Il 18 maggio del 1872 – 150 anni fa – nasceva Bertrand Russell. Universalmente noto per i suoi contributi alla logica e alla filosofia della matematica, nonché per il suo attivismo e i suoi numerosi interventi nei dibattiti pubblici del suo tempo, Russell fu tra i massimi filosofi anglosassoni del ‘900. In un capitolo della sua autobiografia (La mia filosofia, Mimesis Edizioni, 276 pag., 20 €, 2021), Russell racconta dei suoi primi incontri con la filosofia e riporta le sue prime riflessioni, riprendendole direttamente dai diari della sua adolescenza. In occasione dei 150 anni passati dalla sua nascita, su Scenari pubblichiamo integralmente questo capitolo, intitolato Primi passi.
Cominciai a riflettere sulle questioni filosofiche a quindici anni. Da allora fino a quando andai a Cambridge, tre anni dopo, le mie meditazioni furono solitarie e del tutto dilettantesche; infatti non avevo mai letto alcun testo di filosofia finché, negli ultimi mesi prima di entrare al Trinity College, non lessi la Logica di Mill. La matematica occupava gran parte del mio tempo, e la maggior parte dei miei tentativi di speculazione filosofica, ma la spinta emotiva che era all’origine delle mie speculazioni consisteva soprattutto nel dubbio sui dogmi fondamentali della religione. Mi occupavo dei miei dubbi teologici, non solo perché avevo trovato conforto nella religione, ma anche perché sentivo che tali dubbi, se li avessi esternati, avrebbero causato dolore e ironia, perciò mi chiusi in un vero e proprio isolamento. Immediatamente prima e immediatamente dopo il mio sedicesimo compleanno, scrissi ciò in cui credevo e ciò in cui non credevo, utilizzando l’alfabeto greco e l’ortografia fonetica al fine di mascherare il tutto. Quelli qui di seguito sono alcuni stralci di tali riflessioni.
3 marzo 1888.
Scriverò riguardo ad alcune argomentazioni, soprattutto religiose, a cui sono ora interessato. In seguito a un insieme di circostanze, sono giunto a indagare i reali fondamenti della religione secondo la quale sono stato educato. Su alcuni punti le mie conclusioni hanno dato conferma della mia fede precedente, mentre su altri sono stato irresistibilmente portato a conclusioni capaci non solo di scandalizzare i miei, ma di causarmi grande sofferenza. Poche sono le cose di cui ho la certezza, ma le mie opinioni, anche quando non sono del tutto certe, sono molto vicine a esserlo riguardo ad alcune cose. Non ho il coraggio di dire ai miei che non credo quasi più nell’immortalità…
19 marzo.
Oggi ho intenzione di esporre le ragioni su cui si fonda la mia fede in Dio. Per cominciare potrei dire che credo in Dio, e che potrei dichiararmi un teista, se proprio dovessi dare un nome alla mia fede. Orbene, al fine di trovare le ragioni per credere in Dio, prenderò in considerazione solo argomentazioni scientifiche. Questo è un voto che ho fatto, e mi costa molto mantenerlo dato che mi sono imposto di rifiutare tutto ciò che è sentimento. Per trovare le basi scientifiche che giustifichino la fede in Dio, dobbiamo risalire al principio di tutte le cose. È noto che, se le odierne leggi della natura sono sempre state in vigore, l’esatta quantità di materia e di energia presente attualmente nell’universo dovrebbe essere sempre esistita, ma l’ipotesi nebulare non fa risalire troppo indietro nel tempo il periodo in cui l’intero universo era riempito di materia nebulare indifferenziata. Dunque è molto probabile che la materia e la forza attive attualmente abbiano avuto un impulso iniziale, il che chiaramente può essere stato causato soltanto dal potere divino. Ma, anche ammettendo che entrambe siano sempre esistite, da dove proviene la causa che regola l’azione della forza sulla materia? Penso che ciò sia attribuibile soltanto al controllo di una potenza divina, che di conseguenza chiamerò Dio.
22 marzo.
