Il 28 settembre 1950 ci lasciava Joë Bousquet, una delle più importanti voci del Novecento poetico francese. Nonostante il grave ferimento alla colonna vertebrale patito durante la Prima Guerra Mondiale, che lo costrinse a letto per gran parte della sua esistenza, Bousquet riuscì, dal suo rifugio-prigione di Carcassonne, a sviluppare un’amicizia e un fecondo sodalizio intellettuale con figure del calibro di Simone Weil, Max Ernst, Pablo Picasso, Jean Pulhan e molti altri. La sua opera, in Italia, è ancora tutta da scoprire, come riferisce Antonio Di Gennaro nell’introduzione qui proposta di Isel (Mimesis Edizioni, 2021,a cura di Antonio Di Gennaro), uno dei due inediti, assieme a Tradotto dal silenzio (Mimesis Edizioni, 2021, a cura di Adriano Marchetti), che finalmente riportano l’attenzione nel nostro Paese su un grande poeta.
La cultura italiana, che certamente non brilla per innovazione o originalità (abitualmente conservatrice e autoreferenziale), si distingue talvolta per eccessi negativi: per l’inconcepibile incapacità di non saper attribuire o riconoscere il giusto valore ad autori di primissimo piano, o addirittura di farli cadere nel dimenticatoio, ignorandoli completamente. Non importa se essi siano italiani o stranieri, se ci riferiamo a Giuseppe Rensi (1871-1941), Jean-Marie Guyau (1854-1888), Stig Dagerman (1923-1954), Pär Lagerkvist (1891-1974), per citarne alcuni. Sono e restano “perfetti sconosciuti”. Come un “perfetto sconosciuto” – ai più – resta inspiegabilmente il poeta e scrittore francese Joë Bousquet (1897-1950).
Rispetto alla vasta produzione di Bousquet, pochissimi sono i volumi apparsi in traduzione italiana: Tradotto dal silenzio, La conoscenza della sera, Da uno sguardo un altro, Il quaderno nero, Note d’inconoscenza, Il compagno della luna, Mistica, Una passante blu e bionda, la corrispondenza con Simone Weil (alcuni di questi testi risultano oramai fuori commercio). Come mai questo assordante e impietoso silenzio sulla figura di Bousquet? Come mai questo increscioso “velo nero”, questo ingiustificato “sipario chiuso” su un protagonista così rilevante sulla scena culturale francese del secolo scorso? Come mai quest’assurda e immotivata lacuna? Segno dei nostri tempi (bui) se non siamo in grado di ascoltare la voce silente (ma immensa e incommensurabile) di un autore che non ci parla soltanto di sé, ma di un sentimento assoluto e universale come l’amore.
La vicenda biografica del poeta di Carcassonne è caratterizzata da un episodio drammatico, che condizionerà la sua esistenza e che sarà alla base di tutta la sua produzione letteraria. All’età di ventun anni, infatti, il 27 maggio 1918 durante la Prima guerra mondiale, fu gravemente ferito alla colonna vertebrale e restò paralizzato nella parte inferiore del corpo: “Un proiettile mi ha spezzato una vertebra. Non posseggo che la luce viva degli occhi. Abito la parte del mio essere che sfuggirà ai becchini”[1].
Impossibilitato a relazionarsi con il mondo e inchiodato all’involucro, alla carcassa della propria carne inerme, che non risponde più agli stimoli della volontà ed è soggetta a piaghe continue, Bousquet dà libero sfogo alla propria immaginazione attraverso l’esercizio della scrittura, divenendo così autore di opere in prosa e in versi di una bellezza e di una profondità insuperate: “Sono qualcuno che ha visto sopravvivere in sé il suo essere alla morte dell’uomo. Sì, dopo un terribile incidente, la mia vita ha preso la forma necessaria per sostituirsi a me. Fu molto singolare quel che accadde nel mio cuore: la vita che beve l’oblio del mondo alla propria fonte… […] Il cuore non ha mai saputo nulla di ciò che mi era accaduto, né che ero sepolto vivo e una metà di me stesso era la tomba dell’altra metà”[2].
