Nietzsche “ellittico”: tra filosofia politica e sociologia della conoscenza

Agli occhi di chi osserva la vicenda della cultura contemporanea, l’opera e il pensiero di Friedrich Nietzsche appaiono solitamente come uno spartiacque fondamentale, sia per i contenuti provocatori che per lo stile comunicativo e il registro teorico adottato. Il filosofo tedesco con la sua riflessione spiazzante ha segnato un’epoca, venendo riconosciuto assieme a Karl Marx e Sigmund Freud tra i fondamentali maestri del sospetto che hanno svelato i lati nascosti della civiltà moderna. Se molta della cifra di Nietzsche si può rintracciare più istituzionalmente nell’etica e nei contesti a essa correlati in cui gravitano implicazioni estetiche, gnoseologiche e storiche, non si può tuttavia dimenticare che a partire dall’ambito della morale le sue idee hanno toccato trasversalmente anche i campi della riflessione sociale e politica. E così l’opera di Nietzsche ha destato l’interesse non solo nell’orizzonte della filosofia morale, o della storia della filosofia, cui egli viene naturalmente collocato e studiato abbondantemente, ma anche in prospettive come quelle della filosofia politica e della sociologia della conoscenza, su cui qui intendiamo concentrare alcune essenziali considerazioni.
Chiariamo subito e preliminarmente che Nietzsche non può essere definito in prima istanza o in modo sistematico un filosofo della politica e men che meno un sociologo della conoscenza nello stesso senso in cui lo sono studiosi chiaramente ascrivibili e riconosciuti in tali discipline, pensiamo, a titolo di meri esempi possibili, a Niccolò Machiavelli o Thomas Hobbes per la filosofia politica, o Karl Mannheim o Max Scheler per la sociologia della conoscenza. Nietzsche non produsse studi direttamente incentrati su categorie o problemi di filosofia politica; e quanto alla sociologia della conoscenza, tale disciplina si è esplicitamente determinata solo dopo la sua morte. Malgrado ciò si possono scorgere relazioni tra il pensiero nietzschiano e queste discipline che ha senso osservare. Naturalmente, considerando l’articolazione dell’opera di Nietzsche e questi particolari e delicati contesti epistemologici, rendere pienamente queste relazioni in pochi passaggi non è agevole e di seguito proponiamo più che altro di fissare piccoli punti orientativi.