Nelle mie ultime riflessioni ho dimostrato l’esistenza di Dio, mediante l’uniformità della natura e la persistenza di determinate leggi che ne regolano il corso. Approfondiamo ora la ragionevolezza del ragionamento. Supponiamo che l’universo che adesso vediamo si sia, come alcuni presumono, evoluto per mero caso. Dovremmo dunque aspettarci che ogni singolo atomo si comporti, in qualsiasi situazione, in modo esattamente uguale a un altro atomo? Se è vero che gli atomi sono senza vita, penso che non ci sia ragione di aspettarsi che facciano nulla senza una forza che li controlli. Se, invece, essi sono dotati di libero arbitrio, siamo costretti a concludere che tutti gli atomi dell’universo si sono alleati in una sorta di commonwealth e hanno stabilito leggi che nessuno di loro infrange mai. Evidentemente questa è un’ipotesi assurda, e quindi siamo costretti a credere in Dio. Tuttavia questo modo di dimostrarne l’esistenza, costituisce al tempo stesso un modo per screditare i miracoli e le altre presunte manifestazioni del potere divino. Non smentisce, comunque, la possibilità che si verifichino, poiché, chiaramente, chi fa le leggi può anche disfarle. Potremmo arrivare in un altro modo a non credere ai miracoli, e cioè: se Dio è colui che fa le leggi, il fatto che queste dovessero essere occasionalmente modificate, implicherebbe sicuramente un’imperfezione nelle leggi stesse, e un’imperfezione del genere non potrebbe mai essere imputata al potere divino, come se nella Bibbia Dio si pentisse della propria opera.
2 aprile.
Vengo adesso all’argomento che, più di ogni altro forse, interessa personalmente noi miseri mortali. Mi riferisco alla questione dell’immortalità. Questa è la questione che mi ha causato più delusione e sofferenza. La cosa si può affrontare in due modi. Il primo sulla base dell’evoluzione e del confronto dell’uomo con gli animali. Il secondo sulla base del confronto dell’uomo con Dio. Il primo è il più scientifico, visto che conosciamo tutto sugli animali, ma nulla riguardo a Dio. Bene, ammesso ciò, prendendo in considerazione come prima cosa il libero arbitrio, non vi è una netta divisione fra l’uomo e il protozoo. Il che risulta alquanto difficile da fare. Perciò, se attribuiamo il libero arbitrio all’uomo, lo dobbiamo attribuire anche al protozoo. Quindi, a meno che non vogliamo attribuire il libero arbitrio al protozoo, non possiamo attribuirlo neppure all’uomo. Questo è possibile, ma è difficile da immaginare, se, come mi sembra probabile, il protoplasma si è unito durante il normale corso della natura, senza nessuna particolare Provvidenza divina. Quindi noi e tutti gli esseri viventi siamo mantenuti in vita semplicemente da forze chimiche e non siamo più portentosi di un albero per il quale nessuno rivendica il libero arbitrio. E se avessimo una conoscenza sufficiente delle forze che agiscono su ognuno di noi in ogni momento, i motivi pro e contro, e la costituzione del suo cervello, allora potremmo prevedere ciò che farà in qualunque momento. Anche dal punto di vista religioso, è molto presuntuoso da parte nostra attribuire a noi stessi il libero arbitrio, in quanto costituisce evidentemente un’infrazione delle leggi divine, visto che, secondo le sue leggi, tutte le nostre azioni sarebbero fissate come quelle delle stelle. Credo che dovremmo lasciare a Dio la costituzione originaria delle leggi che non vengono mai infrante e che determinano le azioni di tutti. E senza avere il libero arbitrio non possiamo avere l’immortalità.
9 aprile.
