Lo sfruttamento e l’esclusione, non hanno soltanto un carattere universale, ma anche particolare. Per lottare efficacemente contro questi fenomeni, è opportuno fronteggiare le matrici di oppressione da cui essi traggono linfa e sostanza per affermarsi e riprodursi. Secondo Federico Zappino, nel caso dell’oppressione di genere e sessuale, la matrice è generata dall’eterosessualità. Ambire alla sovversione dell’eterosessualità significa lottare contro il capitalismo a partire dalle sue cause, anziché dai suoi effetti più immediati o visibili. In ciò consiste la differenza tra ogni altra forma di anticapitalismo e il comunismo queer.
Su Scenari proponiamo un estratto di Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità (Meltemi Editore, 2019).
Il libro sarà presentato domenica 14 Novembre alle ore 17 presso CSOA Forteprenestino. Assieme all’autore interverranno Renato Busarello, attivista del Laboratorio Smaschieramenti, e Caterina Peroni, ricercatrice e attivista. Modera l’incontro il Gruppo Ippolita.
È difficile che una politica dell’alleanza possa scaturire da una lotta identitaria. Altrettanto difficile, tuttavia, è che una lotta identitaria possa essere radicalmente espunta da una politica dell’alleanza.
Nel bel mezzo di questi tempi confusi, in cui l’appello a costruire alleanze politiche, sotto l’egida dell’“intersezionalità”, sembra costituire la cifra della politica radicale, vorrei provare a interrompere il flusso tanto ininterrotto e insindacabile quanto acritico di questa ingiunzione per dire che non è necessario appellarsi alla critica delle politiche identitarie per manifestare in ogni caso dei dubbi nei riguardi di una concezione dell’alleanza politica intesa come ciò che, implicitamente, può scaturire solo dalla pudica messa tra parentesi di quegli aspetti che delle diverse soggettività riguardano la specifica oppressione – messa tra parentesi a cui di solito ci si riferisce con l’espressione “al di là delle differenze”. Il punto, infatti, è che quelle che vengono genericamente, ed erroneamente, definite “differenze” possono ben non essere implicate nel dominio dell’identità, né essere necessariamente esperite in senso identitario dalle diverse soggettività individuali e collettive alle quali fanno capo.
La trasvalutazione delle differenze in chiave identitaria, da una parte, e la sostituzione discorsiva dei gruppi “sociali” con i gruppi “identitari”, dall’altra, non sono che tattiche volte all’occultamento del fatto che ogni differenza costituisce un effetto materiale del potere e, più precisamente, un effetto volto a stabilire una diseguaglianza, sotto tutti i profili. Pertanto, ogni qual volta si auspichi di andare “al di là delle differenze” si sta implicitamente, e talvolta esplicitamente, lavorando al servizio dell’occultamento delle relazioni di potere che ripartiscono differenzialmente privilegio e abiezione, vantaggi e svantaggi, e che li producono oggettivamente. Non in senso ontologico, ma sociale. Non in senso trascendente, ma immanente.
Per analizzare tale spinosa questione, vorrei prendere le mosse da ciò che Toni Negri e Michael Hardt scrivono all’interno del loro libro dal titolo Comune[1]. A differenza di Negri e Hardt, infatti, non sento l’esigenza di rassicurare l’uditorio a proposito del fatto che l’obiettivo politico del queer consista solo ed esclusivamente nella “soppressione delle identità” e non certo nella “distruzione delle differenze in quanto tali”[2]. Per quanto sia davvero difficile ascrivere Negri e Hardt all’ambito teorico e politico queer, va in ogni caso riconosciuto che la sezione di Comune dal titolo “Parallelismi rivoluzionari”, in cui discutono, oltre che di queer, anche di femminismo e di studi sulla razza e postcoloniali, mostra una sensibilità nei riguardi delle questioni sollevate che non ha eguali in altre opere scritte da uomini bianchi socialmente riconoscibili in quanto tali e in quanto eterosessuali. Ad esempio, rigettano con veemenza, in modo inequivocabile, l’idea che la violenza esperita dalle minoranze di genere, sessuali e razziali, o la posizione di inferiorità che occupano nella gerarchia sociale, possano essere ricondotte “a mero bigottismo o semplici pregiudizi”[3] – acume critico, questo, a cui taluni epigoni di Negri appaiono curiosamente refrattari. Inoltre, si rifiutano di sposare l’idea che l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti testimoni di una compiuta transizione verso un Occidente “post-razziale”. E altra questione importantissima, dimostrano di equiparare le diseguaglianze di genere e razziali a quelle di classe. “Chi si propone di promuovere una coscienza delle diseguaglianze sociali determinate da fattori identitari”, lamentano, “è accusato di creare le contrapposizioni di classe, di genere e razziali e altre divisioni identitarie”[4]. Anche per Negri e Hardt, infatti, come per me, la sovversione delle diseguaglianze di genere e razziali costituisce un prerequisito per la sovversione del rapporto sociale capitalistico. Il punto, semmai, è comprendere se concordiamo a proposito del fatto che ciò che chiamiamo differenze di genere o sessuali, costituiscano già in se stesse diseguaglianze, e non solo, idealmente, differenze.
