Sono tempi difficili per la ricerca scientifica e i suoi risultati, che non godono né di buona fama né di buona salute. Secondo il Censis, Rapporto annuale 2021, “per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile, per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano ‘fanno da cavie’, per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. […] per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone”.
Cosa ci dicono dati così allarmanti? Che, forse, stiamo vivendo un “secondo disincantamento”. Non più però nei confronti della religione, ma della scienza, ossia del sapere sul quale la modernità ha investito le sue migliori energie e che da qualche secolo costituisce la nostra fonte di conoscenza più affidabile. La scienza ha ovviamente i suoi limiti, tuttavia, è stata la ricerca di risultati basati sul metodo scientifico a permetterci di decifrare il genoma, di dividere l’atomo, di ricostruire l’evoluzione della vita e di comprendere la storia stessa dell’umanità. E senza la tecnica, la figlia più o meno legittima della scienza, Homo sapiens, oggi, non sopravvivrebbe una settimana.
Per questo la crescita costante di controversie su fatti e tematiche intorno ai quali l’evidenza di natura scientifica non può essere messa in discussione, come nel caso tuttora attuale relativo all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini, non può non allarmare. Quando nel discorso pubblico il dibattito perde dei punti di riferimento condivisi e il confronto tra posizioni si trasforma in un vero e proprio scontro in cui tutte le tesi si equivalgono dal momento che, come sosteneva l’epistemologo austriaco Paul Feyerabend, “anything goes” (“qualsiasi cosa può andar bene”), allora le conseguenze possono essere molto gravi. Perché? Perché l’equiparazione tra ciò che è scientifico e ciò che manifestamente non lo è, per cui, al limite, l’astronomia equivale all’astrologia, la chimica all’alchimia, la psicologia allo spiritismo, ostacola l’accesso a quel patrimonio comune di conoscenze rispetto a una realtà esterna a noi indisponibile che rappresenta la più elementare condizione politica per la presenza dell’uomo nel mondo.
I risultati ai quali pervengono le teorie scientifiche – per quanto confutabili e falsificabili, come ammoniva Popper – rendono possibile la discussione politica proprio perché condividono con l’esperienza ordinaria il fatto che in entrambi i casi esiste un limite invalicabile alla discussione, quello costituito da corroborazioni che non è possibile sconfessare né respingere. Rivendicare un diritto all’opinione non equivale a rivendicare un diritto a disconoscere o a screditare questi dati di fatto, perché ciò impedirebbe di stabilire qualcosa di così solido e durevole come un mondo comune e farebbe venir meno la sfera pubblica come modo specificamente umano di rispondere, ribattere e reagire a tutto ciò che accade o si fa.
Senza conoscenze empiricamente fondate, per quanto provvisorie, incomplete e parziali possano essere, viene meno la possibilità che le persone possano esprimere la loro legittima diversità di opinione e di interpretazione. Trasformare fatti scientificamente corroborati o controllabili in semplici questioni di opinione conferisce ai giudizi di valore lo stesso peso che diamo all’oggettività scientifica, e ciò equivale a togliere il terreno sotto i piedi a ogni discussione razionale. Per cui, per esempio, l’astrologia diventa una forma di sapere non solo equivalente all’astronomia, ma persino più “democratica”, perché aperta anche alle persone prive di ogni competenza scientifica. E infatti, alcuni filosofi, come Rorty e Vattimo, hanno affermato che la verità è incompatibile con la democrazia, facendo capire che per salvare la democrazia occorre sacrificare la verità.
Ma rinunciare alle fondatezza delle teorie scientifiche e farne oggetto di opinione e di valutazione in puri termini di consenso non solo non serve a salvare la democrazia, ma contribuisce a gettare gli sprovveduti nelle braccia di santoni, maghi e guaritori, e la storia del nostro Paese, anche se non solo del nostro, pullula di personaggi che hanno acquisito fama, notorietà e prestigio per avere denunciato la scienza come una forza oppressiva e trasformato l’ignoranza in una forza liberatoria. Per questo è più che mai necessario disporre di istituzioni “amiche della ricerca scientifica e dei suoi risultati” e in grado di fornire le regole e le misure per salvaguardare un bene che rischia di diventare sempre più scarso.
Le acquisizioni scientifiche contribuiscono a determinare il contesto nel quale gli uomini possono parlare e attribuire reciprocamente un senso alle loro parole, proprio perché provvedono a fornire qualcosa di stabile a cui fare riferimento e a definire un confine rispetto a ciò che possono cercare di trasformare. Ogni tentativo di violare queste condizioni equivale a sgretolare i presupposti del mondo comune, la base solida e durevole che rende possibile formulare giudizi ed esprimere liberamente le opinioni politiche. È solo quando si opera in un mondo comune dove le cose stanno “in un certo modo” e non in un modo “qualsiasi” che risulta possibile smontare il falso. Se invece si costruisce un mondo in cui la realtà non ha più importanza, qualunque bufala diventa una “verità alternativa” perché ciò che conta è solo l’effetto dell’affermazione. Un effetto che abbiamo tutti però sotto gli occhi, e che consiste nel diffondersi di quel linguaggio sempre più degradato e manipolatorio che intossica il dibattito pubblico.