Vorrei davvero poter credere alla vita eterna, poiché è davvero avvilente pensare che l’uomo sia soltanto una sorta di macchina dotata, per sua sfortuna, di coscienza. Ma nessun’altra teoria è coerente con l’assoluta onnipotenza di Dio, di cui, invece, penso che la scienza fornisca ampia dimostrazione. Pertanto, devo essere un ateo o uno che non crede nell’immortalità. Ritenendo impossibile la prima ipotesi, accetto la seconda e faccio in modo che nessuno lo sappia. Per quanto possa essere deludente una tale visione dell’uomo, credo che ci fornisca una prodigiosa immagine della grandezza di Dio pensare che egli possa da principio creare delle leggi che, a loro volta, agendo su di una mera massa di materia nebulare o forse semplicemente sull’etere diffuso in questa parte dell’universo, daranno vita anche a creature come noi, non soltanto consapevoli della propria esistenza, ma capaci addirittura di scandagliare entro certi limiti i misteri di Dio! Tutto ciò senza alcun ulteriore intervento da parte sua! Chiediamoci adesso se questa dottrina della mancanza del libero arbitrio sia così assurda. Se ne parliamo con qualcuno, avremo in cambio solo beffe o qualcosa del genere. Ma forse chi si comporta così non può farne a meno, perché il credere al libero arbitrio gli fornisce anche il motivo per farlo. Infatti, qualsiasi cosa facciamo abbiamo sempre una ragione che ci induce a compierla. E inoltre, non vi è alcuna linea di demarcazione fra Shakespeare o Herbert Spencer e un abitante della Papuasia. Ma fra loro e un papuano sembra esservi tanta differenza quanta ve ne è fra un abitante della Papuasia e una scimmia.
14 aprile.
Sono ancora grandi le difficoltà che ha di fronte a sé l’accettazione della teoria secondo la quale l’uomo non possiede né l’immortalità, né il libero arbitrio, né un’anima; in breve, che non è niente di più che una specie di macchina ingegnosa dotata di coscienza. Infatti la coscienza è, di per se stessa, una qualità che distingue in maniera alquanto netta gli uomini dalla materia inerte, e visto che gli uomini possiedono una cosa che li distingue dalla materia inerte, perché non devono possederne due, perché non il libero arbitrio? Con l’espressione libero arbitrio, mi riferisco al fatto che essi non obbediscono, per esempio, alla legge elementare del moto, o perlomeno che la direzione nella quale viene impiegata l’energia che inglobano non dipende interamente da circostanze esterne. Inoltre sembra impossibile immaginare che l’uomo, il grande Uomo, con la sua ragione, la sua conoscenza dell’universo, le sue idee del bene e del male, l’Uomo con le sue emozioni, i suoi amori e i suoi odi e la sua religione, che quest’Uomo debba essere un composto chimico deperibile, il cui carattere e la sua capacità di agire sul bene e sul male dipendano unicamente e interamente dai particolari movimenti delle molecole del suo cervello, e che tutti i più grandi uomini siano stati grandi in ragione di qualche molecola che ne ha colpita un’altra un po’ più frequentemente che in altri uomini! Non sembra forse del tutto incredibile, e non è forse matto chiunque creda a un’assurdità del genere? Qual è, però, l’alternativa? Che, accettando la teoria evoluzionistica che è praticamente dimostrata, l’intelligenza delle scimmie sia gradualmente aumentata e che Dio abbia improvvisamente e miracolosamente dotato una di esse di quella meravigliosa ragione che misteriosamente possediamo. Allora l’uomo, definito a ragione il capolavoro di Dio, è dunque destinato a scomparire completamente dopo aver impiegato tanti anni a evolversi? Non possiamo dirlo, ma io preferisco l’idea che Dio abbia avuto bisogno di un miracolo per creare l’uomo e che ora lo lasci libero di fare ciò che preferisce.
18 aprile.