Bousquet trasfigura il proprio mondo interiore (fatto di pulsioni, sogni, illusioni, ossessioni, deliri) nella pratica della scrittura, dove al centro delle sue opere, come ininterrotto filo conduttore, compaiono sempre gli stessi temi: la solitudine cronica, l’ineffabile dolore interiore, l’imperscrutabile Ombra che dimora nel fondo del nostro essere, l’ardente desiderio dell’amore, l’impossibilità di essere amato, la donna (Elle-lei) come meta irraggiungibile per un uomo paralizzato:
Più di tutti io sono incatenato. Il corpo è la mia prigione e il pensiero stesso mi forgia le catene. […] Nessuno può sapere sotto quale peso un uomo come me soccomba: quel che manca alla sua vita senza approdo diventa il solo sbocco del suo pensiero. […] Se il privilegio di essere amato mi è stato tolto, è con i colori di un desiderio intatto che il mio pensiero mi rappresenta la creatura alla quale tanta sventura mi strappa[3].
E ancora:
Prigioniero com’ero della mia ferita, vedevo la donna più bella come l’immagine di ciò che mi era per sempre rifiutato. Vorrei che venisse una bella ragazza per amarmi veramente e capire profondamente ciò che di disperato metto in quest’ultima frase[4].
Bousquet vive sdraiato in un letto e la sua camera diviene luogo di incontro con artisti, poeti, scrittori, tra cui Paul Éluard, Max Ernst, Jean Paulhan, Simone Weil. Nonostante ciò, Bousquet è attanagliato dal sentimento della propria solitudine e si strugge nel desiderio di poter amare una donna, ed essere ricambiato nel suo anelito d’amore: “Voglio amare, amare fino a non riconoscermi più. Voglio vedere la mia vita negli occhi di una donna che sia capace di porre il mio amore al di sopra della vita”[5]. Purtroppo la realtà è ben diversa e prefigura un destino di perenne isolamento coatto. “Cosa può essere l’amore per un uomo votato a una totale solitudine? – si chiede infatti Maurice Blanchot – In un destino folgorato, quale ruolo è chiamato a svolgere un sentimento impossibile?”[6]. Lapidario e senza appello il punto di vista di Bousquet: “In questo mondo non c’è che un dolore straziante: quello degli esseri soli”[7].
Varie sono le figure femminili che attraversano la vita di Bousquet: Marta, Germaine, detta “Poisson d’Or”, Ginette, la giovanissima Jacqueline, chiamata “Linette” o anche “Isel”. Eppure lo scrittore francese avverte tutta la tragicità di non poter provare la gioia della fusione della propria anima con l’anima della persona amata, di non poter perdersi in un abbraccio, di non poter sprofondare nello sguardo dell’altro, di non poter accarezzare un corpo. L’altro resta altro, irriducibilmente altro, inafferrabile, e ogni volta si rinnova nel cuore lo squarcio di una solitudine imposta, o per dirla con Peter Schellenbaum “la ferita dei non amati”:
Sento nel cuore i colpi del mio amore inutile, non avevo mai avuto un peso grave da portare. […] Ahimè! Il cuore è grande solo per dare: è se stesso per ricevere”[8]; “E sono qui, solo con il mio amore come un giocattolo di un altro mondo che non so usare e che in certi momenti vorrei distruggere”[9]; “Ah! Che il mio amore sia reale o che io diventi anch’io un sogno! Non esiste un dolore comparabile a quello di amare invano[10].
