Alberi nel deserto. Conversazione con Juan Goytisolo

“Il più importante romanziere spagnolo contemporaneo”, così lo definiva Carlos Fuentes. Il 4 giugno del 2017 ci lasciava Juan Goytisolo, esponente di spicco della Generazione ’50.
Su Scenari proponiamo una parte della conversazione tra lo scrittore catalano e Massimo Rizzante contenuta nella nuova edizione di
Esiliato di qua e di là. La vita postuma del Mostro del Sentier (Mimesis Edizioni, 2021, a cura di Massimo Rizzante), un viaggio tra Spagna, Francia e Marocco, tra la cultura araba e le radici delle letteratura ispanica, tra Dante e Genet.

Marrakech, settembre 2011 – aprile 2015
 
Ecco cosa riportano di solito le biografie sulle tappe essenziali della sua vita: nascita a Barcellona nel 1931; lascia la Spagna per Parigi nel 1956, dove lavora come lettore nella casa editrice Gallimard e dove conosce Monique Lange, che diventerà sua moglie; tra il 1969 e il 1975 insegna in diverse università degli Stati Uniti; successivamente decide di vivere tra Tangeri e Parigi e, infine, nel 1996, dopo la morte di Monique Lange, si installa definitivamente a Marrakech. La sua vita è una storia di rotture… Prima con il suo paese natale, in particolare con la dittatura franchista, poi con l’Europa e l’Occidente, o almeno con un Occidente incapace di dialogare con le altre civiltà e con il suo passato, le cui radici sono il frutto di incontri molteplici… Vorrei cominciare domandandole: che ricordi ha della sua prima educazione nella Spagna degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso?
 

Si può dire che non ho ricevuto alcuna educazione. Non sono figlio di mia madre, ma della guerra civile e del suo odio… Tutto ciò che ho imparato dopo la morte di mia madre (1938), tra il 1939 e il 1948, l’ho imparato dalla città di Barcellona, dalle sue strade, dove respiravo il tanfo di una società priva di libertà. Che cosa ci si poteva attendere da un sistema educativo che prendeva le consegne dal nazional-cattolicesimo e che alternava i canti della Falange ai saluti ossequienti ai ritratti di Franco e Primo de Rivera? L’indottrinamento era dovunque. I professori non mi hanno insegnato nulla di buono. I sillogismi scolastici e i precetti religiosi sono svaniti molto rapidamente dalla mia memoria. Mi piaceva molto la geografia. Sognavo di viaggiare attraverso i cinque continenti, andare in America, in Arabia, in India… Il mio interesse per la storia si è rivelato più tardi e si è sviluppato grazie alla biblioteca che apparteneva alla famiglia di mia madre. Mi immergevo nella storia della Spagna. Cosa che faccio ancor oggi.
 
In seguito, si è iscritto alla Facoltà di Diritto di Barcellona, che abbandonerà ben presto per dedicarsi alla letteratura…
 
La mia entrata all’università ha coinciso con l’inizio della mia contro-educazione: Lorca, Neruda, Alberti, Gide, Sartre. Noi studenti ci scambiavamo di nascosto le loro opere. Il fatto che appartenessero alla lista nera della Chiesa di Roma non faceva che aumentare la mia curiosità e procurare alle mie letture segrete un godimento quasi sessuale. Molto più tardi, allorché sono diventato un lettore accanito di romanzi, mi sono reso conto di non conoscere affatto la letteratura spagnola, eccezion fatta per quella che all’epoca si chiamava «impegnata». L’odio verso il mio paese, il suo regime politico e la sua Chiesa, che celebrava le imprese del dittatore, mi avevano impedito di conoscere la mia letteratura, la mia cultura e le sue radici profonde…
 