La trattazione di Negri e Hardt prende spunto dalla critica di ciò che definiscono “indifferentismo identitario”: si tratta di un fenomeno che riguarda tanto le destre, quanto le sinistre, specialmente quelle più radicali. Immagino che, a destra, questo “indifferentismo identitario” possa essere fatto coincidere con l’ideale liberale della neutralità dello stato di diritto nei riguardi delle differenze – neutralità che lavora chiaramente al servizio del consolidamento, della massimizzazione e della riproduzione delle diseguaglianze sociali. A sinistra, invece, o almeno tra i ranghi della sinistra anticapitalista, l’indifferentismo identitario sarebbe secondo Negri e Hardt ravvisabile nell’atteggiamento di indifferenza, appunto, mostrato nei riguardi delle identità politiche minoritarie, ritenute in quanto tali “ostacoli per la rivoluzione”[5].
All’atteggiamento dominante tra le file della sinistra anticapitalista, Negri e Hardt contrappongono un argomento di sicura controtendenza: le lotte identitarie e le lotte contro la proprietà privata non sono né antitetiche né gerarchicamente ordinate, ma più semplicemente sono interconnesse. Infatti – e qui sorge invece il primo problema – secondo i due autori “l’identità è fondata sulla proprietà”. A un primo livello, il potere della proprietà si esplica secondo Negri e Hardt proprio nella produzione di identità, e successivamente nel consolidamento delle gerarchie. “La proprietà è così profondamente impastoiata con la razza”, scrivono, “non solo perché in molte parti del mondo la storia dei diritti di proprietà è incorporata nella tragedia della schiavitù, ma anche perché i diritti di possedere e disporre liberamente della proprietà sono sovradeterminati dalla razza senza che vi sia bisogno di legalizzare la segregazione. Analogamente, in tutte le parti del mondo i privilegi della proprietà posseduti dai maschi definiscono la subordinazione femminile, a partire dalle nozioni di ‘moglie’ come proprietà, al commercio delle donne, fino alle forme più sottili di proprietà sovradeterminate dal genere”[6].
Sicuramente, gli esempi che adducono dimostrano efficacemente che l’identità e la proprietà sono “profondamente impastoiate”. Il fatto che siano “profondamente impastoiate”, tuttavia, non determina necessariamente che l’identità si fondi sulla proprietà. Dalla mia prospettiva, infatti, significa piuttosto il contrario: è la proprietà a fondarsi sull’identità. Dire che l’identità si fonda sulla proprietà equivale a dire che, prima di tutto, si afferma un paradigma proprietario, e che solo secondariamente, su di esso, sorgono le “identità”, gerarchicamente ordinate a seconda che siano maggioritarie o minoritarie, dominanti o oppresse. Le identità, in altre parole, vengono descritte nei termini di funghi di varie dimensioni che crescono sul prato della proprietà. Dovrebbe essere invece chiaro, a Negri e ad Hardt, che per poter possedere i neri come schiavi occorre che la razza abbia già svolto il suo sporco lavoro producendo i “neri” come corpi appropriabili e riducibili in schiavitù, e i “bianchi” come padroni. E per poter possedere le donne come proprietà, come oggetti, addirittura commerciabili, occorre che lo stesso sporco lavoro lo abbia già svolto il genere. Se la proprietarizzazione costituisce lo sfondo sui cui sorgono le identità, come mai i corpi degli uomini non sono suscettibili di commercio da parte delle donne? Come mai la prostituzione maschile non è equiparabile – né statisticamente, né politicamente – a quella delle donne e delle altre minoranze di genere e sessuali? I bambini e le bambine, come forse sapranno Negri e Hardt, a un certo punto dello sviluppo iniziano a dire “è mio, è mio”, rivendicando diritti di proprietà su qualunque cosa abbiano attorno. Ciò, tuttavia, accade solo quando hanno già iniziato a parlare; e il modo in cui avviene il loro processo di apprendimento del linguaggio, volenti o nolenti, è indissociabile dal processo della loro produzione eterosessuale, della loro genderizzazione, della loro macrodistinzione generale e ripetitiva in maschi e femmine. Come scriveva Virginia Finzi Ghisi, “l’eterosessualità […] è la condizione di possibilità della produzione capitalistica, in quanto modalità della perdita di sé, del corpo, assuefazione a vederlo altrove, generalizzato, replicato”[7].
