Tutto fa suono: John Cage secondo Roberto Masotti

Da Keith Jarrett a Franco Battiato, da Ornette Coleman a Miles Davis. Roberto Masotti è uno dei fotografi che meglio hanno saputo raccontare la musica attraverso l’immagine, contribuendo in molti casi all’iconicità di una performance, di un album o di un ritratto.
Nel suo ultimo lavoro,
John Cage, in a landscape (Seipersei, 2022), Masotti attraversa il lungo e fortunato sodalizio artistico con il compositore statunitense.
Abbiamo raggiunto l’autore per rivolgergli alcune domande su questo lavoro e sul suo rapporto con Cage.

Perché hai scelto di fotografare John Cage e come lo hai conosciuto?

Il mio primo ricordo di Cage risale al 1958, quando lo vidi da ragazzino in televisione a Lascia o raddoppia? Rimasi colpito e affascinato dalle dimostrazioni sonore che il compositore fece in trasmissione: lì avvenne il primo “incontro” con il suo mondo, anche se non saprei dire esattamente che cosa significò per me quell’evento. So però che mi segnò. Poi, quando negli anni Settanta collaboravo con la rivista Gong e si voleva pubblicare qualcosa su Cage, venni a sapere che Carlo Bertocci aveva la registrazione audio della serata finale di Cage a Lascia o raddoppia? Carlo la trascrisse ed è la conversazione che oggi conosciamo tutti e che è stata pubblicata per la prima volta appunto su Gong.
Ho fotografato Cage per la prima volta nel 1977 in occasione del famoso quanto controverso concerto al Teatro Lirico di Milano (oggi Teatro Lirico Giorgio Gaber). Gianni Sassi della Cramps Records, per la quale io all’epoca lavoravo, organizzò insieme a Canale 96 la lettura Empty Words con Cage, che incideva per l’etichetta. Lì lo incontrai per la prima volta – c’era anche Silvia Lelli – e in quell’occasione ci furono le prove a cui assistevano Demetrio Stratos e Patrizio Fariselli degli Area e altri come Walter Marchetti e Juan Hidalgo del gruppo Zaj e artisti del movimento Fluxus. Naturalmente sapevo dell’importanza di Cage e non appena lo incontravi venivi inondato dall’aura che emanava spontaneamente. Questo è stato il primo approccio al personaggio e il libro parte proprio da qui. L’anno seguente, nel 1978, a seguito della presentazione del concerto, meglio progetto forse (quale? Alla ricerca del silenzio perduto? Si quello,) all’Out Off in Viale Monte Santo, dove si tenevano mostre e perfomance, ci fu l’avventura del treno “preparato” di Cage, che andò da Bologna fino a Porretta Terme, poi a Ravenna e infine a Rimini.

Che cosa ti colpì di Cage, sia dal punto di vista musicale che visivo?

Forse più che dal punto di vista musicale bisognerebbe dire sonoro o performativo, perché in effetti si era posti di fronte a una concezione molto particolare. Dal punto di vista sonoro mi colpì soprattutto il suo essere un rivoluzionario, magari un tranquillo rivoluzionario che però ha cambiato le regole del gioco, non a caso anche Franco Donatoni tra gli altri sosteneva che ci fosse un prima e un dopo Cage.
Al Teatro Lirico si trattava di una lettura secondo le modalità di trascrizione e di elaborazione di Cage attraverso suoni gutturali e tecniche di interpretazione del testo, che suscitò la reazione del pubblico. Dopo otto minuti infatti la gente incominciò a dare in escandescenze perché la maggioranza degli spettatori si aspettava di ascoltare un concerto rock o comunque qualcosa del genere organizzato dalla Cramps Records, come d’altra parte era stato pubblicizzato. Anche perché le cose di Cage già pubblicate dall’etichetta di Sassi nella collana “Nova Musicha” erano più corrispondenti ai suoi pezzi manifesto come per esempio 4’33’’. L’equivoco poteva essere alimentato dalla somiglianza del nome di John Cage con quello di John Cale dei Velvet Underground.
Cage era un personaggio, dal punto di vista visivo mi colpì quell’aura molto particolare che hanno i grandi che hanno cambiato le cose col loro passaggio. Era molto consapevole ma allo stesso tempo anche molto naturale, disponibile, professionale.

©RobertoMasotti, 1979, Lelli e Masotti Archivio, New York, “John Cage plays chess game with Grete Sultan”

Ci puoi raccontare la tua esperienza al Teatro Lirico?