Cosa che ha scoperto una volta arrivato a Parigi…
 
L’Espagne en vase clos è il titolo del mio primo saggio pubblicato in francese nel 1955. Ho avuto bisogno di cinque anni a Parigi per sconfiggere la repulsione che provavo verso la Spagna e per scoprire l’incomparabile invenzione di Cervantes. È stato in quel momento che la mia contro-educazione è terminata e che sono entrato in una fase nuova del mio apprendistato: l’appassionata ricerca della tradizione nascosta della Spagna. A trent’anni, ho cominciato a costruire una mia biblioteca personale delle opere del Medioevo – El libro de buen amor de Juan Ruiz; Corbacho o Reprobación del amor mundano de Martínez de Toledo; La lozana andaluza de Francisco Delicado; La Celestina de Fernando de Rojas – e di qualche altro creatore che ha saputo sfuggire ai canoni del Rinascimento e del Neoclassicismo, come San Juan de la Cruz, Cervantes, Quevedo, Góngora, che formano quel che ho definito «il regno delle eccezioni geniali». In questo modo ho fondato una nuova genealogia della mia tradizione e ho esplorato i suoi forti legami con l’albero della letteratura. E ho compreso quella che ancor oggi è una delle mie convinzioni più profonde: la modernità – in quanto apertura, trasgressione delle regole stabilite, insieme di forme e registri stilistici al servizio di un’unità estetica, riflessione dell’autore sui suoi mezzi – non ha una connotazione temporale, non obbedisce alla legge della cronologia. Nel Libro de buen amor di Juan Ruiz, l’Arciprete di Hita, quest’opera fondamentale del Medioevo, esiste già la frammentazione del racconto, l’uso delle digressioni, il cambiamento delle età dei personaggi – ora giovani ora vecchi – che si possono ritrovare nei romanzi del XX secolo. La libertà dell’Arciprete provoca molte contraddizioni e inversomiglianze che non hanno nulla a che vedere con l’illusione realista che, al contrario, sarà la camicia di forza del romanzo del XIX secolo. Sempre a Juan Ruiz e alla sua oralità dobbiamo un ampliamento straordinario della voce narrativa, oralità che, dopo l’invenzione della stampa, è stata dimenticata da molti romanzieri e che unisce, al di là dei secoli, il romanzo moderno alle creazioni più significative del Medioevo: è il caso di Joyce, Gadda, Céline, Lezama Lima, Arno Schmidt. E più recentemente di Sarduy, Fuentes, Julián Ríos, per citare soltanto gli scrittori a cui mi sento più vicino…

Mi ricordo che una volta ha scritto che esiste «un orecchio letterario come esiste un orecchio musicale»…
 
Ho compreso fino in fondo il Libro de buen amor, grazie alla mia frequentazione quasi quotidiana dei conteurs della Piazza Jemaa el Fna di Marrakech. Ciò mi ha permesso di entrare nella polifonia dell’opera di Juan Ruiz, di ricreare un’atmosfera molto simile alla sua. Un buon numero dei miei romanzi dovrebbe essere letto ad alta voce.
 
A Parigi, dove ha vissuto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, ha esplorato nuove genealogie della tradizione culturale spagnola. Si è sbarazzato di alcuni pregiudizi – nati dalla sua avversione nei confronti della politica e della Chiesa – verso le grandi figure della letteratura spagnola del passato. In seguito, grazie all’incontro con Monique Lange e con Jean Genet – le due personalità, come ha scritto varie volte, più importanti per la sua vita e per la sua opera – scopre la letteratura mondiale e una Parigi assai poco monumentale e turistica: quella dei piccoli bistrot, di Gare du Nord, dei quartieri popolari abitati dagli emigrati turchi e maghrebini… È in questo momento che si avvicina a quelle lingue e a quelle culture che già cominciano a marcare il paesaggio urbano europeo… Prima di venire al grande tema della ricerca delle radici arabe nella cultura spagnola ed europea, vorrei sapere che genere di insegnamento Jean Genet impartì al giovane esule spagnolo?