In linea generale, dobbiamo essere ben consapevoli del fatto che Nietzsche aveva aperto il vaso di Pandora del nichilismo e aveva fatto sperimentare agli uomini la vertigine di chi osserva dalla torre del relativismo. Molto drasticamente, egli riteneva che lo stesso pensiero filosofico o era retorica, cioè inganno, distrazione dell’uomo dai suoi veri interessi, o ipocrisia, deviazione, evasione dai motivi e dai fini dell’azione umana, o propaganda, cioè invenzione ingannevole di pseudo valori, o repressione dei bisogni più autentici e degli istinti: in tal senso, va rimarcato che nell’ottica ampia della storia del pensiero politico e delle dottrine politiche, la prospettiva nietzschiana nel suo estremismo non poté mai avere alcuna conseguenza pratica, operando essenzialmente come ideale critico (si vedano Boiardi, F., Nietzsche, in Id., Storia delle dottrine politiche, vol. IV. L’età contemporanea 1871-1945. Da Bismarck a Stalin, CEI, Milano, 1980 e Ferraris, M., Nietzsche dal nichilismo al post-moderno in Andreatta, A.-Baldini, A. E.-Dolcini, C.-Pasquino, G. (a cura di), Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, Vol. III, tomo 2, UTET, Torino, 1999). La sua critica si volgeva, in egual misura, contro il concetto contemplativo di conoscenza e contro il concetto di verità come corrispondenza: si può emblematicamente ritenere che, per Nietzsche, esisteva sempre un nesso tra conoscenza e interesse, per cui era inconcepibile una teoria pura sganciata da tutte le situazioni di vita pratica (si veda Habermas, J., Sulla teoria della conoscenza di Nietzsche, in Id., Cultura e critica, Einaudi, Torino, 1980).
Il filosofo tedesco voleva smontare ogni finzione, voleva liberare l’uomo dal suo latente desiderio di sottomissione, voleva affermare che Verità, Dio, Scienza, Politica non sempre erano al di sopra dell’Umano, ammonendo esplicitamente che “soltanto noi abbiamo creato il mondo che in qualche misura interessa gli uomini! Ma appunto questa consapevolezza ci fa difetto” (Nietzsche, F., La gaia scienza e idilli di Messina, Adelphi, Milano, 2005, aforisma 301, p. 218); oppure che “la forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita” (ivi, aforisma 110, p. 150).
Si tratta di considerazioni che, cogliendo il sistematico condizionamento sociale (e storico) di ogni pensiero, appaiono assolutamente in linea con l’impostazione successiva della sociologia della  conoscenza sia nella fase aurorale di questa disciplina (che ebbe ispirazione oltre che dal filone nietzschiano, anche da quello marxista e dallo storicismo: si veda Crespi, F.-Fornero, F., Antecedenti della sociologia della conoscenza, in Idd., Introduzione alla sociologia della conoscenza, Donzelli, Roma, 1998) sia nella sua fase più matura riconducibile, negli anni Sessanta del Novecento, a  Peter Berger e Thomas Luckmann (si veda Berger, P.-Luckmann, T., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1998), quando essi assumono che la realtà e la conoscenza in generale siano una costruzione sociale, ossia il prodotto di una interazione tra individui o gruppi che progressivamente, al fine di organizzare se stessi, lenire l’insicurezza ontologica e rendersi socialmente riconoscibili e individuabili, assumono abitudini di comportamento (“abitualizzazione”), rendono queste abitudini tipiche (“tipizzazione”), reiterate a lungo nel tempo (“sedimentazione”) e, quindi, riconosciute legittimamente (“legittimazione”).

A partire dal pensiero nietzschiano, si viene quindi delineando quell’arte della diffidenza che troverà sviluppi notevoli nel corso del XX secolo. Qui infatti risiede la convinzione per cui la capacità cognitiva rimanga in tutte le sue forme una espressione del concetto nietzschiano di volontà di potenza. Nietzsche, infatti, mette in primo piano nel processo gnoseologico il soggetto e, conseguentemente, quando egli parla del conoscere, non si riferisce mai alla comprensione di qualcosa che è posto di fronte e che può esistere indipendentemente da noi, piuttosto avverte che tutto ciò di cui acquistiamo coscienza è assolutamente costruito, semplificato, schematizzato, interpretato; il pensare così come lo pongono i teorici della conoscenza non si presenta affatto, trattandosi di una finzione arbitraria, ottenuta con l’isolare un elemento dal processo e sottrarre tutti gli altri,  e di una costruzione artificiale per farsi capire. Allora la metafisica, la morale, la religione, la scienza appaiono le diverse forme di menzogna col cui sussidio si crede nella vita (si vedanoNietzsche, F., La volontà di potenza, in Id., L’Anticristo- Crepuscolo degli idoli-Ecco homo- La volontà di potenza, Newton e Compton, Roma, 1993, aforisma 113, p. 365 e aforisma 415, specialmente pp. 469-470 e Id., La gaia scienza e idilli di Messina, cit., specialmente aforisma 110, pp.150-152 e aforismi 354-355, pp. 270-275).

