invece fondata su uno sguardo unico e sull’immobilità dello spettatore. A metà Cinquecento, proprio in base alla logica del dispositivo pittorico, ovvero della prospettiva lineare, nasceva a Firenze lo Stato moderno: di qui la staticità di chi guarda e l’unicità della cosa (funzione della singolarità di uno sguardo che esclude ogni dimensione collettiva), contro cui si dirige ora l’argomentazione di Latour. Con ciò si è a un passo dal cuore del testo, che batte secondo il ritmo del rapporto tra realtà e rappresentazione cartografica; rappresentazione di cui anche lo Stato, come la postura pittorica, è a sua volta espressione. Altrimenti, tanto per dirne una, ci si spieghi perché il territorio statale dovrebbe assumere di necessità le caratteristiche di continuità, omogeneità e isotropismo, che per Euclide contrassegnano la natura geometrica dell’estensione e in assenza delle quali nessun Stato al mondo potrebbe esistere. Al riguardo, neanche la genealogia da cui discende il pensiero di Latour è di poco conto. Anzi.

Leibniz concepiva lo spazio come un insieme di relazioni tra cose, come rete di posizioni (qualcosa di molto simile alla concezione latouriana), ma Kant no. Per il filosofo di Königsberg, lo spazio non era nemmeno una “materia eterea”, come sosteneva Newton, ma uno schema soggettivo imposto al mondo oggettivo. Altrimenti sarebbe stato impossibile spiegare l’asimmetria tra destra e sinistra, il fatto cioè che il guanto della mano destra non si addice all’altra e viceversa. Il Wittgenstein del Tractatus avrebbe risolto la faccenda immaginando uno spazio a quattro dimensioni, al cui interno si potrebbe girare il guanto destro intorno a sé stesso e calzarlo nel sinistro. Kant invece imponeva quella che, con un’espressione di Baudrillard (con cui però intendeva tutt’altro), potrebbe definirsi la “precessione del simulacro”, la precedenza della mappa rispetto al mondo: movenza che a ben vedere, numero di dimensioni a parte, è esattamente la stessa cosa che avrebbe suggerito Wittgenstein.
Nell’universo kantiano, che è il nostro, vige l’enantiomorfismo: dati due oggetti, le parti interne a ciascuno di essi possono anche avere relazioni del tutto simili e indistinguibili, perfettamente riconducibili all’idea di Leibniz, ma alcuni oggetti non sono sovrapponibili per rotazione, come appunto le estremità dei nostri arti superiori. Perciò Kant riteneva che il concetto leibniziano di rete mancasse di catturare la differenza essenziale tra le cose, che si comportano come immagini allo specchio, come “parti incongruenti”. Di conseguenza, gli appariva necessario concepire uno schema assoluto, concettualmente esterno e preesistente nei confronti della mano, al cui interno destra e sinistra potessero essere distinte. Come definizione di mappa non è male. Ed è l’avvio di tutta la riflessione kantiana e insieme l’atto che sanziona la legittimità pratico-filosofica della modernità. Ma è anche, per dirla con il vecchio Lukács di Storia e coscienza di classe, la nascita delle “forme feticistiche [ovvero cartografiche] dell’oggettualità che la produzione capitalistica produce necessariamente in un’apparenza che non cessa di essere tale per il fatto di essere riconosciuta come necessaria”. È proprio tale schema che Latour cerca, in prima battuta, di abolire. A porvi mente, tutte e cinque le “fonti di incertezza” passate in rassegna nella prima parte del volume altro non sono che la rimessa in discussione degli esiti della soluzione kantiana, degli effetti della sua mossa, che come ogni atto cartografico cristallizza e rapprende l’intero processo in cui la realtà consiste.
Il “raggruppamento” non è un oggetto ma un procedimento, designa l’atto continuo e dinamico del farsi e disfarsi dei “gruppi”, entità per natura ipostatizzate attraverso l’operazione cartografica, a sua volta potente ed esclusivo agente della conversione in definizione ostensiva di ogni definizione performativa.
“L’azione è superata” – la seconda tra le “fonti di incertezza” – comporta anzitutto quella crisi della distinzione tra soggetto e oggetto avviata, ancor prima di Cartesio, dalla protoquattrocentesca invenzione prospettica fiorentina, che spalanca tra i due termini del procedimento cognitivo l’abisso dello spazio domato soltanto dalla metrologia, ovvero dalla cartografia, come Kant aveva compreso per primo. Ecco perché nel caso dei mediatori le cause non permettono di dedurre gli effetti: come scrive Latour, la messa in questione del rapporto tra soggetto e oggetto – prodotta da quella dell’intervallo spaziale, che separandoli permette di distinguerli – implica anche l’indebolimento della presa del modello causa-effetto.
Perciò, come vuole la terza tra le “fonti di incertezza”, anche gli oggetti possiedono un’agency, e a importare non sono le matters of fact ma le matters of concern, come spiega la quarta tra le “fonti di incertezza”: non vale più alcuna opposizione binaria, a partire da quella tra natura e società, oltre che tra soggetto e oggetto. Occorre, infine, stilare resoconti, e perdipiù rischiosi. In tal modo l’incertezza da stato d’animo diventa metodo.

