Bill Viola, ovvero il paradosso dell’aura elettronica

L’arte di Bill Viola non ha bisogno di ribadire per l’ennesima volta la sua importanza e il suo ruolo nella ricomprensione del senso dell’immagine in rapporto alla tecnologia elettronico-digitale. Non sono mancate le occasioni, nel corso degli ultimi anni, di apprezzare l’opera del maestro Viola, dalla mostra romana del 2008 a Palazzo delle Esposizioni alla mostra del 2017 a Palazzo Strozzi a Firenze, fino ad arrivare al recentissimo allestimento site specific dal titolo Purification all’interno del Palazzo Reale di Palermo. Il Museo di Palazzo Buonaparte di Roma ha deciso di dedicare una mostra monografica alla produzione dell’artista americano; il titolo della mostra, Icons of light, esprime al meglio l’esperienza del fruitore immerso in un’oscurità scolpita dagli schermi che ciclicamente trasmettono le immagini iper-rallentate di Bill Viola. Immagini che presuppongono da subito l’ambiente spaziale nel quale gli schermi sono installati: la produzione videoinstallativa di Viola infatti presuppone sempre un fruitore vigile in grado di sganciarsi dal turbine di impressioni sinestetiche che caratterizzano la sua vita ordinaria e quotidiana, per questo un video di Viola è una esperienza “stra-ordinaria”, perché fuori dal comune, speciale, unica. La straordinarietà non è frenesia, iper-accelerazione, parossismo sensoriale: queste “immagini in movimento” infatti, maniera paradossale, ambiscono da sempre all’immobilità, all’assoluta assenza di percezione edonisticamente appagante.

Bill Viola Icons of light @ Palazzo Bonaparte (5 marzo – 26 giugno 2022, Roma)

Si possono rintracciare due diverse linee interpretative dell’arte di Viola; la prima, che vede nell’opera dell’artista un recupero di quella che Walter Benjamin, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica pubblicato negli anni Trenta, definiva “aura” in rapporto all’arte tradizionale, che sembrava irrimediabilmente perduta con l’avvento delle nuove tecnologie (nell’epoca della scrittura del saggio, rappresentate dal cinema), e la seconda che invece inscrive Viola pienamente all’interno dell’arte post-auratica, sullo stesso versante dell’immagine cinematografica, perché capace di generare l’ “appercezione”, ovvero la fuoriuscita dalla fruizione passiva dell’iperstimolazione della modernità e la conseguente opportunità di comprendere coscientemente il mondo contemporaneo – anche interrogandosi su ciò che solitamente non problematizziamo ma che ci limitiamo a consumare in maniera automatica. La paradossalità delle opere di Viola sta propria nella reintroduzione dell’aura nell’arte contemporanea, attraverso l’evoluzione di quella tecnica – l’immagine in movimento – che storicamente aveva segnato il suo superamento e la sua liquidazione.
Per Benjamin, l’aura era la dimensione tradizionale dell’esperienza vissuta e irripetibile: questa dialettica verrebbe effettivamente riproposta attraverso il coinvolgimento esperenziale da parte del soggetto che si trova assorbito nell’opera, confermando in ogni istante che fruire del medesimo video sul monitor del dispositivo mobile o sullo schermo del laptop non sarebbe la stessa cosa, ed esprimendo in questa maniera anche la valenza cultuale e quasi liturgica delle opere legate architettonicamente al luogo.  Questa dimensione permette all’immagine di instaurare un “perpetuo distacco”, necessario ad aprire lo spazio alla riflessione e alla comprensione: “Nel nostro passato più remoto […] Si viveva dentro e non fuori dell’immagine”[1].

D’altro canto le opere di Viola, a differenza di quanto affermava Benjamin a proposito del cinema, non possono rivolgersi a quello che il filosofo tedesco definiva “fruitore distratto ma attivo” (annunciando in maniera profetica non solo il tipico spettatore televisivo, ma persino l’attuale il fruitore di materiali online): le immagini dell’artista americano impongono attenzione e pazienza, attesa di una illuminazione della mente o di una comprensione mediata dall’anima.
Queste specificità delle opere di Viola diventano ancor più esemplari se confrontiamo la sua videoarte con la televisione: pur adoperando lo stesso identico medium, ovvero la tecnologia video, la televisione si rivolge essenzialmente a un fruitore distratto e attivo solamente a livello inconscio – e perciò a un fruitore manipolabile, perché non cosciente della sua stessa attività cognitiva e mentale.
In questo senso, la fruizione può essere svolta anche “di sfuggita”, giacché è fruizione che si pone sotto il segno dell’immediatezza irriflessiva; se Benjamin sapeva che questa poteva rappresentare un’opportunità politica – perché agisce sotto il livello della coscienza e a livello “aptico” (tattile e nervoso attraverso gli “choc”) – nella videoarte di Viola si tratta invece di restituire al pensiero l’apertura sull’indeterminato piuttosto che veicolarlo ideologicamente. Si tratta della “consapevolezza distratta”, tipica del nostro approccio quotidiano agli oggetti e ai fatti del mondo, appropriazione indefessa dell’alterità e perciò suo annullamento, riconduzione forzata dell’Altro all’Io come sosterebbe Byung-Chul Han, è perciò soppressione definitiva dell’autentico evento e dell’autentica esperienza. In Viola abbiamo a che fare con un altro livello di consapevolezza, ovvero con l’appercezione: una percezione alla seconda, una percezione della percezione che ci permette di elaborare i traumi della “modernità” (e della postmodernità elettronica e digitale, aggiungeremo noi) invece di subirli passivamente. Fuoriuscire dalla fascinazione irriflessiva, simulacrale e passiva, perché la dialettica delle immagini di Viola pertiene al sentimento moderno della critica o quantomeno della comprensione del nostro stesso immaginario, un tentativo di portare a coscienza il nostro stesso mondo subito quotidianamente in maniera irriflessa: “a differenza della televisione, questi video richiedono e ricompensano la pazienza, l’attenzione e l’atto di rallentare per riflettere o stupirsi, o magari piangere”[2].

