L’ironia al servizio della critica: De Sanctis e Schopenhauer

Nel 1858 Francesco De Sanctis scrisse per il giornale torinese “Rivista Contemporanea”, un dialogo filosofico intitolato Schopenhauer e Leopardi, che qui andremo a discutere. È utile dedicare un po’ di attenzione a questo testo dal momento che rappresenta una delle poche prove nel campo della filosofia che De Sanctis abbia mai tentato, oltre che una critica della filosofia di Schopenhauer ad appena 14 anni dall’uscita di Il mondo come volontà e rappresentazione, in un momento in cui il filosofo tedesco era pressoché sconosciuto in Italia.

  1. Critica metafisica

Nel dialogo in questione, il pensiero di Schopenhauer viene riprodotto fedelmente e messo in correlazione al pensiero di Leopardi. L’esposizione del pensiero schopenhaueriano è però intrisa di sottile ironia. L’antipatia che il De Sanctis aveva per la filosofia di Schopenhauer è nota: in una lettera a Camillo De Meis inviata da Zurigo e datata 26 febbraio 1858, accomuna Schopenhauer e Wagner sotto la definizione di “ciarlatani”. Ne biasimava in particolare la mancanza di modestia. Nel dialogo, il personaggio D., rappresentazione ironica dello stesso De Sanctis, si lancia subito in delle entusiastiche lodi verso Schopenhauer. Trova però in A., un suo vecchio allievo, un interlocutore difficile.

Schopenhauer viene ironicamente presentato da D. come il vero erede di Kant: “Kant avea mostrato che il mondo è un fenomeno del cervello, ma che sotto al fenomeno ci è pure una cosa in sé, fuori della conoscenza. Qui fu il suo torto; se avesse battezzato questa cosa in sé, avrebbe posta l’ultima pietra al tempio della filosofia”. La cosa in sé, per Schopenhauer, è il Wille, la volontà: essa è l’essenza della realtà che sta dietro tutte le apparenze. De Sanctis pensava invece che la cosa in sé, proprio perché al di là della nostra esperienza, non potesse essere identificata con la volontà, elemento della nostra vita quotidiana. Fa dunque presentare a D. la tesi del filosofo tedesco in modo molto sarcastico:

“La scoperta di Schopenhauer è più importante ancora che la scoperta dell’America, perchè, come dice con giusto orgoglio l’inventore, è la verità delle verità, l’ultima scoperta, la sola cosa che restava a fare in filosofia. Eppure, da tanto tempo s’era intravveduta questa verità. I Cinesi e gl’Indiani l’avevano alzata a principio religioso; il cristianesimo non ha voluto intendere che questo con la sua storia del peccato originale; la troviamo in bocca al popolo, quando dice che il tempo non vuol piovere, attribuendo in tutte le lingue la volontà non solo agli uomini, ma alle universe cose: il che dice non per figura poetica, ma per un sentimento confuso del vero.”

Proseguendo la conversazione, la filosofia di Schopenhauer viene approfondita, sempre in chiave anti-metafisica ed anti-idealistica. Andando avanti, però, le contraddizioni interne al pensiero schopenhaueriano diventano evidenti e vengono presentate dal critico in modo alquanto ridicolo:

“D. Una pietra che cade in virtú della legge di gravità è un miracolo così grosso, come che l’uomo pensi. Tutti questi miracoli li fa il Wille perchè vuole così.

A. – Cioè a dire, che se la pietra cade, gli è che vuol cadere?

D. – Certamente.

A. – E s’io ti gittassi dalla finestra, vorresti andar giú a fracassarti il cranio?”.

Qui il critico italiano evidenzia, sempre attraverso l’ironia, due aspetti rilevanti, che vale la pena approfondire. In primo luogo, ciò che tutti intendiamo per volontà è una caratteristica propria degli esseri animati e non di quelli inanimati. Schopenhauer fa uso di una nozione astratta di volontà, che dovrebbe governare il mondo ma che in realtà nulla ha a che fare col mondo concreto: le persone e gli animali vogliono qualcosa, ma non esiste un volere che precede la loro esistenza e che addirittura stabilisce il comportamento degli oggetti inanimati. In secondo luogo, l’esperienza ci dimostra che il mondo va spesso nella direzione contraria alla nostra volontà. Anche qui, Schopenhauer contrappone una volontà generale, il Wille appunto, alle varie volontà particolari; ma questo concetto di volontà generale non può che derivare dalla nozione di volontà particolare: nessuno nasce con l’idea preformata di volontà; tale idea si forma nel corso del tempo attraverso un processo di generalizzazione, che parte dall’osservazione che gli esseri umani e animali hanno delle loro volontà particolari. Schopenhauer ha dunque invertito la realtà: non è la volontà generale a precedere le volontà particolari, ma le volontà particolari a precedere il concetto generale di volontà.