Come ha giustamente osservato Aldo Carotenuto: “Tutta l’opera e il pensiero di Bousquet sono la prova dell’estenuante lavorìo interiore attraverso il quale dare nome alla propria sofferenza e, nominandola, integrarla e trasformarla in ‘senso’”[11]. Bousquet, in altre parole, per non soccombere alla follia, per non impazzire, converte la propria intima solitudine in letteratura, plasma la propria indicibile angoscia nella forma della prosa, degli aforismi, dei versi, dei frammenti, delle epistole. La scrittura diviene così, come in Emil Cioran, “mezzo di liberazione”, l’unico modo per attenuare l’inquietudine di esistere (l’inconveniente di essere nati) e sedare il tormento dell’anima: “[…] l’atto di scrivere è per me una gioia, l’unico possibile avvicinamento a colei che non si incontra mai in questo mondo. Scrivo senza interruzione, impedisco al tempo di rivelarmi che nel mio cuore non c’è la pulsazione dell’amore”[12].
Purtuttavia, Bousquet attende sempre fiducioso l’arrivo di una donna: un angelo, lei. Un angelo che possa ancora far vibrare il suo corpo e farlo planare libero, nonostante il peso morto di arti paralizzati. Ma è solo un sogno fatuo, che si alimenta di vuote speranze e che si infrange inesorabilmente, ogni volta, nella più cupa disperazione. Potenzialmente, per un uomo, la vita è apertura al mondo: si costituisce di possibilità infinite che possono essere realizzate o meno. Il mondo di Bousquet, invece, è chiuso, blindato, circoscritto: è una galera fatta di un letto, libri, quadri appesi alle pareti, dove il tempo scorre lento, vuoto e inutilmente: “Sono triste. Questa tristezza è di un uomo rinchiuso nella sua prigione, prigioniero delle tenebre, come se i miei sensi vivessero in un mondo diverso dal mio pensiero”[13]; “Sono solo e si fa notte; gli occhi sono più pesanti del cuore. La carne del volto pesa sulle ossa come una maschera di argilla e questo dolore è tutto ciò che mi resta delle lacrime. Non è un modo naturale di essere triste”[14]; “Sarebbe bello che una donna lo capisse, finalmente: i miei libri sono fatti con le rovine che il mio silenzio contiene”[15].
Bousquet reprime in sé l’amore che non accade e a cui non ha accesso. L’energia psichica traboccante, il desiderio sessuale infranto, la pulsione erotica soffocata diventano in lui un silenzioso urlo straziante, strozzato nella coscienza scissa. Questa è la morte del cuore, l’estrema solitudine di un io ripiegato su di sé, perché incapace di uscire fuori di sé, di essere accolto, riconosciuto e, anzi, costantemente respinto: “La vera passione grida sempre e soltanto nel deserto”[16]; “Sono solo, non sono io a costituire la solitudine, è la solitudine che mi costituisce”[17]; “Il segreto del […] dolore consiste nell’avere conosciuto la natura dell’amore senza essere amato”[18]; “La morte sono i pianti che sgorgano ascoltando una parola che voleva dire amore”[19].
[1] J. Bousquet, Da uno sguardo un altro, tr. it. di A. Marchetti, Panozzo Editore, Rimini 1987, p. 92.
[2] Id., Tradotto dal silenzio, tr. it. di A. Marchetti, Marietti, Genova 1987, p. 55.
[3] Ivi, p. 57.
[4] Ivi, p. 57.
[5] Ivi, p. 168.
[6] M. Blanchot, J. Bousquet, Letture incrociate, a cura di A. Marchetti, Il Capitello del Sole, Bologna 1999, p.17.
[7] J. Bousquet, Tradotto dal silenzio, cit., p. 173
[8] Ivi, p. 134
[9] Ivi, p. 134.
[10] Ivi, p. 160.
[11] A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima. Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione, Bompiani, Milano 2001, p. 127.
[12] J. Bousquet, Tradotto dal silenzio, cit., p. 4.
[13] Ivi, p. 124.
[14] Ivi, p. 47.
[15] Id., Mistica, tr. it. di M. Sannelli, La Finestra Editrice, Lavis 2013, p. 104.
[16] Id., Tradotto dal silenzio, cit., p. 168.
[17] Ivi, p. 86.
[18] Ivi, p. 87.
[19] Ivi, p. 122.