American Horror Story è una serie interessante più per le sue premesse che per l’esecuzione. La quarta stagione è ambientata a Jupiter, Florida, nel 1952. È troppo tardi per narrare l’epopea dei circhi viaggianti che esibivano freaks, corpi “anormali”, deformi o difformi. Quello che resta da raccontare è un fenomeno al suo crepuscolo. American Horror Story: Freak Show si concentra dunque sulla persistenza di un’espressione culturale oltre l’arco fisico della sua esistenza; sull’ostinazione a dare senso a un’esperienza quando ormai il pubblico cui si rivolge ha smesso di ritenerla attraente o legittima. È in particolare il personaggio della direttrice del freak show, Elsa Mars, a mostrare il rifiuto più risoluto ad ammettere la fine di un’epoca e della sua gloria. Una delle grandi fonti di ispirazione della quarta stagione è non a caso Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder.
AHS: Freak Show parla dunque dell’obsolescenza di una forma spettacolare. Trattandosi di una serie televisiva, è evidente che AHS va a cercare il confronto con il cinema, il medium con cui la televisione viene (o veniva) sempre messa a confronto per misurarne la qualità. AHS è in effetti affamata di cinema, tanto nel linguaggio visivo (movimenti di macchina, scelte di inquadratura, montaggio) quanto nei riferimenti intertestuali: oltre a Viale del tramonto, la serie cita l’espressionismo tedesco, i film con Marlene Dietrich, e poi naturalmente il cinema dei freaks, in particolare il classico di Tod Browning (Freaks, 1932).
La resistenza all’estinzione mostrata dal freak show come forma storica è utilizzata quindi come metafora per leggere il rapporto tra cinema e serialità. Tale elemento tematico è diegetizzato in alcuni dialoghi della serie (dall’ep. 05 in poi), quando a Elsa Mars viene fatta la proposta beffarda e fraudolenta di condurre uno show televisivo – proprio a lei che ha sempre e solo voluto diventare una star del cinema. Ma la straordinaria esclamazione della diva del muto di Viale del tramonto, “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo”, può essere oggi traslata e reinterpretata in termini non peggiorativi: il cinema è davvero diventato piccolo e trova ospitalità su qualsiasi schermo, domestico o portatile.
La gloria del cinema, dunque, non solo viene vista alla tivù (AHS vale anche come “ripasso” di alcuni grandi momenti della storia della settima arte), ma viene anche rivista dalla tivù, che stabilisce nuove forme di epica audiovisiva. La vaghezza del titolo “American Horror Story” segnala inoltre che la serie è costruita sulla ricognizione, molto spesso manieristica, del genere horror, che diventa una riflessione estesa agli altri generi cinematografici (americani), alla loro scomparsa, diluizione, passaggio alla televisione.
Le star principali del freak show di Elsa Mars sono due sorelle siamesi legate insieme in modo particolarmente estremo: le teste delle gemelle spuntano da unico tronco. Questa presenza perturbante consente alla regia di sperimentare un’efficace innovazione stilistica. Nel primo episodio della serie viene utilizzato lo split screen per restituire la duplice visione delle due sorelle: sul lato destro dello schermo vediamo ciò che vede l’una, a sinistra ciò che vede l’altra. Le differenze rispetto al luogo o agli oggetti su cui nello stesso esatto momento si posa il loro sguardo sono significative: in una scena di dialogo con Elsa Mars la gemella più timida guarda l’interlocutrice, l’altra fissa una rivista di cinema. I due punti di vista corrispondono a caratteri e letture della realtà spesso divergenti. Lo split screen non comunica solo una tensione interna alla coppia ma rimanda alla questione della selezione dello sguardo (ovvero dell’inquadratura) ai fini della costruzione di un’identità: ciò che ci definisce è ciò che scegliamo di guardare.
Evidentemente AHS usa questo personaggio per parlare ancora d’altro, del linguaggio del cinema e della televisione. Si può pensare che le gemelle siamesi siano cinema e tivù, che spuntano da un busto unico ma sono costrette alla diversità di sguardo, a una contrapposizione caratteriale. Il freak, figura che per definizione confonde le certezze identitarie degli esseri umani, serve dunque a mettere in discussione anche l’identità dei diversi media.