A. pone ancora delle obiezioni molto pertinenti al pensiero di Schopenhauer, come per esempio:

“Il volere è un desiderio che suppone il bisogno; il bisogno suppone una mancanza; e la mancanza presuppone un’essenza, un essere con certe determinazioni, con una propria natura. Il Wille dunque non può essere un primo, perchè presuppone l’essere”.

È chiaro che il principio della realtà non può avere desideri, in quanto ciò presupporrebbe dei suoi bisogni, che metterebbero sullo stesso piano la cosa in sé e i vari individui particolari. Chi ha delle mancanze non può che essere un essere concreto: l’essere, dunque, viene prima del volere. Ma D. risponde a questa e ad ogni altra obiezione sottolineando un residuo idealistico nel pensare di A., che Schopenhauer si sarebbe lasciato alle spalle con la sua concretezza. Le sue spiegazioni risultano del tutto insufficienti a placare i dubbi di A.

  1. Critica etica

Presto la conversazione si sposta dalla parte ontologica alla parte etica del sistema schopenhaueriano.

“D. – Il dovere, dice Schopenhauer, è un’altra astrazione; nessuno ha il dritto di dire: tu devi; ed uno dei difetti di Kant è l’esser venuto fuori col suo categorico imperativo. Dovere e non dovere suppone una libertà di scelta che contraddice al concetto dell’uomo. Dimmi pure: non devi ammazzare; io ammazzerò, se il mio carattere porta così, e non farò peccato.

A. – E se t’impiccano?

D. – M’impiccano giustamente.

A. – Come? Comincio a dubitare che il tuo cervello se ne vada passeggiando. E perchè m’hanno da impiccare? Dove non ci è colpa, non ci è pena. Di che dovrò rispondere io?

D. – Non della tua azione, ma del tuo carattere. perchè sei fatto così?

A. – Oh bella! e che c’entro io? È il Wille, quel birbone del Wille che m’ha fatto così.

D. – E se t’impiccano, non è te che impiccano, ma il Wille.

A. – Anche questa! il dolore lo sento io.”

L’astrattezza della teoria di Schopenhauer viene fuori in modo particolare dalla discussione sulla sua etica, che presuppone – come dicevamo – una volontà universale dietro le volontà particolari. La negazione del pieno libero arbitrio individuale, nell’interpretazione desanctisiana dell’etica di Schopenhauer, ha conseguenze nefaste sulla concezione della giustizia, la quale non può più essere basata sui comportamenti personali, ma deve essere fondata sulla natura degli esseri umani.

Viene poi derisa la contraddizione tra la dottrina dell’ascesi, ovvero la negazione della volontà di vivere, e la vita dello stesso Schopenhauer:

“D. – Il Wille si afferma e si nega, come libero ed onnipotente. Per mezzo della ragione arriva alla sua negazione. E come l’atto generativo è il centro del Wille quando vuol vivere, hai per prima cosa ad astenerti da’ piaceri carnali, e poi castigare la carne con digiuni, cilizii, astinenze.

A. – Come sant’Antonio nel deserto.

D. – I bramini ed i santi saranno il tuo esemplare; e la ricetta si può ridurre in queste tre celebri parole: castità, povertà, ubbidienza. Così vivere è morire, senza che debba aver ricorso al suicidio, rifugio degli animi deboli.

[…]

A. – M’immagino il povero Schopenhauer come un monaco della Trappa, martire della castità, della povertà, della ubbidienza, dolce come un agnello, e il corpo tutto piaghe per i cilizii.

D. – Schopenhauer mangia divinamente, si prende tutt’i piaceri che gli sono ancora possibili, e grida e schiamazza sempre, tiranneggiato dal Wille.”

La dottrina dell’ascesi, la parte più folcloristica del pensiero di Schopenhauer, non viene dunque contrastata per le sue debolezze teoriche, come l’impossibilità di estinguere il desiderio per un essere umano sano; la sua critica viene giudicata più efficace sul piano retorico, mettendo in risalto l’incoerenza del filosofo, che avrebbe potuto dare dignità alla sua teoria soltanto mettendola in pratica.