Il suo modo di resistere all’attacco del pubblico al Teatro Lirico, che aveva invaso progressivamente tutto il palcoscenico, è indicativo al riguardo. Alla fine fu lui ad averla vinta su tutte le ingiurie e i soprusi, arrivando indenne dopo due ore e mezzo alla fine della lettura. Anche se poi ammise di aver avuto paura in quell’occasione, soprattutto quando alcuni spettatori gli tolsero gli occhiali e spensero la luce. A proposito di questo episodio iniziarono a circolare anche alcune leggende, come per esempio quella di un gavettone, smentita peraltro dalle fotografie scattate sia da me sia da Silvia dalla balconata, che documentano il trionfo finale di Cage su un pavimento asciutto. Vero è invece che alcuni spettatori avevano lanciato sul palco rotoli di carta igienica che poi sono rimasti sul pavimento e che sono state divelte e danneggiate delle poltrone, tanto che gli organizzatori hanno dovuto risarcire il teatro. E tutto questo perché parte del pubblico si era trovata davanti a una performance diversa da ciò che si aspettava, protestando senza nessun rispetto per Cage. Qualche anno dopo, a Bonn a un festival interamente a lui dedicato, ci fu una lettura di Empty Words che durò sei ore e il tutto si svolse in modo tranquillo. Il punto non era quindi Cage che provocava il pubblico con la sua performance, ma il modo in cui Cage era stato proposto, pubblicizzato e accolto.

Com’è stata invece l’avventura del treno?

Fu un avvenimento condiviso, con una grande partecipazione di pubblico. Un evento ricco, costruito e suddiviso in tre giorni, per il quale erano già state effettuate alcune registrazioni e che prevedeva sia materiali musicali preparati prima sia performances musicali che avvenivano sul treno: in uno dei vagoni c’era un pianoforte, suonavano strumentisti del Teatro Comunale di Bologna, c’erano interventi solistici come quelli di Demetrio Stratos, personalità come Marcello Panni, Ornella Volta, Aldo Clementi, artisti visivi come Luigi Ontani a testimoniare la trasversalità di Cage. Il progetto del treno nacque dalla collaborazione con Tito Gotti, direttore delle Feste musicali di Bologna, e fu per me e per Silvia un grande occasione per fare delle foto. Furono tre giorni molto intensi ma anche molto divertenti, che videro la partecipazione molto sentita anche da parte di coloro che non stavano sul treno bensì nelle stazioni, dove s’incontravano bande, cori e danze ad aspettare e a salutare il treno. Insomma, un’estensione e una configurazione diversa di un musicircus, di un happening, da sempre una delle sue espressioni preferite.

©RobertoMasotti, 1978, Lelli e Masotti Archivio, Il treno di John Cage

Hai seguito Cage per quasi vent’anni e alcuni eventi che hai immortalato sono diventati iconici, come il treno o la performance al Teatro Lirico. Come è stato aver preso parte a un’esperienza storica e ad averla condivisa?

Questo lo capisci e lo valuti dopo. Anche quando partecipavo con Cage, Tito Gotti, Gianni Sassi, Juan Hidalgo e Walter Marchetti alle riunioni operative per la definizione dei progetti, non mi sarei aspettato di vivere un’esperienza che poi sarebbe diventata storica anche perché lì per lì la vedi come una cosa normale perché sei della partita. Io passai dalla riunione in cui si progettavano e si definivano tutta una seria di aspetti alla performance vera e propria e solo a posteriori ci si rende conto dell’importanza di ciò che si è vissuto non soltanto come fotografo ma anche come spettatore. In quella occasione ho avuto la possibilità di vivere un’esperienza piena e totalizzante, stando con Cage in momenti anche diversi dalla performance, come per esempio nelle soste o al ristorante, e io cercavo di esserci sempre per documentare quello che avveniva intorno all’evento e al personaggio e faceva parte della vita vera.

Ci fu anche il progetto di Monte Stella di Ivrea…

Sì, sempre nel 1978 ci fu il sopralluogo per il progetto di sonorizzazione del bosco di Monte Stella di Ivrea, che poi non si è mai realizzato. Un progetto di installazione e di evento ideato con l’ingegnere del suono John Fullemann che avrebbe dovuto sfruttare le caratteristiche sonore di questa collina sopra Ivrea, dove la dimensione naturale del bosco nei pressi del santuario si mescola con il sottofondo del traffico cittadino sottostante. Come si sa, Cage è sempre stato attratto dalle particolarità sonore delle situazioni al di là di qualsiasi distinzione tra suono e rumore e in questo caso fu colpito dall’unicità del luogo e dalla compresenza di due realtà così diverse. Il progetto prevedeva l’applicazione di microfoni, cuffie, altoparlanti e altri dispositivi alle piante per far sì che i bambini potessero ascoltare la vegetazione. Per varie ragioni purtroppo poi il progetto non si realizzò. Come sempre, per Cage, non si trattava di un format da poter adattare ad altri contesti, ma di un progetto unico e irripetibile nato e pensato per un determinato luogo.