Fino ai trent’anni ero uno scrittore che lottava contro un regime e che denunciava, attraverso un realismo critico, la sua censura, i suoi fasti, i suoi crimini. I miei romanzi degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, come Campos de Nijar (1954) o Pueblo en marcha (1962), erano le testimonianze di un ribelle che cercava di sfuggire ai diktat – linguistico, sessuale, politico, morale – che ghigliottinavano il suo paese. Recentemente, in occasione della pubblicazione delle mie Obras (in)completas, ho voluto includerli per non autocensurarmi… Ho avuto bisogno dell’esilio e di molti viaggi in tutto il mondo per scoprire la mia vera voce. Genet è stato il primo che mi ha indicato la via: «Se si conosce in anticipo il punto di partenza e di arrivo, non si può parlare di impresa letteraria, ma di una corsa in autobus». A Parigi, sono sceso dall’autobus. Ho compreso che non ci sono rigide contrapposizioni tra i mondi; che i personaggi romanzeschi non sono mai degli eroi; che la Storia è una lunga sequenza di menzogne raccontate da mediocri burocrati; che non esistono letterature nazionali; che la comunione degli esseri umani per mezzo della parola scritta ignora i confini e le epoche. Ho compreso anche che ci si poteva mettere alla ricerca di una raffinata forma di esemplarità. Sa, Genet era ateo, razionalista, un distruttore dei tabù della società borghese. Aveva anche una concezione profondamente egualitaria dell’essere umano. Come ho scritto diverse volte, Genet rifiutava ogni distinzione fondata sul sesso, il colore della pelle, la tradizione religiosa, poiché tutto ciò ai suoi occhi era irrazionale. Non esiste una scienza matematica nera o cristiana né dei cervelli islamici…

Genet era contro ogni imposizione morale. Nelle sue opere, i personaggi sono sempre individui che incarnano valori universalmente condannabili, degli immorali esemplari…

Sì, ma la sua esemplarità, a prima vista negativa, raggiunge, soprattutto negli ultimi anni della sua vita e se la si osserva alla luce del pensiero di un Ibn ‘Arabi, il filosofo e mistico arabo vissuto tra il XII e il XIII secolo, la sua vera dimensione. Ibn ‘Arabi definiva il malâmi come un uomo indifferente a ogni lusinga e che mostrava una condotta riprovevole per meglio occultare le sue virtù nascoste. Nel Maghreb ci sono stati santi popolari che rifiutavano ogni precetto e che si davano al bere e alla sodomia. Provocando le persone perbene, giungevano alla santità. La tomba di Genet – difensore di tutti i paria e i diseredati del mondo –, che si trova nel cimitero spagnolo di Larache, in Marocco, è diventato nel tempo la meta di molti pellegrini marocchini ed europei…
 
È perfettamente nello spirito di una modernità concepita come linfa che circola attraverso l’albero del tempo, avvicinare la cultura araba del Medioevo all’opera di un nesrâni (europeo) del XX secolo. Le somiglianze sono in effetti assai numerose, a tal punto che lei ha descritto questo ideale umano in uno dei suoi romanzi più profetici, Paesaggi dopo la battaglia (1982)…
 
Sì. Per tutti coloro che conoscono un po’ la mia opera, il protagonista di quel romanzo, un tipo eccentrico che sembra incarnare tutti i vizi dell’uomo, è stato creato sul modello di Genet, questo derviscio errante delle lettere che, cito a memoria un brano del romanzo, «rifiuta la vanità, disprezza le regole e le convenzioni… e si compiace delle sue pratiche indegne e spregevoli». Ma, come ho detto, dietro questa facciata nasconde le sue qualità, la sua grazia, il suo amore. Il suo scopo è l’indignazione: le messa a nudo grottesca dell’idiozia del mondo.
 
Il suo esilio liberatore – Parigi, San Diego, Boston, New York, Tangeri, Marrakech – l’ha portata da una parte a scoprire la letteratura mondiale e dall’altra ad andare alle vere radici della cultura spagnola, a definire la sua specificità artistica e letteraria attraverso quella che ha chiamato «occidentalizzazione sfumata». Tutto questo ha prodotto una lunga battaglia contro la storiografia ufficiale del suo paese che le ha procurato una fama di traditore, di antipatriota, addirittura di persona non grata… Da dove viene l’unicità della Spagna?
 