Per Viola, la consapevolezza approfondita implica una vera e propria “durata” dell’attenzione: se l’immagine abusata e consumata quasi fosse niente deve esclusivamente adempiere al suo scopo senza pretendere troppo dalla nostra intelligenza – perché in tal caso avremmo bisogno di tempo e dovremmo sospendere il flusso nel quale siamo perpetuamente immersi – le immagini di Viola non si accontentano di un fruitore distratto e sono anacronistiche in un doppio senso, perché sfruttano una temporalità che non coincide con quella a cui siamo abituati, e perché sono sicuramente in attrito rispetto alla società del consumo (di immagini oltre che di merci) in cui viviamo e che si è amplificata notevolmente nella web society. I video allestiti nelle sale di Palazzo Bonaparte esigono un’attenzione alla quale non siamo più abituati: dis-abituare i fruitori, generare l’appercezione come deviazione da ciò a cui sono assuefatti, smarcare le loro attese è d’altronde lo scopo di tutti i grandi artisti da sempre.
Come dicevamo, tutte le sequenze dei video di Viola si svolgono in una temporalità differente rispetto allo scorrimento proprio della nostra dimensione soggettiva: sono rallentate fino all’eccesso, come a voler marcare maggiormente l’evento e il sentimento rappresentati, affinché non sprofondino nella noncuranza dell’osservatore. Si tratta di assistere al sacrificio, alla purificazione, ma anche al dolore: per questo in Observance, opera realizzata all’indomani dell’11 settembre, Viola ci mostra una lenta processione di persone straziate da ciò che vedono e che è fuori campo rispetto all’immagine, ovvero nella posizione stessa che assume lo spettatore.
La lentezza scava a fondo nel cuore dello spettatore, ai cui occhi spesso viene proposta l’espressione e l’esteriorizzazione di un dolore che per sua natura resta non rappresentabile, così come non rappresentabile è l’evento che lo genera. La dialettica di visibilità e invisibilità all’interno di questa serie di opere ci ripropone la dialettica auratica che Benjamin era convinto fosse stata superata dall’introduzione delle tecniche di riproducibilità tecnica: “Il significato dell’arte è in contrasto con il medium che la esprime. […] Con i mezzi del mondo moderno, Bill Viola ci propone un’arte “all’antica”: è un oggetto singolo nell’era della riproduzione e del multiplo, cerca la profondità invece del facile intrattenimento, e si innalza fiera su di noi, trascendente, quando noi vorremmo invece cercare di controllare tutto quello che vediamo”[3].

Bill Viola, Martyrs – “Rinascimento elettronico” @ Palazzo Strozzi (2017)

Da questo punto di vista, le opere di Viola sembrano reintrodurre altri concetti appartenuti all’arte auratica, come quello di “contemplazione” – che per Benjamin è all’opposto della “fruizione distratta ma attiva” propria dell’arte post-auratica: a venire coinvolta è l’anima dello spettatore, che oltretutto viene interpellato fisicamente dall’installazione.
In questo senso, lo spettatore si trova a fare “esperienza” dell’opera e l’aura è la quintessenza dell’esperienza diretta del soggetto nel mondo, presumibilmente smarrita con l’avvento della riproducibilità meccanica di epoca moderna.
Non è un caso che la ricerca di Viola sia spesso rivolta a temi religiosi, a questioni quali la nascita, la morte o la redenzione – pensiamo al ciclo Martyrs. L’attenzione alla “sacralità” delle sue immagini rafforza la convinzione di essere dinanzi a un effettivo “ritorno all’antica”.
L’opera video di Viola sembra, così, in grado di reintrodurre nella nostra cultura anche questa sacralità, recuperata per mezzo della creazione di una dimensione di estraneità dal mondo e di una temporalità antitetica a quella che caratterizza la nostra quotidianità. Uno degli ultimi rifugi per l’uomo postmoderno, ultima area sacra concessa alla sua vita in un mondo de-aurizzato: «Le installazioni-video di Bill Viola sono concepite come messa in scena di un’azione il cui soggetto è lo spettatore, virtualmente incorporato nell’opera, nel senso che l’opera è “situata” in modo da includerlo. Egli non è semplice osservatore, perché se si limitasse a “guardare”, rischierebbe di non vedere nulla, perché l’opera non è uno spazio contenitore di cose, ma uno spazio fatto di percorsi percettivi, di ritmi e movimenti: è necessario balzarvi dentro e adottare il suo respiro»[4].