Dire che l’identità si fonda sulla proprietà, anziché il contrario, significa invece far rientrare dalla finestra precisamente ciò che Negri e Hardt, pur armati di buone intenzioni, cercavano di scongiurare. Anche senza ordinarle gerarchicamente tra loro, o almeno non dichiaratamente, il loro discorso sottende in ogni caso la convinzione per cui le questioni materiali (la proprietà) sono questioni strutturali, mentre le questioni culturali (le identità) sono questioni sovrastrutturali. D’altronde, sappiamo perfettamente che, per la tradizione di pensiero a cui Negri e Hardt esplicitamente si rifanno, quella marxista, ciò che essa stessa ascrive a mera questione sovrastrutturale solitamente coincide con qualcosa di meno importante – di “meramente culturale” –, rispetto alla questione strutturale.
Con il concetto di “struttura” Marx indica l’insieme delle forze produttive (macchine e mezzi produttivi, capitali, forza-lavoro) e dei rapporti di produzione (i rapporti tra le classi nel processo produttivo) di una data società in un determinato periodo storico. Con quello di “sovrastruttura”, indica invece gli ordinamenti giuridici e politici e le forme della coscienza sociale – la religione, la filosofia, i valori morali e culturali – che accompagnano e in qualche modo “rispecchiano”, in ogni epoca storica, la struttura economica. Per Marx, infatti, sono le sovrastrutture ad affondare le proprie radici nella struttura: è la base economica, in altre parole, a costituire il fattore determinante nei processi storici. Chiaramente, per me questo non può valere: e non perché reputi più determinanti le questioni sovrastrutturali rispetto a quelle strutturali, ma perché rifiuto innanzitutto la distinzione tra struttura e sovrastruttura impostata in questi termini. Se l’eterosessualità è il modo di produzione in cui propriamente consiste la produzione degli uomini e delle donne, da essa scaturisce qualunque relazione – e di conseguenza la società, lo stato, il mercato ecc. Paradossalmente, lo evinco dalle stesse parole di Friedrich Engels, quando nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, scrive che “secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia è la produzione e riproduzione della vita immediata”, tra cui “la produzione degli uomini stessi”. Dalla mia prospettiva, questa “produzione” avviene nel segno dell’eterosessualità. Al punto che, come suggerì acutamente Mario Mieli, l’eterosessualità è addirittura “sottostrutturale”: “Alla base dell’economia si cela la sessualità”.
Il rapporto tra la proprietà e l’identità, che in Negri e Hardt segue le mappe del rapporto marxiano tra la struttura e la sovrastruttura, non è l’unico aspetto problematico della loro dissertazione. La quale resta in ogni caso interessante non solo per i motivi che ho già elencato (su tutti, il rifiuto di ridurre la persistenza delle oppressioni a “pregiudizi” e “stereotipi”), ma perché i due autori dichiarano anche di stigmatizzare i frequenti tentativi di contrapporre la politica identitaria e la politica rivoluzionaria. Per loro, piuttosto, si tratta di “ripercorrere in parallelo la corrente di pensiero e la pratica rivoluzionaria all’interno delle politiche identitarie, le quali sono volte, paradossalmente, all’abolizione dell’identità”. Il pensiero rivoluzionario, secondo i due autori, “deve proprio apprendere da loro”[8]. Cioè, da noi.