Gli otto secoli della presenza musulmana in Spagna hanno lasciato tracce profonde nella lingua, nella vita, nell’arte e nella letteratura. Sa, il nostro celebre «Olé» e il nostro «Ojalá» vengono dalla parola «Allah». Bisogna anche aggiungere il ruolo straordinario esercitato dagli ebrei che hanno fatto da ponte tra le tre religioni del Libro. Si comprende allora meglio come tale radice semitica, malgrado la sua distruzione sistematica perpetrata dai Re Cattolici in nome dell’uniformità religiosa e della purezza del sangue, abbia segnato le abitudini e il carattere del mio paese. Quel che determina la differenza spagnola è proprio la coesistenza e l’influenza reciproca delle tre radici etnico-religiose. I cristiani di al-Andalus, i mozarabi, commentavano in arabo i testi latini. I musulmani, sudditi dei re di Léon, di Castilla e di Aragona, i mudéjar, costruivano le prime chiese del X e XI secolo sul modello delle moschee. C’è stata anche una letteratura mudéjar, in cui la tradizione latina e l’influenza francese si mescolano alle letterature araba, iraniana e indiana, trasmesse all’Europa grazie all’opera di traduzione dei dotti ebrei della Scuola di Toledo.
 
L’originalità della civiltà spagnola risiede perciò nel fatto che essa è il frutto di un triplice apporto: islamico, cristiano, giudaico. Senza tale fertile coabitazione, aperta, senza barriere linguistiche, la letteratura medievale spagnola non esisterebbe… Questa è la tesi dell’opera più importante del grande storico Américo Castro, España en su historia. Judios, Moros y Cristianos (1948), che ha segnato la sua concezione dell’arte…
 
Américo Castro ha scosso le fragili fondamenta della nostra storia, costruita su miti e tabù: la purezza del sangue, le caste, il classicismo; ha aperto la strada agli studi dell’arte e della letteratura mudéjar; ha sollevato il velo sulla supposta inesistenza di una letteratura erotica; ha dimostrato che le grandi opere letterarie della nostra tradizione erano state scritte dai conversos… Tutti i grandi creatori del XV secolo erano dei convertiti: dei falsi convertiti. Fernando de Rojas, ad esempio, che scrive La Celestina all’età di ventitré anni… il libro più corrosivo della storia della letteratura spagnola. Il primo libro dove la Provvidenza non c’è. Per parlare della Creazione, Celestina impiega queste parole: «Il mondo è una fiera, è un mercato». Esiste soltanto il potere del denaro e il godimento sessuale. Il resto è assente… Di recente si sono scoperti alcuni documenti che mostrano come la famiglia di Fernando de Rojas sia stata giudicata e mandata al rogo dall’Inquisizione.
 
Mentre gli altri storici della nazione continuavano a celebrare le radici greco-latine e cristiane della sua cultura, accetandone al limite un leggero contagio da parte araba e giudaica, Américo Castro rivelò per primo la «matizada occidentalidad» della Spagna. Secondo lui, nessuna cultura nazionale può rinchiudersi in se stessa. La cultura è sempre «mestiza», «meticcia», nutrita e rigenerata dai contatti e dalle influenze universali. È esattamente questo che la rende più libera…
 