©RobertoMasotti, 1978, Lelli e Masotti Archivio, Monte Stella d’Ivrea, Ivrea

Considerato il lungo rapporto di Cage con Cunningham e l’interesse di tua moglie Silvia Lelli per la danza e per il teatro, viene da chiedersi se anche lei abbia avuto modo di fotografarlo…

Sì certo, Silvia ha fotografato Cage al Teatro Lirico e anche sul treno. Soprattutto però lei si è dedicata a Cunningham, infatti gli ha fatto dei ritratti, ha seguito degli spettacoli della sua compagnia, anche e avrebbe voluto fotografarlo di più come le è successo ad esempio con Pina Bausch. Nel 1979 siamo stati anche insieme a casa di Cage a New York e lì, oltre a fotografarlo, siamo riusciti a conoscere meglio sia lui che Cunningham in un rapporto molto diretto e poco formale. Restammo un mese a New York e l’agenzia che curava la sua comunicazione mi commissionò un ritratto ufficiale, che poi è quello sulla copertina del libro. Quando la compagnia di Cunningham venne a Milano nel 1980 organizzammo un party a casa nostra e visto che Cage seguiva una rigorosa dieta macrobiotica Silvia s’inventò uno strudel che ebbe un successo strepitoso tant’è che Cage e Cunningham vollero conoscere la ricetta. Così Silvia la scrisse e gliela fece avere.

Come è stato lavorare con Cage?

Cage era sempre molto entusiasta e disponibile, era piacevolmente coinvolto in ciò che proponevo. Infatti nel 1982 gli chiesi di realizzare una foto per farne un multiplo. Eravamo a Venezia quando accettò. Visto che Cage in quel periodo stava lavorando molto sui testi di Joyce a modo suo e che Joyce aveva dichiarato più volte che la sua fotografia preferita era quella che lo ritraeva di spalle, gli feci la fotografia a figura intera presa di spalle davanti all’Hotel La Calcina alle Zattere, di fronte alla Giudecca. Nel 1984, quando Cage venne a Torino in occasione della mostra fotografica a lui dedicata, gli portai venticinque esemplari di quello scatto che firmammo e numerammo insieme. Fu una foto fortunata, che ha avuto una sua vita, tant’è che ad esempio Daniel Charles l’ha poi voluta come copertina della Revue d’esthétique ed è finita sulla copertina di un disco di Herbert Henck ECM (John Cage, Early Music). E naturalmente è una foto alla quale sono particolarmente affezionato perché è stato il frutto di un lavoro prima accolto e poi condiviso. Alla mostra Photographs Cage del 1984 a Torino avevo preparato un centinaio di fotografie che lo ritraevano: Cage le approvò tutte e venne alla galleria all’allestimento e alla inaugurazione e fu molto partecipe. Abbiamo collaborato per vent’anni però purtroppo l’ho conosciuto tardi e ho vissuto solo la parte finale dell’attività di Cage, mi sarebbe piaciuto poter condividere tanti altri momenti con lui…

Roberto Masotti, John Cage in a landscape (Seipersei, 112 pag., 40 €, 2022)

Guardando il libro su Cage una delle prime cose che colpiscono è la predominanza del ritratto. A che cosa è dovuta questa scelta?

Molti fotografi si dedicano esclusivamente al ritratto, specializzandosi per così dire in questo tipo di attività, ma io penso che il ritratto sia solamente una delle possibilità che si hanno per approfondire un determinato personaggio e relazionarsi con lui. A ogni proposta artistica, infatti, non vi è una riposta standard, ma ogni volta diversa perché si cerca di trovare la soluzione adatta a ciascuna situazione e occorre una buona dose di improvvisazione. In questo caso la prevalenza del ritratto si spiega con il fatto che Cage era e rimane una figura carismatica, che già con la sua sola presenza riempiva lo spazio, e inoltre assicurava quella certa collaborazione e confidenza necessarie per riuscire a cogliere la personalità di un artista. Perché il ritratto non è soltanto un viso o un corpo, ma è lasciar agire il soggetto nel mirino e fissarlo in un’immagine e il risultato sarà quindi qualcosa di inatteso e di imprevedibile, proprio come era Cage.

Quali sono i tuoi prossimi lavori?

Dopo i libri su Jarrett e Cage, quest’anno uscirà un volume dedicato a Franco Battiato. Poi l’idea è di lavorare con Silvia di nuovo su Demetrio Stratos. C’è anche il progetto di un libro di ritratti di artisti variegati come Karl-Heinz Stockhausen, Morton Feldman, Arvo Pärt, Steve Lacy, Jan Garbarek e Patti Smith tra gli altri. Personaggi con i quali ho condiviso tratti particolari e importanti della loro esperienza artistica.

In copertina: Ritratto di Roberto Masotti scattato da Silvia Lelli



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