Nella lettura che propongono dei “programmi rivoluzionari” delle politiche queer e femministe, infatti, Negri e Hardt si soffermano con particolare enfasi sulla questione dell’abolizione dell’identità. L’abolizione dell’identità, secondo loro, è la chiave per comprendere il modo in cui ogni politica rivoluzionaria prende necessariamente le mosse da una rivendicazione identitaria, ma senza esaurirsi interamente in essa. Se vuole essere rivoluzionaria, d’altronde, una data politica identitaria non può fermarsi al suo momento dialettico. La rivendicazione di un’identità è un atto politico fondamentale che consente di destabilizzare un ordine sociale in cui vige un’unica identità dominante ed egemonica, attraverso due specifici momenti: il primo consiste nella denuncia della violenza esercitata dalla società nei riguardi di una data minoranza identitaria; il secondo consiste invece nell’affermazione della libertà di un’identità non interamente circoscrivibile alla sua oppressione. Questa, tuttavia, non è la tappa finale di un movimento che mira alla trasformazione sociale – o, se si preferisce, rivoluzionario. Le identità minoritarie possono infatti essere perfettamente integrate, assimilate, attraverso le politiche di “riconoscimento” statale, o di “valorizzazione” capitalistica. Quando ciò avviene, la trasformazione sociale viene messa nell’angolo – o espressamente criminalizzata – in favore della neutralizzazione, o della messa a lavoro al servizio dell’ideologia, e dell’identità, dominante.
Al contrario, la trasformazione si compie quando in seguito alla denuncia della violenza e all’affermazione della libertà, si procede poi sovvertendo il regime di verità identitario, ossia facendo crollare i presupposti che producono un’identità dominante e le varie identità subalterne. Infatti, la subalternità, la diseguaglianza, l’oppressione, l’abiezione non dovrebbero mai essere confuse con una trasvalutazione in chiave identitaria, ma dovrebbero essere semplicemente sovvertite. E fino a che “le differenze” restano agganciate a configurazioni identitarie, ciò significa che esse sono funzionali a gerarchie e diseguaglianze di vario tipo, nelle quali sono implicati differenziali di potere che distribuiscono in modo diseguale la vulnerabilità, e la precarietà.
L’abolizione dell’identità è dunque ciò che consente di distinguere una politica identitaria rivoluzionaria “da tutte le distorsioni non rivoluzionarie”[9]. Interessante mi sembra osservare che Negri e Hardt equiparano tra loro politiche piuttosto differenti come il comunismo rivoluzionario, il queer e alcune declinazioni del femminismo. Il proletariato, d’altronde, è votato all’abolizione di se stesso in quanto classe, non certo alla propria autotutela. “Per lottare contro il capitale”, scriveva Mario Tronti, “la classe operaia deve lottare contro se stessa […]. Lotta operaia contro il lavoro, lotta dell’operaio contro se stesso”[10]. Chiaramente, ciò non significa che l’operaio intenda distruggersi fisicamente. E soprattutto, non significa nemmeno che l’obiettivo della propria lotta consista nella distruzione fisica dei capitalisti. Non è affatto necessaria la violenza – anzi, è controproducente. L’obiettivo, semmai, è quello di sovvertire le strutture e le istituzioni che ai capitalisti garantiscono i loro privilegi e il loro dominio, abolendo con ciò le condizioni di possibilità della subordinazione degli operai. Si tratta di qualcosa di analogo a ciò che troviamo in Monique Wittig, quando parla non dei capitalisti, bensì degli uomini: “È nostro compito storico, e solo nostro, definire ciò che chiamiamo oppressione in termini materialisti, per rendere evidente che le donne sono una classe e che le categorie ‘donna’ e ‘uomo’ non sono perenni, ma sono di natura politica ed economica. La nostra lotta mira di conseguenza a sopprimere anche gli uomini come classe; non attraverso una pratica genocida, bensì attraverso una pratica politica. Una volta che la classe degli ‘uomini’ sarà estinta, anche le ‘donne’ come classe si estingueranno, dal momento che non vi sarebbero schiavi se non vi fossero innanzitutto padroni”[11].
