Le misure legislative per il contrasto ai crimini d’odio a causa sia “dell’orientamento sessuale” sia “dell’identità di genere” e che hanno acceso aspre discussioni in sede parlamentare, hanno scatenato polemiche e divisioni così acute da riproporre una visione della lotta politica in termini di contrapposizioni frontali. Ora, anche al di là del contenuto specifico del provvedimento, lo spettacolo di uno scontro politico in cui i gruppi parlamentari dei diversi partiti si scontrano senza dimostrare alcuna volontà di compromesso può essere l’occasione per qualche considerazione più generale. Va infatti sottolineato che ciò non rappresenta affatto una distorsione o un’anomalia della vita democratica ma ne restituisce, piuttosto, la sua dimensione fisiologica. La democrazia costituzionale è fondata sull’idea che il conflitto sia una condizione permanente di libertà politica, non un elemento accidentale, e che il disaccordo sia un tratto fondamentale della politica democratica.
L’idea populista che il popolo sia uno, che le divisioni al suo interno non siano che semplici egoismi di fazione destinati a scomparire una volta che esso demandi la tutela dei propri interessi a un’unica leadership non politica si trova in aperto contrasto con l’orizzonte dell’ordine istituzionale della democrazia moderna. La prospettiva che impronta la vita politica delle liberaldemocrazie è incompatibile con l’idea populista che il leader sia sempre capace di superare il conflitto innalzandolo a un superiore livello di astrazione, e cioè spostandolo dal piano di ciò che è bene per dei gruppi sociali insoddisfatti al piano di ciò che è Bene per “tutti”. E questo sia perché la democrazia ha a che fare con “parti” e con un conflitto tra “parti” sia per l’importanza riconosciuta all’autorità formale della legge, che nasce dal voto dei cittadini ma la cui applicazione passa per le regole e le istituzioni dello Stato.
Nella logica pluralistica della democrazia partitica, il compromesso, quando realizzato nel rispetto delle procedure formali e anche se accettato in base a ragioni soggettivamente differenti, gioca un ruolo essenziale. È certo vero che talvolta porta anche a guardare con scetticismo alla nozione stessa di sovranità popolare, specie per chi aderisce alla mitologia cospiratoria che attribuisce alla élites antipopuliste e ai “radical chic” la volontà di sottrarre “lo scettro al principe”, ossia al popolo sovrano. Tuttavia, come sottolineava Joseph Schumpeter oltre sessant’anni fa, la volontà generale è il prodotto, non la forza propulsiva del processo politico. La teoria della democrazia che considera il compromesso come essenziale per il funzionamento della democrazia rappresentativa si fonda su un presupposto che il populismo tende a rimuovere, e cioè che la società è teatro di espressione e di contestazione delle opinioni e che perciò l’esercizio del dissenso necessita di regole e procedure per giungere a decisioni collettivamente vincolanti.
Questa prospettiva si basa una circostanza tutt’altro che irrealistica: quando, nelle moderne democrazie rappresentative, le soluzioni cooperative sono più di una e le parti ne preferiscono ciascuna una diversa, le risposte ai problemi vanno affrontate tramite compromessi tra le visioni partigiane che riflettono le condizioni specifiche, e quindi anche parziali, in cui vivono i cittadini. Visioni partigiane che prendono forma nei partiti politici, espressione del fatto che nella società ci sono interessi diversi e non tutti unificabili sotto un’idea totalizzante di popolo. La democrazia è lo Stato-dei-partiti in quanto, data l’opposizione degli interessi, la volontà generale, se non deve esprimere esclusivamente l’interesse di un solo gruppo, non può che scaturire dalla convergenza fra interessi opposti. La costituzione del popolo in partiti politici è la forma necessaria di organizzazione della volontà popolare, in modo che il principio maggioritario si possa affermare nella prassi parlamentare come un principio di compromesso fra maggioranza e minoranza nella formazione della volontà generale. Questa valutazione positiva dei partiti politici si distingue dal populismo contemporaneo, nel quale agisce il pregiudizio della superiorità del Tutto, del bene comune, sulle parti, sugli interessi frazionari potenzialmente sovvertitori dell’unità politica e che preferisce affidarsi a una relazione diretta e non mediata tra il leader carismatico e il popolo.
Il compromesso può essere perciò concepito come un accordo libero e non imposto tramite il quale le parti si fanno reciproche concessioni per ottenere un bilanciamento degli interessi contrapposti in modo da giungere a una decisione collettivamente vincolante. È il fatto stesso che al popolo spetta un destino di conflitto, piuttosto che di armonia, tra le parti che lo compongono, insieme alla necessità di produrre decisioni vincolanti per tutti in un contesto di regole e istituzioni condivise, a spiegare la necessità, in politica, di cercare soluzioni di compromesso. In contrasto con l’ideale del consenso, il compromesso non astrae dal disaccordo né lo supera con la forza dell’argomento migliore. Anche quando una soluzione di compromesso è stata trovata ciascuna delle parti non può, ovviamente, rinunciare a considerare la propria posizione iniziale più equa, giusta o razionale di quella con cui è scesa a patti alla fine della trattativa, Se, infatti, l’una o l’altra ritenesse che la soluzione di compromesso possa essere considerata persino migliore della propria posizione iniziale, l’accordo negoziale sarebbe semplicemente superfluo, poiché si sarebbe giunti a una soluzione capace di convincere le parti allo stesso modo, e cioè consensuale. Una soluzione di compromesso differisce da una soluzione consensuale proprio perché le parti non riescono a convincersi l’un l’altra dei superiori meriti sostantivi di una sola opzione né sono in grado di convincersi vicendevolmente della giustezza dei rispettivi argomenti. Mentre perciò una soluzione consensuale elimina il disaccordo, una soluzione di compromesso lo incorpora e le parti, pur riconoscendo che non c’è alcuna soluzione razionale del loro conflitto, vedono se stesse come appartenenti a una stessa associazione politica evitando così che il conflitto si trasformi in antagonismo.
L’esigenza di trovare soluzioni di compromesso fra le pluralità reali di cui è fatta la società civile moderna, anche quando questa pluralità è indicativa di ingiustizie o disuguaglianze, è indicativa del fatto che nessuna delle parti in cui si divide la società può coltivare ragionevolmente la speranza che le sue aspettative vengano unilateralmente premiate a danno di tutte le altre. Quale che sia la gestione del potere e quali che siano le qualità dell’élite politica, il “popolo” non vedrà mai interamente soddisfatte le proprie aspettative, dal momento che esso non può mai occupare la posizione di un macrosoggetto, di un corpo collettivo dotato di una Volontà unitaria e univoca. Il “popolo”, tranne quando parla nel momento costituente in cui gli ordinamenti vengono creati e rappresenta il Tutto cui spetta il potere sovrano, non è che la somma delle parti che lo costituiscono e che esprimono interessi diversi e conflittuali. Quali che siano gli interessi da soddisfare, non possono che partire da una visione partigiana, legata a una riflessione sulle condizioni specifiche e quindi anche parziali in cui vivono i cittadini. Se il principio che presiede alla democrazia rappresentativa è la libertà politica, allora la possibilità del dissenso, del pluralismo e quindi del compromesso è ciò che le impedisce di degenerare in una democrazia plebiscitaria o in una democrazia illiberale.