Dunque, se si accetta la teoria che l’uomo è mortale e privo di libero arbitrio, il che non è altro che una semplice teoria, come accade per tutto ciò che è mera speculazione, che idea possiamo farci di cosa è giusto e di cosa è sbagliato? Se si menziona una dottrina assurda come quella della predestinazione, la quale peraltro giunge pressoché allo stesso risultato di tutte le altre teorie, anche se la gente non vuole ammetterlo, molti dicono: e che ne è della coscienza, eccetera (che essi ritengono sia stata instillata nell’uomo direttamente da Dio)? Orbene, la mia idea è che la nostra coscienza debba la propria esistenza innanzitutto all’evoluzione, che ovviamente ha dato luogo all’istinto di conservazione, e in secondo luogo alla civilizzazione e all’educazione, che hanno portato a un notevole raffinamento dell’istinto di auto-conservazione. Prendiamo i dieci comandamenti quali esempio concreto della moralità primitiva. Molti di essi sono volti a garantire il quieto vivere della comunità, che è anche il miglior modo per la preservazione della specie. Di conseguenza quello che è sempre stato considerato il peggiore dei crimini, e quello per il quale si prova maggiore rimorso, è l’omicidio, cioè il diretto annientamento della specie. Inoltre, come è noto, presso gli Ebrei si riteneva che l’avere molti figli fosse un segno della benevolenza di Dio, mentre coloro che non ne avevano erano considerati maledetti da Dio. Anche presso i Romani le vedove erano odiate, e credo, fosse loro proibito di restare a Roma più di un anno senza risposarsi. Orbene, qual è il motivo di tali credenze? Non era forse perché l’oggetto di pietà o di disprezzo non avrebbe messo al mondo nuovi esseri umani? Si può ben comprendere come certe idee potessero formarsi quando gli uomini erano piuttosto consapevoli del fatto che se l’omicidio e il suicidio si fossero diffusi in una tribù questa si sarebbe estinta, per cui un popolo che aborrisse tali comportamenti, ne avrebbe tratto grande vantaggio. È ovvio che presso le società più avanzate queste idee si siano alquanto modificate. La mia intendo esporla la prossima volta.
20 aprile.
Credo pertanto che la morale primitiva tragga sempre origine dall’istinto di conservazione della specie. Ma è forse questa una regola che dovrebbe seguire anche una società civile? Penso di no. La regola di vita in base alla quale determino la mia condotta, tanto che considero un peccato allontanarmi da essa, è quella di agire nella maniera che reputo più consona a produrre la massima felicità, tenendo conto sia dell’intensità della felicità sia del numero di persone che ne trarranno beneficio. So che mia nonna la considera una regola di vita impraticabile e afferma che, dato che non si può mai sapere qual è la cosa in grado di produrre la massima felicità, è molto meglio dare ascolto alla voce interiore. Comunque, si può facilmente constatare come la coscienza dipenda per lo più dall’educazione (in Irlanda, per esempio, la gente comune non considera sbagliato mentire), fatto che, da solo, mi sembra sufficiente per confutare la natura divina della coscienza. E dato che, come credo, la coscienza è solo un mero risultato della combinazione fra evoluzione e educazione, allora è ovviamente un’assurdità seguire la coscienza invece che la ragione. E la mia ragione mi dice che, per produrre il massimo della felicità, è meglio agire così che in qualsiasi altro modo. Perciò ho cercato di scoprire se vi fosse un altro obiettivo che avrei potuto pormi, ma non ci sono riuscito. E non parlo della mia felicità in particolare, ma di quella di tutti indiscriminatamente, senza fare alcuna distinzione fra me stesso, parenti, amici o perfetti sconosciuti.
Nella vita reale mi importa davvero poco del fatto che gli altri abbiano opinioni diverse dalle mie, dato che ovviamente è sempre meglio fare ciò che i propri cari considerano giusto, sempre che vi sia la possibilità di scoprirlo. I motivi che mi portano ad affermare questo sono: primo, che non riesco a trovarne altri, essendo stato costretto, come chiunque altro mediti seriamente sull’evoluzione, ad abbandonare la vecchia idea di interrogare la mia coscienza; secondo, mi sembra che la felicità sia il bene più grande a cui aspirare, quello a cui in pratica aspirano tutti gli uomini onesti. Come applicazione della teoria alla vita pratica dirò che, trovandomi in una situazione ove nessun altro oltre me fosse coinvolto (ammesso che possa esistere una situazione del genere), io senza dubbio agirei del tutto egoisticamente al fine di soddisfare me stesso. Per fare un altro esempio, supponiamo poi che avessi la possibilità di salvare la vita a un uomo noto per essere malvagio, che sarebbe meglio se scomparisse dal mondo. Chiaramente dovrei decidere se tuffarmi per soccorrerlo solo sulla base di considerazioni relative unicamente alla mia felicità. Infatti, se perdessi la vita, sarebbe un modo semplice di risolvere la questione, e se lo salvassi, godrei di infiniti elogi. Tuttavia, se lo lasciassi annegare perderei un’opportunità di morire e dovrei subire molti rimproveri, ma il mondo trarrebbe senz’altro beneficio dalla sua morte e, oso sperare, dalla mia sopravvivenza.