Un altro punto essenziale che ci permette di parlare di tradizionalismo in Viola è l’attenzione che l’artista rivolge all’iconografia dell’arte classica e tradizionale. Viola resta sempre cosciente del debito che ha con la storia dell’arte e non pretende mai di fare tabula rasa nei confronti della tradizione: la videoarte viene interpretata in continuità rispetto al corso della storia dell’arte, proseguendo l’operazione di rinascita e riproposizione di temi, contenuti e forme.
Non si tratta, come si può ingenuamente credere, della rappresentazione di quadri che prendono vita, ma di un’opera nuova e di immagini completamente nuove, ispirate sì alla tradizione iconografica del passato ma che possiedono una specificità assolutamente propria, a cui bisogna relazionarsi con strumenti di comprensione differenti rispetto al passato. Viola ci ricorda che non dobbiamo mai commettere l’errore di intendere la tecnologia video e la tecnologia digitale come un ampliamento delle opportunità espressive che sopperisce alle presunte mancanze delle modalità espressive del passato, proprio perché è lo stesso Viola a ricordarci incessantemente che l’arte da sempre gode e può sussistere solo a partire dai suoi stessi limiti. Come afferma Giorgio Agamben: “Quando, alla fine, il tema iconografico è stato ricomposto e le immagini sembrano arrestarsi, esse si sono in realtà caricate di tempo fin quasi a scoppiare e proprio questa saturazione cairologica imprime loro una sorta di tremito, che costituisce la loro aura particolare”[5].

Bill Viola, The Greeting (1995)

In The Greeting per esempio, Viola prende ispirazione da La visitazione di Pontormo; l’incontro di tre donne viene sviluppato temporalmente, dilatando un evento della durata di qualche secondo in ben dieci minuti; in questo lentissimo e quasi impercettibile movimento condensato di temporalità, un evento banale e quotidiano aspira ad acquisire significato e valore nuovi, dal momento che nessuno di noi si è mai soffermato sui dettagli in quanto abituato a fruire l’evento dell’incontro alla velocità solita con cui viviamo le relazioni interpersonali e le esperienze di tutti i giorni.
Nelle videoinstallazioni di Bill Viola, siamo al cospetto di eventi che impongono la presenza vigile dello spettatore a se stesso; in quest’ottica, al contrario di quanto sostenuto in precedenza, l’appercezione che le immagini di Viola determinano potrebbe venire compresa come l’esatto opposto della fruizione contemplativa di quell’arte classica da cui comunque prende ispirazione. Quando il fruitore prende posizione all’interno della serie di pannelli e monitor che formano l’opera, ha coscienza di sé, sa che è dinanzi a lui che si sviluppa l’opera: il video richiede allo spettatore un lasso di tempo consistente per fruire l’esperienza per intero, i minuti passano lentamente, bisogna pazientemente osservare l’intera opera adeguandosi al suo di tempo, una temporalità a cui non è più abituato, che riguarda bergsonianamente la sua interiorità e la sua coscienza. Attraverso la durata delle opere di Viola noi siamo chiamati ad assistere a un evento nel quale facciamo esperienza di noi stessi, del nostro corpo e dello spazio occupato da esso. Il fatto che, seppur impercettibilmente, l’immagine si muova, provocherebbe perciò la dipartita dell’aura, la rottura della dimensione contemplativa: siamo da subito chiamati in causa poiché quel movimento è in realtà generato dalle nostre facoltà interiori, dalla nostra memoria ritentiva che pone un’immagine dietro l’altra e dalla nostra intelligenza e riflessione che devono comprendere che cosa stia accadendo nei minuti, o persino nelle ore, in cui l’opera si svolge. Recuperare l’auraticità del passato per attivare quel processo attivo di riflessione tipico della dimensione post-auratica: in questo paradosso continua ad esprimersi l’efficacia dell’immaginario artistico di Bill Viola.


[1] B. Viola, La Storia, dieci anni (di video) e l’epoca dei sogni, in B. Viola, Bill Viola. Vedere con la mente e con il cuore, Gangemi, Roma 2000, p. 47.

[2] C. Freeland, Penetrando nei nostri anfratti più reconditi e inaccessibili, in L’arte di Bill Viola, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 45.

[3] C. Townsend, Sarà all’antica, ma…, in L’arte di Bill Viola, cit., p. 23.

[4] V. Valentini, La speranza nella “via negativa”, in Bill Viola. Vedere con la mente e con il cuore, Gangemi, Roma 200, p. 7.

[5] G. Agamben, Nymphae, in “Aut Aut”, nn. 321-322, 2004, p. 54.


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