Il comunismo rivoluzionario, scrivono Negri e Hardt, non si propone di “migliorare” le condizioni dei lavoratori all’interno delle stesse strutture capitalistiche. Migliori condizioni di lavoro, salari più consistenti, servizi sociali più efficienti, una più ampia rappresentanza politica: tutte queste cose la cui assenza deve essere debitamente denunciata nei termini di una deprivazione violenta, costituiscono forme di riconoscimento – e, in alcuni casi, di emancipazione – che si fondano tuttavia sulla salda conservazione dell’identità di operai, e più in generale di lavoratori. Al contrario, il comunismo rivoluzionario mira a sovvertire le strutture e le istituzioni della subordinazione dei lavoratori, e dunque alla soppressione dell’identità operaia stessa, mettendo in moto la produzione di soggettività e un processo di innovazione sociale e istituzionale. Il comunismo rivoluzionario, inoltre, non ha nemmeno di mira la presa del potere statale da parte della classe operaia come nuova classe dirigente, dal momento che ciò non farebbe che perpetuare la storia, quasi mai di successo, della sostituzione delle classi al vertice del potere. Infine, non si pone nemmeno lo scopo di affermare principi di eguaglianza e giustizia sociale mediante l’universalizzazione dell’identità della classe operaia, con il bel risultato di far sprofondare chiunque nella condizione del proletariato.
Come ben osservano Negri e Hardt, la prospettiva rivoluzionaria queer e femminista si riconosce da una analoga risoluzione a sovvertire i sessi e i generi, ossia i frutti, e i semi, dell’eterosessualità. Oltre a dimostrare che non si nasce donna, ma lo si diventa, e di conseguenza si diventa anche uomo, anche eterosessuale, anche gay, anche lesbica, anche trans, alcune declinazioni del queer e del femminismo si propongono esplicitamente la soppressione delle varie identità – “donna”, “gay”, “trans”, “lesbica”. Come osserva Wendy Brown, in effetti, “Il femminismo rivoluzionario aveva promesso che potevamo prendere letteralmente nelle nostre mani le condizioni che producono il genere, e dar vita a qualcosa di diverso. Che potevamo non solo cancellare dalle leggi e dalle istituzioni le distorsioni indotte dal genere, ma che gli stessi esseri umani potevano essere prodotti oltre il genere così come lo abbiamo conosciuto storicamente”[12].
Prima di Brown, Gayle Rubin aveva formulato l’auspicio sconcertante di “eliminare il sistema sociale che crea il genere”; Monique Wittig, davanti a una platea incredula di femministe, aveva dichiarato che le lesbiche non fossero donne, dal momento che “la donna è il prodotto di una relazione di schiavitù con l’uomo”, e che in quanto tale non può essere “tutelata” ma solo “abolita”. E Eve Kosofsky Sedgwick collega saldamente la politica dell’identità con la sovversione dell’identità: le sue opere denunciano la violenza omofobica, ma al contempo destabilizzano il profilo identitario dell’“omosessuale”, e con esso il sistema sociale che lo produce in quanto tale. “Lungi dall’essere un’identità”, riassume esemplarmente Annamarie Jagose, “queer è la negazione dell’identità”.
L’altro mio problema nei riguardi della posizione di Negri e Hardt sorge allorquando passano a enumerare i rilievi critici solitamente addotti nei riguardi delle conseguenze, esplicitamente o implicitamente, rivoluzionarie del queer o del femminismo. Uno di questi rilievi, come riportano correttamente, è quello che concerne ad esempio il fatto che con la soppressione dell’identità andrebbero distrutte le differenze in sé, abbandonandoci così in una terra desolata e indifferenziata, dominata dal “neutro” – autentico spauracchio agitato in difesa del modo di produzione eterosessuale. “Alcuni”, scrivono Negri e Hardt, “temono che un mondo senza più generi, caratterizzato dalle utopie queer e femministe, sarebbe popolato da creature androgine antropologicamente indifferenti e prive di desideri”[13]. E a questo timore, effettivamente diffuso e pervasivo anche in ampi settori della politica gay, lesbica, trans e femminista, Negri e Hardt replicano che “la soppressione delle identità avvia in realtà l’affrancamento e la proliferazione delle differenze – differenze che non sono significanti di alcuna gerarchia”[14]. “Una volta soppressa”, proseguono, “insieme alle identità di genere, anche la distinzione tra eterosessualità e omosessualità, una moltitudine di differenze sessuali potrebbero sorgere davanti a noi, non due sessi o zero sessi, come amavano dire Deleuze e Guattari, ma n sessi”[15].