Il pessimismo di Schopenhauer viene infine paragonato a quello di Leopardi. Ma Leopardi viene giudicato superiore, perché “produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtú, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. In uno dei passi finali del dialogo, finalmente De Sanctis esce allo scoperto; e nel confronto tra Leopardi e Schopenhauer, rivela il suo vero pensiero:

“[Leopardi ] Pessimista od anticosmico, come Schopenhauer, non predica l’assurda negazione del Wille, l’innaturale astensione e mortificazione del cenobita: filosofia dell’ozio che avrebbe ridotta l’Europa all’evirata immobilità orientale, se la libertà e l’attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica. […] E se vuoi con un solo esempio misurare l’abisso che divide queste due anime, pensa che per Schopenhauer tra lo schiavo e l’uomo libero corre una differenza piuttosto di nome che di fatto; perchè se l’uomo libero può andare da un luogo in un altro, lo schiavo ha il vantaggio di dormire tranquillo e vivere senza pensiero, avendo il padrone che provvede a’ suoi bisogni; la qual sentenza se avesse letta Leopardi, avrebbe arrossito di essere come Wille della stessa natura di Schopenhauer.”

La serietà di quanto appena riportato viene confermata anche dalla battuta successiva di A.: “Finora abbiamo scherzato. Ora mi fai una faccia tragica”. De Sanctis, profondo sostenitore di ideali come la libertà e il progresso umano, non avrebbe mai potuto accettare una filosofia che avesse come conseguenza il ritiro dalla vita, o meglio, la messinscena della morte in vita. La volontà, non principio astratto, ma concreta ispiratrice dell’azione degli uomini, deve essere utilizzata per raggiungere fini nobili come la virtù e il progresso.

  1. Critica politica

È interessante notare la reazione che Schopenhauer ebbe leggendo il dialogo. Benedetto Croce, nel saggio De Sanctis e Schopenhauer, riporta come il filosofo tedesco, letto il dialogo che aveva avuto grazie a Ernst Otto Lindner, scrisse a quest’ultimo in termini entusiastici, ben lieto che il suo pensiero fosse divulgato in Italia e persuaso che il De Sanctis fosse un convinto sostenitore della sua filosofia. Si tratta di un curioso equivoco, dovuto forse alla sua non perfetta comprensione della lingua italiana. Quanto alle confutazioni ironiche, Schopenhauer le credette semplici espedienti comici: “[De Sanctis] crede tuttavia di dover qua e là, per divertire il suo pubblico, mostrare un ghigno sarcastico”. E quanto invece alle invettive finali, pensò che si dovessero alle divergenti opinioni politiche con il De Sanctis, fiero democratico di centro-sinistra, mentre è noto come Schopenhauer fosse un reazionario.

Il personaggio A., prima di diventare un positivista, era un idealista. E, in questa prima fase del suo percorso intellettuale, si identificava anche come liberale. Si leggano queste sue parole: “Ma un bel dí che mi sfiatavo a dimostrare l’idea, quel brutto ceffo di Campagna, già qui nessuno ci sente, mi fece una contro-dimostrazione. E quando vidi per terra, miserabile vista!, la mia con tante cure coltivata barba, parvemi che insieme coi peli si dileguassero ad una ad una tutte le mie idee. Miracolose forbici che operarono la mia conversione”. Questa “dimostrazione dell’idea” era evidentemente una manifestazione pubblica di stampo liberale. Il commissario Campagna, a cui si fa spesso riferimento nel dialogo, era un birro del regno borbonico, incaricato della repressione della suddetta manifestazione. De Sanctis allude qui al fatto che la polizia napoletana impediva di portare la barba, in quanto veniva vista all’epoca come simbolo di liberalismo. Il riferimento è significativo in quanto lo stesso Schopenhauer disprezzava la barba lunga e lodò – sempre nella lettera a Lindner – quella stessa ordinanza che imponeva di tagliare le barbe. Così, partendo da un particolare curioso come il disprezzo per la barba, De Sanctis lega il conservatorismo tipico del regno borbonico alla filosofia presuntuosamente pragmatista di Schopenhauer, e per converso, congiunge l’idealismo filosofico al liberalismo. Che ciò corrisponda a realtà, è molto difficile affermarlo (abbiamo visto, nel secolo scorso, come l’idealismo di Gentile sia divenuto base ideologica del fascismo). Ma appare più facile pensare che De Sanctis (il quale, negli ultimi anni di vita, riconoscerà la caduta del sistema hegeliano) intendesse con “idealismo” un significato più ampio di quello filosofico: idealismo come caratteristica di chi crede negli ideali e nei valori, di chi combatte per qualcosa, di chi è disposto a sacrificarsi per una giusta causa. Un idealismo di tal genere mancava completamente a Schopenhauer; e De Sanctis, vedendo in lui una pericolosa fiacchezza morale, volle combatterlo scendendo sul suo stesso terreno, dando così vita ad una critica a tutto tondo che meriterebbe di essere ben più conosciuta.



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