Poiché le prime quattro “fonti di incertezza” esprimono a dovere la crisi dell’ethos cartografico, l’ultima rinvia a una rappresentazione programmaticamente antitetica rispetto a qualsiasi possibile mappa. Il che implica il completo ribaltamento del pensiero occidentale, che già tra Cinque e Seicento veniva a configurarsi come il protocollo della logica cartografica.
Basterebbe, per brevità, rimandare a quanto Stephen Toulmin, nella sua Cosmopolis, ha illustrato a proposito dell’implicito programma filosofico della modernità, dotato nella sua versione tradizionale di tre fondamenti validi nell’insieme come congegno politico e sociale, oltre che scientifico: “la certezza, la formalità razionale e il desiderio di ripartire da una tabula rasa”, che all’interno di un’unica visione valgono non soltanto per la spiegazione del moto dei pianeti e delle maree, ma anche per la legittimazione del sistema degli Stati-nazione.
Tale congegno si sviluppa attraverso la rinuncia ai modi di conoscenza pratica tipici della lezione rinascimentale, e di questa rinuncia ci si capacita soltanto se ci si riferisce a quel che condannava Lutero nelle sue prediche: “Noi abbiamo cambiato la realtà in apparenza, e contempliamo la passione di Cristo soltanto dipinta sui foglietti e alle pareti”.
Basta sostituire il mondo alla passione di Cristo e ai santini le mappe, loro versione laica, per afferrare il senso e la ragione del distacco seicentesco dalle posizioni umanistiche; distacco che appunto passa, come ha spiegato Toulmin, attraverso un quadruplo rifiuto: di ogni sapere orale a favore di quello scritto, sicché la logica formale prende il posto della retorica; di ogni sapere particolare a favore di quello universale, sicché allo studio della folla dei particolari casi pratici si sostituisce quello dei principi generali; di ogni sapere locale a favore di quello generale, sicché la concreta diversità dei fenomeni e delle situazioni cede il passo alla messa a punto di assiomi astratti; di ogni sapere temporale, cioè tempestivo rispetto agli eventi e specifico rispetto ai contesti, a favore di quello atemporale, sicché il transitorio (“la traccia”, direbbe Latour) esce di scena e il perenne si afferma. A farvi caso, all’inizio del Cinquecento, la follia di cui Erasmo tesseva l’elogio agisce proprio in base a precetti che contravvengono a tali regole, a partire da quello per cui la razionalità di ogni comportamento dipende non da una ragione astratta, ma dalla concreta e momentanea situazione. Ancora oggi è folle colui il cui comportamento non obbedisce alle regole del dettato cartografico. E, tornando a Toulmin, a loro volta tali regole cancellano, insediandosi nella cabina di regia della conoscenza, quasi ogni memoria della loro installazione, applicandosi per prima cosa a quest’ultima. Ne deriva una serie di presupposizioni che non riflettono una traiettoria documentata, come di norma avviene nel caso di ipotesi scientifiche (nel linguaggio di Latour, “che non sopportano nessun resoconto”). Al contrario, esse vengono accettate in maniera irriflessa già in vista della loro applicazione. Ne riporto soltanto qualcuna tra quelle la cui origine cartografica (dalla sostituzione della mappa al problema relativo alla natura della realtà) riesce meno mediata e più evidente e che più direttamente contrastano, con la loro certezza, le ragioni delle incertezze latouriane: la sostanza materiale della struttura fisica è essenzialmente inerte; un corpo non può agire in un luogo dove non è; gli oggetti e i processi fisici non possono pensare o ragionare; Dio ha combinato gli oggetti naturali in sistemi stabili. E si potrebbe continuare. Di tali e consimili presupposizioni, prive di ogni prova logica e persino di supporto fattuale, ma tutte derivanti dalla sostituzione dell’immagine cartografica alla realtà, si componeva l’impalcatura intellettuale che a partire dalla fine del Seicento aveva permesso a Newton e ai suoi seguaci di procedere alla costruzione della fisica moderna. È proprio rovesciando tali posizioni che inizia l’analisi di Latour.

