Paolo Ercolani pone una questione che è sotto gli occhi di tutti coloro che ritengono che la distinzione sinistra-destra sia ancora ricca di significato e di valenza euristica ed evidenzia un tema molto serio: come è possibile, di fronte alle contemporanee trasformazioni culturali e di conseguenza economiche e politiche, fare in modo che la sinistra sia in grado di immaginare e realizzare azioni e progetti all’altezza dei problemi che queste trasformazioni mettono in campo e sia capace di proporre azioni che consentano di immaginare e realizzare una società più “giusta”.
Quest’ultima – la giustizia – sembra essere per Ercolani il parametro che definisce ciò che è di sinistra e ciò che non lo è. Un parametro di natura morale. Una vena che, del resto, percorre in modo marcato la pars costruens del suo contributo. Un’ottica difficile da rintracciare nell’evocato Marx, il quale si poneva in modo netto invece la questione di una società non alienata e non feticistica e nel contempo si dimostrava ammirato delle nuove modalità che il capitalismo presentava, così come noi oggi non possiamo non riconoscere che vi è un allargamento delle condizioni di benessere di paesi come la Cina, il Sud Est Asiatico e di molti paesi del centro e del sud del continente africano.
La contrapposizione fra queste due ottiche è rinvenibile nella polemica fra lo stesso Marx e Pierre-Joseph Proudhon, tanto che il primo replicava al testo del filosofo francese Filosofia della misera di (1846) con lo scritto Misera della filosofia di Karl Marx (1847). Una contrapposizione stigmatizzata in un brano del Manifesto nel quale il filosofo di Treviri sostiene che: «per cambiamento delle condizioni materiali di esistenza, questo socialismo non intende affatto l’abolizione delle condizioni borghesi di produzione, che è realizzabile solo per via rivoluzionaria, bensì riforme amministrative effettuate nell’ambito di queste condizioni di produzione,che quindi non modificano per nulla il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma, nella migliore delle ipotesi, riducono per la borghesia i costi del governo e ne semplificano la gestione economica». Sono affermazioni che volutamente si antepongono a quelle formulate da Proudhon quando argomenta che: «la giustizia è la stella centrale che governa la società, il polo attorno al quale ruota il mondo politico, il principio e la regola di tutte le transizioni. Nulla avviene fra gli uomini che non sia in nome del diritto, nulla senza invocare la giustizia … Si, tutti gli uomini credono e ripetono che l’uguaglianza delle condizioni è identica all’uguaglianza di diritti; che proprietà e furto sono sinonimi; che ogni privilegio sociale, concesso o per meglio dire usurpato col pretesto della superiorità dell’individuo o della prestazione è iniquità e brigantaggio: tutti gli uomini, affermo, attestano queste verità nel loro cuore; non si tratta che di fargliele vedere».
Il dibattito intorno alle pratiche politiche che definiscono i comportamenti di sinistra è controverso sin dall’origine, sin dalla Prima Internazionale, ed è annoso e controverso. Già nel passato si sono viste posizioni significative come quelle di Eduard Bernstein o Karl Kautsky, assai più prossime a quelle avanzate da Proudhon che a quelle sostenute da Marx; queste ultime meglio incarnate dalle tesi di Rosa Luxemburg. Eppure è incontestabile che entrambe rientrano nell’alveo di un pensiero che non accetta passivamente i risultati sociali del processo capitalistico.
Oggi c’è chi ritiene l’eguaglianza il faro di una politica di sinistra, come l’economista-filosofo Amartya Sen secondo il quale si tratta di un concetto che «ha a che vedere, infatti, con la nozione di “equità”», e quest’ultima deve intendersi in senso «normativo», trattandosi di una nozione «basata su un giudizio di valore» (Sen 1978).
Dietro a questo stesso termine si celano però due diverse ottiche, da un lato coloro che ritengono che si debbano creare uguali condizioni di partenza (alta tassazione sui patrimoni ereditabili, imposte elevate sulle rendite, ecc.) e poi ognuno fa la sua corsa, e coloro che invece si ancorano all’idea di creare la parità delle condizioni lungo la vita (sanità, istruzione); altri che ancorano l’idea di sinistra al concetto di dignità e chiamano in causa sia i diritti sociali che quelli civili o politici come Norberto Bobbio e come del resto fa la nostra Costituzione all’articolo 2.
Nell’affannoso e scomposto tentativo di individuare le cause dello smarrimento che pervade la vita sociale e individuale di gran parte degli abitanti del pianeta, in particolare quelli occidentali, in questi anni si è assistito alla riesumazione dell’affermazione di Walter Benjamin che «il capitalismo è una religione» (1921) e questo sin dal suo incipit è ciò che fa anche Ercolani, inserendosi nella scia di coloro che recuperano in altra forma la tesi di Carl Schmitt, secondo il quale le categorie della politica sono una secolarizzazione di quelle teologiche, solo che la vera erede moderna della teologia non sarebbe la politica bensì l’economia e così diventa molto più semplice rifarsi a Benjamin che non a Marx, preferendo una visione apocalittica a una teleologica.
Difficile e improprio tenerle insieme, soprattutto perché Marx (1848) pensava che «La miseria religiosa esprime tanto la miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale. La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità … La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola. … È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di stabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica».
La simmetria fra economia e religione si presenta come una chiave interpretativa ‘comoda’ perché solleva dal compito di elaborare davvero un pensiero alternativo.