Siamo all’interno di un pessimismo antropologico di fondo: la verità, infatti, o meglio ciò che gli uomini amano ritenere tale, non è che l’insieme delle convinzioni e delle credenze comunemente accettate, che sono necessarie per diminuire la conflittualità sociale e per evitare che si determinino gli hobbesiani bellum omnium contra omnes e homo homini lupus. Di qui il legame che il filosofo tedesco intravede tra la nascita dello stato moderno e questa particolare concezione della verità legata a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine. Questo tema della volontà di potenza assume sicuramente una valenza assai specifica quando si deve dimostrare il condizionamento di teorie e di sistemi e ordinamenti politici, pur apparendo insoddisfacente nel momento in cui si cerca di capire il contenuto intrinseco dei sistemi di filosofia del diritto, dello stato e della società. Ma, nell’ottica della filosofia politica, come osservava Roberto Escobar, il pensiero nietzschiano giunge alla dimensione politico-giuridica spinto dall’analisi morale e produce alcune costanti riconducibili ad alcuni centri di interesse fondamentali per tale disciplina come l’intersoggettività e i rapporti di  potenza come criteri fondamentali dei rapporti politici, una critica serrata di ogni pretesa di fondare il diritto di punire in qualche ordinamento oggettivo, il rifiuto di qualsiasi assolutizzazione dello stato, l’indicazione di un nuovo modello di giustizia (si veda Escobar, R., Nietzsche e la filosofia politica del XIX secolo, Il formichiere, Bologna, 1978). Sulla base di tali costanti, non si ritrova quindi nel suo pensiero alcun modello di stato, quanto piuttosto la consapevolezza sia del problema della decadenza dello stato nell’età contemporanea, sia di quello del conformismo nell’opinione pubblica (si veda ad esempio Nietzsche, F., Crepuscolo degli idoli, in Id., L’Anticristo- Crepuscolo degli idoli-Ecco homo- La volontà di potenza, cit., aforismi 38 e 39, pp. 180-181). Entrambi questi temi sono molto considerati nel dibattito politico successivo e attuale, pure attento alla diffidenza nietzschiana per i processi democratici che portava il filosofo tedesco a vedere in essi un decadimento della forza organizzatrice e anzi un contesto favorevole all’allevamento di tiranni (si veda Nietzsche, F., Popoli e patrie, in Id., Al di là del bene e del male, Fabbri Editori, Milano, 2003, specialmente aforisma 242, p. 210).

Si può ancora aggiungere che il concetto in cui forse maggiormente si incontrano sia la filosofia politica che la sociologia della conoscenza, e che nel pensiero di Nietzsche si ritrova, è quello delle ideologie, considerate attraverso significative riflessioni connesse con le dimensioni dell’irrazionalità e dell’individuo (si può suggerire su questo aspetto Warren, M., Nietzsche’s concept of ideology, in “Theory and Society”, vol. 13 n. 4, 1984).
Le ideologie si rivolgono sempre al bisogno autoriflessivo che l’individuo nutre verso il “sentimento di potenza”. Questo sentimento di potenza non è basato sull’azione, non è intenzionale, ma guidato da forze sociali e politiche superiori. Le ideologie in Nietzsche sono intrinsecamente connesse con l’esperienza sociale e assolvono una funzione psicologica in situazioni di illiberalità, ossia dove l’individuo non può costituirsi come agente.

Attorno ai fuochi teorici della filosofia politica e della sociologia della conoscenza dunque è individuabile una sorta di Nietzsche “ellittico”, che può risultare influente sul senso di quelle prospettive delle scienze sociali e politiche contemporanee che hanno assunto orizzonti più critici e lontani da logiche sistemiche o formali. Evidentemente, si deve comprendere che questo aspetto esula in linea di massima da quelle posizioni di filosofia politica analitica o da quelle che hanno condotto la sociologia della conoscenza a una più neutra sociologia dei processi culturali, che sono più in linea col modello neoliberale che caratterizza il mondo attuale. E non si deve mai dimenticare che, considerando l’enorme magma teorico prodotto da Nietzsche, è necessario sempre muoversi molto cautamente su tali punti per non cadere in strumentalizzazioni inopportune o scottanti. Nondimeno nell’intreccio dialettico del pensiero filosofico politico e sociologico contemporaneo, il momento nietzschiano resta una esperienza limite, che, forse, esplicita tutta la potenziale ambivalenza della modernità ben oltre la sfera morale e estetica.


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