29 aprile.
Ho fatto il voto di seguire, in ogni caso, la ragione, e non gli istinti ereditati in parte dai miei avi e poi gradualmente raffinati mediante l’uso della selezione, e in parte dovuti alla mia educazione. Sarebbe davvero assurdo seguirli quando si deve scegliere tra il bene e il male. Infatti, come ho dimostrato prima, la parte ereditata è costituita soltanto da quei principi riconducibili alla conservazione della specie, o meglio, di quella particolare parte della specie a cui appartengo. La parte riconducibile all’educazione, invece, è buona o cattiva a seconda del tipo di educazione che ciascuno ha avuto. Tuttavia, questa voce interiore, questa coscienza donataci da Dio, la stessa che portò Maria la Sanguinaria a mandare al rogo i protestanti, è proprio quella che noi esseri ragionevoli dovremmo seguire. Ritengo che un’idea del genere sia folle e mi sforzo di attenermi quanto più possibile alla ragione. L’ideale che faccio mio è quello che in definitiva procura il massimo della felicità al maggior numero di persone. A questo punto posso applicare la ragione per scoprire la via più consona al raggiungimento di tale obiettivo.
3 giugno.
È straordinario quanto siano pochi i principi o i dogmi di cui io sia riuscito a convincermi. Assisto alle mie precedenti convinzioni che, l’una dopo l’altra, scivolano via da me fino a giungere nel regno del dubbio. Per esempio, non avevo mai dubitato che la conquista della verità fosse un bene a cui aspirare. Adesso, invece, ho i più grossi dubbi e incertezze in proposito. Infatti la ricerca della verità mi ha portato ai risultati che ho esposto in questo libro, mentre, se mi fossi accontentato di accettare gli insegnamenti avuti in gioventù, mi sarei trovato perfettamente a mio agio. La ricerca della verità ha mandato in frantumi gran parte delle mie convinzioni e mi ha fatto commettere quelli che probabilmente sono dei peccati ove, altrimenti, non ne avrei commessi. Non credo affatto che ciò mi abbia reso più felice; senz’altro ha fatto in modo che maturassi, mi ha portato a disprezzare le sciocchezze e la futilità, ma al tempo stesso mi ha privato della spensieratezza, mi ha reso molto più difficile stringere sincere amicizie, ma, quel che è peggio, mi ha impedito di discorrere liberamente con i miei, estraniandoli da alcuni dei miei pensieri più profondi. Perché, infatti, se per caso li manifestassi, essi diverrebbero immediatamente oggetto di scherno, il che è indicibilmente doloroso per me, nonostante non sia fatto con cattiveria. Nel mio caso, quindi, devo dire che gli effetti della ricerca della verità sono stati più negativi che positivi.
Ma esiste chi non considera verità ciò che io accetto come tale, il quale potrebbe obiettare che se giungessi alla verità pura ne risulterei molto più felice, tuttavia questa è una asserzione molto opinabile. Insomma, nutro grandi dubbi riguardo ai reali vantaggi della verità. Di certo la verità nella biologia sminuisce molto l’idea che uno ha dell’uomo, il che è davvero doloroso. Inoltre, la verità rende estranei i vecchi amici e impedisce di farsene di nuovi, e anche questo è un aspetto negativo. Forse si dovrebbe guardare a tutto ciò come se fosse un martirio, dato che molto spesso la verità conquistata da un uomo è in grado di incrementare la felicità di molti altri, anche se non la sua. Nel complesso sono incline a ricercare la verità, sebbene non abbia alcuna intenzione di divulgare il genere di verità esposto in questo libro (se mai si possa parlare di verità), ma piuttosto di impedire che ciò accada.