Il lavoro di Marx è sostanzialmente una impareggiabile analisi decostruzionistica della modalità di produzione dei capitalismi e ancor prima del dibattito attuale la sua analisi è espressione di una critica genuina e plausibile della scienza economica, della sua contemporanea ma anche della nostra, e della influenza che questa esercita sulla politica; fa emergere i limiti di molte critiche dei teorici del tempo e soprattutto mette in luce quanto sia difficile non ricadere in schemi concettuali simili a quelli sottoposti a esame.
Marx nei suoi scritti mostra quanto sia necessario affrancarsi dall’antropologia che caratterizza l’homo oeconomicus e quella che mette sul banco degli imputati è l’astoricità del pensiero e dei modelli proposti ed è ben lungi dal mettere sul banco degli imputati la dinamica finanziaria, anzi mette in luce la centralità del suo ruolo, poiché evidenzia che ogni atto economico, privato o pubblico, ha origine da un atto finanziario e che quindi la componente finanziaria è parte costitutiva della dimensione economica: nel settore privato il ciclo produttivo ha sempre inizio con un’anticipazione di denaro per acquistare i mezzi necessari per attuare il processo di produzione. La stessa cosa avviene nel settore pubblico: di fatto lo Stato nasce con un atto finanziario da parte dei cittadini, in quanto le tasse sono i soldi che lo Stato prende in prestito e che restituisce con attività che hanno valore economico, come sicurezza, scuola, sanità, ecc.
Sono quindi contraria a individuare nella finanza il capro espiatorio, alla Renè Girard, della crisi. Una modalità che i miti raccontano insieme ai suoi benefici effetti, distorcendone però la realtà, dato che contengono solo la versione della folla, la quale ritiene se stessa innocente e la vittima colpevole. Nell’ottica proposta da Ercolani l’esistenza generata dalla finanza si fa quindi simulacro, feticcio e spettro della soggettività e sembra contrapporsi all’economia “reale”, come se quest’ultima non fosse caratterizzata da alienazione e feticismo.
La finanza e soprattutto la cyberfinanza sarebbero i generatori dei guasti, e così non sarebbe più la coda che si muove con il cane, ma il cane dell’economia sarebbe mosso dalla coda della finanza, e sarebbe mosso in modo ipercinetico. Un’economia che si configurerebbe come l’uroboro, l’immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso.
Per Marx si tratta invece di comprendere la dinamica dei processi di astrazione, esorcizzazione e feticizzazione del mondo delle merci e delle relazioni fra individui che si fondano su un’ideologia che si stabilisce proprio nello spazio intermedio fra il materiale e lo spirituale. In questi anni la finanza ha assolto al compito di mantenere inalterato il rapporto feticistico delle merci. Ha sostanzialmente assolto al compito di illudere che la disponibilità di reddito reale rimanesse inalterata o fosse incrementabile, e ha favorito sia l’acquisto facile di abitazioni, sia l’istruzione, sia l’acquisto di merci in assenza di reddito da lavoro.
Quello del feticismo delle merci è un momento fondante della soggettività, definita dal fatto che la merce ha una patina enigmatica e insieme magica e fantasmagorica e che l’inter-oggettività è il frutto di un effettivo contratto sociale fra le merci stesse. Una soggettività imbrigliata nel regno delle cose, che si inscrive in una dinamica comunicativa, simbolica e idolatrica, tanto da diventare estranea a se stessa, alienata, commensurabilmente generalizzata, vittima del totalitarismo dell’oggetto, smarrita; la qualcosa cancella completamente la qualità umana del lavoro incorporato negli oggetti, quindi il tempo. Il feticismo delle merci si configura così anche come feticismo delle relazioni sociali e quindi alienazione. Una tesi che Derrida estende al tempo e all’inversione fra realtà e spettri della realtà.
L’ultimo aspetto su cui desidero concentrare l’attenzione nella proposta di Ercolani è il ruolo centrale del pensare, poiché il pensare è un fare, come ben argomentava Heidegger nel 1954: «Il carattere attivo di questo pensare nei termini di un agire è il suo senso, il senso dell’apertura al mondo e agli altri, è il senso della relazione con gli altri». In questo esercizio non chiamerei però a raccolta solo «uomini e donne di cul¬tura», perché questo appello evoca in modo marcato la Repubblica dei filosofi di Platone, un’idea che ha abbracciato nella storia la destra.
Si tratta di un modello oligarchico che non mi può appartenere. Semmai inviterei gli intellettuali a mischiarsi; ad ascoltare e attuare prassi non individualistiche e ad aprirsi a pratiche collettive e comunitarie; a superare la dimensione dell’indignazione e della morale e ad approfondire e declinare le articolazioni dei processi di alienazione e feticismo; di tenere conto della dimensione storica del capitalismo e di descrivere il suo dipanarsi e il suo evolversi; di descrivere il capitalismo come oggetto e il capitalismo come processo; di non declinare il capitalismo come se la forma fosse un tutto e fosse unica e non fossimo in presenza di articolazioni successive e compenetranti.
Oggi è come se l’analisi e le articolazioni del pensiero di Marx non avessero lasciato segni né in ambito metodologico né contenutistico. Viene a mancare per esempio la classica distinzione fra capitalismo produttivo o industriale, capitalismo fondato sul capitale-merce, capitalismo del credito e capitalismo finanziario. Perciò non penso che «le ideologie e le problematiche dei secoli scorsi risultano terribilmente superate e anacronistiche». Anzi.