Ora, fa sempre piacere quando gli uomini eterosessuali si abbandonano a tali, e altre, promettenti elucubrazioni. Tuttavia, farebbe ancora più piacere se Negri e Hardt si interrogassero con pari enfasi anche a proposito della posizione soggettiva che questa rassicurante tutela delle differenze, ancorché moltiplicate e proliferanti, consente loro di (continuare a) detenere. Non è una questione di parole. È una questione tanto filosofica quanto politica: tutto ciò che noi possiamo pensare e nominare in termini di “differenze”, infatti, è prodotto in quanto tale dall’odierno sistema sociale eterosessuale, in modi indistinguibili dalle “diseguaglianze”. Così come Negri e Hardt sanno perfettamente che il comunismo non si pone il fine di rendere più dinamiche le “differenze” tra proletari e capitalisti – al punto che chiunque, magari, potrebbe occupare la posizione di proletario o di capitalista, a seconda dei momenti della vita –, bensì di sovvertire il sistema sociale che produce la diseguaglianza tra loro, e che li produce in quanto tali, al contempo dovrebbero arrendersi all’idea che l’obiettivo politico del queer – o se non altro di quello che percepisco come tale, in quanto soggetto queer – consiste proprio nella distruzione di ciò che noi, allo stato attuale dei rapporti di forza, possiamo individuare e nominare come “differenze”. So che gli uomini eterosessuali, specialmente i più riflessivi, vanno in brodo di giuggiole ogni qual volta leggano della possibilità di una “moltitudine di differenze sessuali”, o degli “n sessi” di Deleuze e Guattari: è possibile che la loro posizione dominante conceda loro l’agio di indugiare nella fantasia, e anche nel nonsense, rispetto al maggior pragmatismo di chi versa invece in una condizione di oppressione, e sa perfettamente che tutto ciò che verrà dopo la sovversione delle condizioni della propria oppressione non ha un nome che può essere concettualizzato o pronunciato dall’interno, invece, di quelle stesse condizioni. “Differenza”, o al plurale “differenze”, non sono che eufemismi di “diseguaglianza” – o, per dirla con le parole di Monique Wittig, non sono che “il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominio”[16]. E noi dobbiamo trovare un modo di lottare contro le diseguaglianze senza con ciò reiterare la produzione delle differenze. Negri e Hardt, d’altronde, sanno bene che le categorie che ancora oggi vengono solennemente definite nei termini della Differenza […], per Marx non erano altro che categorie conflittuali – inerenti cioè a conflitti sociali – che la lotta di classe avrebbe dovuto inderogabilmente superare. E distruggendo (abolendo) l’Uno, mediante la lotta di classe l’Altro avrebbe anche distrutto (abolito) se stesso. Infatti, nel costituire esso stesso una classe economica, il proletariato deve autodistruggersi proprio nel momento in cui distrugge la borghesia. Tale processo distruttivo consiste in un doppio movimento: il primo è la distruzione di se stesso in quanto classe (altrimenti significherebbe che la borghesia continuerebbe a detenere le leve del potere); il secondo è la distruzione di se stesso in quanto categoria filosofica (la categoria di Altro), dal momento che persistere mentalmente nella categoria di Altro (in quella del servo) significherebbe non superare in termini dialettico-marxiani il conflitto. Il superamento del conflitto, infatti, dovrebbe tendere verso una rivalutazione filosofica di entrambi i termini conflittuali, la quale non appena rende evidente che là dove non c’era forza (là dove c’era il nulla) ora c’è invece una forza economica, tale forza economica deve negare se stessa in quanto Altro (il servo) ma deve anche riconoscere l’esistenza dell’Uno (il padrone), proprio al fine di abolire sia l’Altro sia l’Uno, e di riconciliarli, rendendoli uguali[17].
[1] Michael Hardt, Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, a cura di Alessandro Pandolfi, Rizzoli, Milano 2010, p. 323 e ss.
[2] Ivi, p. 335.
[3] Ivi, p. 327.
[4] Ivi, p. 326.
[5] Ivi, p. 324.
[6] Ibidem.
[7] Virginia Finzi Ghisi, Le strutture dell’Eros, Postfazione a FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire), Rapporto contro la normalità, Guaraldi, Bologna 1976.
[8] Michael Hardt, Antonio Negri, Comune, cit., p. 324.
[9] Ivi, p. 330.
[10] Mario Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, p. 260.
[11] Monique Wittig, Non si nasce donna (1981), in Ead., Il pensiero eterosessuale, a cura di Federico Zappino, ombre corte, Verona 2019.
[12] Wendy Brown, Edgework, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 108.
[13] Michael Hardt, Antonio Negri, Comune, cit., p. 332.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 333.
[16] Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, cit., p. 50.
[17] Monique Wittig, Homo sum (1990), in Ead., Il pensiero eterosessuale, cit., p. 74.