In una calda settimana di fine settembre si è svolta a Villanovaforru, un piccolo paese in provincia di Cagliari, l’ottava edizione del Life After Oil International film festival, dedicato ai temi dell’ambiente e dei diritti umani. La selezione era composta sia da corti che lungometraggi, da cui è emersa con evidenza la volontà di denunciare le storture del mondo esistente e la fantasia di immaginarne uno migliore. Tra i film più interessanti del festival si è distinto un documentario atipico, Inferru, vincitore del premio dedicato a Valentina Pedicini nella categoria mediometraggi diritti umani. Grazie a un’accurata selezione di materiale d’archivio e alla voce narrante in lingua campidanese Inferru racconta gli ultimi istanti di vita di un minatore del Sulcis e ragiona sul senso di una vita passata in miniera, seguendo una traiettoria esistenziale pessimista di cui la massima espressione son state le opere letterarie di Fedor Dostoevskij e Emil Cioran e il cinema di Béla Tarr. Ne abbiamo parlato con l’autore, Daniele Atzeni.
Partiamo dal processo di selezione delle immagini di Inferru. Da dove provengono? Chi le ha girate?
Le immagini in prevalenza riguardano la realtà mineraria e industriale della Sardegna e sono estrapolate da archivi diversi e da diversi documentari girati fra gli anni ‘40 e gli anni ‘80. Il più vecchio risale al ‘48 mentre il più recente risale agli anni ‘80 ed è un saggio di diploma di due ragazzi del Centro Sperimentale di cinematografia di Roma che sono venuti a girare nel Sulcis un film che racconta la realtà mineraria della Sardegna a partire dai primi del Novecento. C’è anche tanto cinema di famiglia sempre girato in Sulcis e poi ci sono delle immagini estrapolate da documentari di un regista sardo molto importante, Fiorenzo Serra, e in particolar modo l’episodio di Carbonia del suo film L’ultimo pugno di terra (1965). Ci sono anche immagini provenienti dai documentari dello scrittore e cineamatore Salvatore Sardu, molto attivo nell’ambito delle tematiche ambientali negli anni ‘70. In generale non c’è molto materiale girato in Sulcis, credo di aver visto tutte le immagini disponibili e a partire da quelle ho selezionato le più adatte al mondo che volevo raccontare.
Nelle parole del protagonista del tuo film c’è un certo fatalismo nel descrivere la sorte dei minatori, come se tutte le lotte intraprese nel Sulcis fossero state essenzialmente inutili. Anche il titolo, Inferru (Inferno), non dà possibilità di redenzione.
Il film è un viaggio nella coscienza di un anziano minatore che sta per morire travolto da una frana. Nel momento fatale gli vengono in mente i pensieri più profondi, senza filtri. Attinge al sottosuolo della propria coscienza per cavarne fuori dei pensieri che ogni tanto arrivavano in superficie ma non potevano essere espressi a causa delle convenzioni sociali. Ciò che afferma è che le lotte e lo sfruttamento sono le due facce della stessa medaglia e che le lotte non sono state combattute per la liberazione ma piuttosto sono state un palliativo per rendere più umane le condizioni di vita dei lavoratori. Lotte certo sacrosante, ma osservando la realtà contemporanea è evidente che non hanno portato all’abbattimento del sistema capitalistico nel quale sono stati costretti a vivere gli operai e i minatori del Novecento. Con questi pensieri l’anziano minatore afferma che non si può venire a patti con questa realtà ma bisogna rifiutarla. Il suo è il “grande rifiuto” di Herbert Marcuse nei confronti della società oppressiva con la quale è stato costretto a convivere fin dalla nascita. La sua è una filosofia della negazione che si esprime tramite un monologo esistenziale. Ciò che volevo capire è come questa realtà incida sulla vita di un singolo individuo.
Nel film si sente appunto la mancanza della dimensione collettiva, vista solo attraverso qualche fuggevole immagine di una manifestazione. Qual è la tua attitudine alle lotte organizzate e alla loro funzione? Se non esiste speranza, qual è il senso di fare un film così disperato?
Nel film sono presenti due dimensioni, quella individuale e quella collettiva. Quest’ultima è presente in quanto si racconta di un mondo in cui le lotte erano parte della vita dei minatori. A me interessa quella più individuale, rappresentata dal viaggio nella coscienza del protagonista. Il senso del film sta nell’osservare la realtà e cercare di andare oltre per offrire un punto di vista netto e radicale sulla realtà che vado a indagare. La disperazione del minatore sfocia nel nichilismo dove in effetti niente ha un valore e lo fa scagliare implicitamente contro l’ideologia del lavoro che ha tenuto sotto scacco i lavoratori. Quest’ultimi sono stati costretti ad ubbidire a delle logiche imposte dall’alto, non potendosi creare una vita a partire dalle proprie esigenze intime e profonde. Le lotte quindi hanno avuto il valore di rendere questo sistema più docile, ma non hanno portato a un cambiamento di fondo. Potremmo vedere l’anziano minatore come un novello Sisifo che si porta sulle spalle il fardello dell’esistenza, reso ancora più pesante dalla società oppressiva in cui è stato costretto a vivere. La soluzione non va trovata all’interno di quel sistema. Secondo lui quel sistema va negato nella sua totalità, per magari costruirne un altro, ma alla fine afferma che anche questo nuovo mondo sarebbe diventato un inferno perché l’inferno è dentro di noi. Non trovando un modo per liberarsi di questo fardello il protagonista si rinchiude nella propria coscienza salvaguardando la libertà di pensiero. Lui è l’unico che ha ancora coscienza, a differenza degli altri che l’hanno venduta al diavolo, rappresentato dalla società industriale avanzata in cui la libertà è negata e levigata da una parvenza di democrazia.