A quell’epoca la mia mente si trovava in uno stato di confusione, derivante dal tentativo di combinare punti di vista e modi di sentire appartenenti a tre secoli diversi. Come mostrano gli estratti sopra riportati, il mio pensiero si evolveva, in forma immatura, secondo linee molto simili a quelle del pensiero di Cartesio. Di Cartesio conoscevo il “nome”, sapevo solo che era l’inventore delle coordinate cartesiane, ma non che avesse scritto opere filosofiche. Il mio rifiuto del libero arbitrio, in quanto contrastante con l’onnipotenza di Dio, avrebbe potuto condurmi a una filosofia simile a quella di Spinoza. Ero spinto verso lo stesso punto di vista proprio del XVII secolo dalle stesse cause che lo avevano prodotto in origine: vale a dire la familiarità con i principi della dinamica e la convinzione che essi fornissero una spiegazione per tutti i movimenti della materia. Dopo un po’, comunque, finii per non credere più in Dio e assunsi una posizione più vicina a quella dei philosophes francesi del XVIII secolo. Mi trovavo d’accordo con loro essendo un appassionato sostenitore del razionalismo; mi piaceva la tecnica di calcolo di Laplace; odiavo tutto ciò che consideravo superstizione, e credevo profondamente nella perfettibilità dell’uomo, mediante una combinazione di ragione e ingegno. Tutto questo era dettato dall’entusiasmo, ma non dal sentimento.
Contemporaneamente, comunque, avevo un atteggiamento molto emotivo, per il quale non riuscivo a trovare alcun sostegno intellettuale. Mi dolevo della perdita della mia fede religiosa, amavo le bellezze della natura con selvaggia passione e leggevo con partecipazione, pur respingendole intellettualmente con grande decisione, le apologie della religione di Wordsworth, Carlyle e Tennyson. Fatta eccezione per Buckle, non mi capitò in mano alcun libro che mi sembrasse possedere la dovuta integrità intellettuale, finché non lessi la Logica di Mill. Ciononostante, mi commuoveva la retorica, anche se non potevo accettarla. L’“Eterno No” e l’“Eterno Sì” di Carlyle, mi sembravano eccellenti, sebbene pensassi che, in fondo in fondo, fossero solo sciocchezze. Solo Shelley, fra gli scrittori che conoscevo a quel tempo, mi era del tutto congeniale. Mi era congeniale non soltanto per i suoi pregi, ma anche per i suoi difetti. La sua autocommiserazione e il suo ateismo mi consolavano entrambi. Ero del tutto incapace di combinare in un insieme armonioso la conoscenza del XVII secolo, le convinzioni del XVIII e gli entusiasmi del XIX.
I miei dubbi non riguardavano solo la teologia, ma anche la matematica. Alcune dimostrazioni di Euclide, soprattutto quelle che adottavano il metodo della sovrapposizione, mi sembravano molto deboli. Uno dei miei precettori mi parlò della geometria non euclidea. Sebbene, fino a molti anni dopo, non ne seppi nulla, a eccezione del fatto che esistesse, trovavo molto entusiasmante e intellettualmente stimolante apprendere che vi fosse una materia del genere, una fonte di inquietante dubbio geometrico. Coloro che mi insegnarono il calcolo infinitesimale ignoravano le dimostrazioni valide dei suoi teoremi fondamentali e tentavano di persuadermi ad accettare i sofismi ufficiali quasi fossero un atto di fede. Mi rendevo conto del fatto che il calcolo, una volta applicato, funzionava, ma non arrivavo a capirne il perché […].
Nonostante fossi preda dei tormenti adolescenziali, in quegli anni ero spinto dalla sete di conoscenza e di conquiste intellettuali. Credevo che sarebbe stato possibile far piazza pulita di tutte le mistificazioni, e che ognuno sarebbe stato felice in un mondo dove le macchine avrebbero svolto il lavoro e la giustizia avrebbe provveduto a regolarne la distribuzione. Speravo prima o poi di arrivare a una matematica perfetta, che non avrebbe lasciato più spazio ai dubbi, e quindi di estendere a poco a poco la sfera della certezza dalla matematica alle altre scienze. Gradualmente, in quei tre anni, il mio interesse per la teologia andò diminuendo, e fu con un vero e proprio senso di sollievo che mi liberai delle ultime vestigia dell’ortodossia teologica.