Bruno Latour, Riassemblare il sociale (Meltemi Editore, traduzione di Donatella Caristina, 424 pag., 25 €, 2022)

Eppure, nella seconda parte del volume, con vero atto di pietas scientifica, Latour riprende in mano le carte geografiche stropicciate e si sforza di farle tornare lisce come prima, eliminandone le pieghe. Viene in mente L’Italia illustrata di Flavio Biondo, la prima, quattrocentesca guida turistica del nostro Paese, nel cui proemio le mappe sono zattere, l’unico sostegno cui l’umanità può aggrapparsi nel corso delle grandi tempeste che agitano il mare della storia. Vi è qualcosa di commovente nella pazienza e nell’umiltà che il gesto di Latour implica, e insieme di autenticamente rivoluzionario. Trasformare la superficie del nostro pianeta in un’unica, gigantesca mappa è stato il grande (e in sostanza realizzato) programma della modernità. Tutto iniziava con il ritorno a Firenze, alla fine del Trecento, della Geografia di Tolomeo, il manuale che dal II secolo della nostra era aveva insegnato a trasformare la sfera terrestre in una serie di rappresentazioni geografiche, secondo il movimento discendente in verticale che dal punto di proiezione fissato in cielo appunto proietta l’ordine matematico sulla faccia dell’intera Terra. La proiezione lineare quattrocentesca non è stata altro che la trasposizione del procedimento tolemaico, la sua riduzione e limitazione al piano orizzontale: di qui la nascita del vettore spaziale, il principale agente dell’edificazione dell’intera nostra epoca fino al 1969, anno di nascita della Rete, al cui interno invece lo spazio non conta quasi più nulla. E di qui il bisogno di ripensare tutto, cioè di riassemblare in forma inedita gli elementi di cui la realtà si compone, di “resettare la modernità”, per adoperare un’espressione cara a Latour. Ciò a partire dal basso e non più dall’alto, dalla fisica e non più dalla metafisica. Ma anche se nessuna interazione può definirsi isotopica, sincronica, sinottica, omogenea e isobarica, vale a dire in una parola cartografica, tutto quel che abbiamo come umani per affrontare il mondo resta una mappa, la Grande Mediatrice da cui tutti gli altri mediatori discendono, quella che consente di separare l’inafferrabile soggettività dall’inassegnabile struttura, fonte unica di ogni possibile metrologia. Perciò le leggi del mondo sociale, spiega Latour, si trovano non dietro la scena, sopra le nostre teste o prima dell’azione, ma al contrario dopo l’azione, sotto i partecipanti e in primo piano.
È “tempo di tornare al tavolo da disegno”, ma per tentare come prima cosa di comprendere che cosa significa disegnare su un piano. È infine a tale inusitata impresa che in fondo Bruno Latour, senza espressamente dirlo, ci invita ancora una volta sommessamente a partecipare. Partendo dal temerario sogno del contatto della nostra mano destra con la sinistra di Kant, nel consapevolmente impossibile tentativo della loro congruenza.


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139