Com’è nato il progetto di Inferru e come si relaziona ai tuoi precedenti lavori?
Faccio il documentarista da circa vent’anni e ho scelto questa pratica perché mi permette di lavorare in autonomia rispetto a un cinema più industriale e strutturato. Già dal mio primo documentario (Racconti dal sottosuolo, 2002) cerco di raccontare la realtà mineraria vista attraverso lo sguardo dei minatori, con un dialogo che alterna le interviste ai protagonisti di quell’epoca a immagini di strutture minerarie abbandonate. Dopo alcuni film mi sono reso conto che questa forma espressiva non mi bastava più per raccontare quello che avevo in mente, per raccontare la realtà da un punto di vista personale, e non mi permetteva di incidere sulla realtà col mio pensiero. Il mio punto di vista era filtrato da tutte le voci delle varie persone che intervistavo. Da questa necessità nasce il mio primo film “ibrido” tra finzione e documentario, I morti di Alos (2011), nel quale racconto la storia di un piccolo paesino immaginario della Sardegna che si chiama Alos e che viene travolto dalla modernità. Una modernità che si presenta sotto forma di uno stabilimento petrolchimico impiantato sul finire degli anni ‘50 alle porte di questo villaggio, trasformando i pastori in operai. Da questo processo nasce uno shock culturale che porta alla distruzione del paese attraverso una fuga di gas tossico proveniente dal complesso industriale, e l’unico sopravvissuto, diventato il testimone, dopo decenni rievoca quelle vicende. Anche questo film è basato in gran parte su materiali d’archivio che ho estrapolato da vari documentari e che ho utilizzato per ricostruire la realtà fittizia raccontata nel film. L’immaginario di questo paesino è quindi costituito da varie immagini della Sardegna industriale e dalle rovine di Gairo Vecchio, un vero paese fantasma dell’Ogliastra. Con Inferru volevo proseguire senza ulteriori filtri il discorso sull’industrializzazione della Sardegna, cioè scrivendo io stesso il testo della voce narrante, portandolo all’estremo con il solo uso di materiale d’archivio e concentrandomi sul Sulcis, una regione che conosco bene perchè ne ho indagato la realtà sociale da vent’anni. Mi sono documentato anche sulle miniere belghe e inglesi, una delle opere di riferimento è stata La strada di Wigan Pier di George Orwell e ho già in mente un’ultima opera che dovrebbe completare la trilogia, in cui un minatore discende nell’Ade.
L’ironia amara del protagonista di Inferru mi ha fatto pensare alla sconfitta della classe operaia del film Elio Petri, con tutte le ovvie differenze formali. Petri fu duramente attaccato dai vari movimenti operai, qual è stata nel Sulcis la reazione al tuo film?
È ancora prematuro per parlarne, l’unica proiezione nel territorio e avvenuta nell’ambito del Carbonia Film Festival, in cui il film è stato accolto positivamente, soprattutto dal punto di vista storico. C’è stata un’attenzione maggiore alla memoria piuttosto che al pensiero radicale che viene espresso attraverso il film. Spero che ci sia l’occasione di avere un confronto schietto con i vari attori sociali, anche perché nel Sulcis la storia mineraria sfocia in quella industriale, con lo stabilimento di Portovesme, e quindi con la contemporaneità. La filosofia della negazione di Inferru potrebbe essere applicata al rifiuto del presente. Dividerei i miei lavori in due categorie, il documentario classico e l’ibrido. Col documentari classici credo che si possa incidere maggiormente sulla realtà che ci circonda, i miei primi lavori erano film partigiani che sposavano le idee degli attori sociali presenti nei miei documentari. Nel caso di Inferru mi sono preso la libertà di esprimere i miei pensieri pensando poco o nulla a come questi si potessero riflettere sulla realtà circostante.
Un altro libro fondamentale per il concepimento del film è stato Il diritto all’ozio di Paul Lafargue, il genero di Marx, in cui l’autore si scaglia contro la classe operaia, parlando di “operai abbruttiti dal dogma del lavoro”. L’anziano minatore protagonista di Inferru rifiuta questo dogma, cosí come rifiuta la religione, e per questo mi sono ispirato al saggio I minatori della maremma di Bianciardi e Cassola in cui si racconta l’opera di persuasione fatta dai preti per convincere i minatori a lavorare, con la promessa dell’aldilà. E’ stato difficile sostenere che le lotte passate non sono servite a niente, anche perché hanno avuto come obiettivo quello di migliorare la condizione dei minatori, ma non hanno portato a grossi cambiamenti. Credo che a un certo punto ci si debba liberare di una certa retorica e fare delle opere libere.