È ancora il caso de La Celestina, dove la moralità ufficiale è del tutto trasgredita. I soli personaggi che mostrano una certa autenticità sono le due prostitute. Tutti gli altri sono dei bugiardi: dicono una cosa e ne fanno un’altra. Le due prostitute sono le sole che – alla fine, dopo la morte della protagonista e del suo procacciatore – decidono di vivere insieme… La loro relazione illumina di una luce di speranza tutto il libro. C’è anche il Cancionero de burlas (pubblicato per la prima volta nel 1519 a Valencia). Si tratta di una raccolta di tutta la poesia medievale… Magnifica! Vi è presente una critica feroce della nobiltà. Tutti i pregiudizi antisemiti vengono messi alla berlina! Contiene anche alcune poesie assolutamente erotiche, talvolta perfino pornografiche. In alcuni miei corsi negli Stati Uniti ho ripreso la raccolta in una versione più moderna. Ma tutto questo oggi è sepolto. Nelle università spagnole non se ne parla. C’è un poeta del primo Rinascimento, Jorge Manrique (1440-1479). Ha scritto una quarantina di brevi poesie, Coplas por la muerte de su padre. Le si imparava a memoria in tutte le scuole.
Mi ricordo che durante un seminario ho domandato: «Chi conosce las coplas che Jorge Manrique ha dedicato a sua suocera?».
Nessuno le conosceva. Sono poesie aggressive, oscene, ma molto, molto divertenti. Quel che si deve leggere viene deciso dagli altri. Io mi sono formato a partire da quello che non si doveva leggere… Non è cambiato molto, dopo la morte di Franco. Certo, in Spagna c’è stata una transizione democratica, ma non è ancora avvenuta una transizione culturale.

Juan Goytisolo, Esiliato di qua e di là. La vita postuma del Mostro del Sentier (Mimesis Edizioni, 2021, a cura di Massimo Rizzante, traduzione di Ferdinando Guadalupi)

Mi ricordo un critico spagnolo che, leggendo uno dei suoi romanzi della trilogia (Señas de identidad, 1966; Reinvindicación del conde don Julián, 1970; Juan sin Tierra, 1975), affermava che l’influenza degli scritti di Tel Quel sulla sua opera era molto evidente. Confondeva «la scrittura sperimentale» degli adepti francesi con la sua ricerca originale dei precursori…
 
Certo. Io ho molti più debiti nei confronti di un libro come La lozana andaluza che nei confronti di tutti i romanzi cosiddetti «nuovi» che si sono scritti negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. La lozana è un romanzo in forma di dialogo, pubblicato in Italia, a Venezia, nel 1528 (il libro, a causa del suo sedicente carattere scandaloso, sarà ripubblicato soltanto nel 1969!) da un ebreo convertito, Francisco Delicado. Si tratta di un capolavoro da tutti i punti di vista: linguistico, formale, tematico. La protagonista è una prostituta ebrea che vive ed esercita a Roma all’epoca dei Borgia. Alla fine prende le difese del suo mestiere e proclama che così come i principi elargiscono una pensione al soldato che ha combattutto per la patria, allo stesso modo bisognerebbe attribuire una rendita alle prostitute che hanno dato il loro corpo nel corso della loro intera esistenza allo scopo di rendere più piacevole la vita di società… Quest’opera è di una modernità incomparabile. In ogni capitolo (chiamato mamotreto), l’autore appare come personaggio.
A un certo punto troviamo questa domanda: «È lei l’autore che sta scrivendo su di me?». Ho tenuto il mio primo corso universitario a New York sulla Lozana andaluza. Ricordo che un professore di quella stessa università mi accusò di pornografia. Correva l’anno 1971…
 
Abbiamo parlato delle sue tappe biografiche, dei suoi progenitori che sono suoi contemporanei, delle radici molteplici – arabe, giudaiche – della cultura spagnola ed europea… E se parlassimo ora di qualche romanzo di Goytisolo? Comincerei da Don Julián (1970)…
 
Tutto quel che dovevo dire l’ho probabilmente scritto nel mio saggio “De Don Julián a Makbara: una posible lectura orientalista”, compreso nel mio libro Crónicas sarracinas (1982). Di recente, in occasione della pubblicazione delle mie Obras(In)Completas, ho scritto una lunga introduzione al terzo volume dove ritorno sulla «Trilogia Mendiola», dal nome del protagonista dei tre romanzi, ribatezzato dal mio editore Galaxia Gutenberg Tríptico del mal. La mia arte adulta comincia dalle ultime pagine del primo volume della trilogia, Señas de identidad (1966), ma è con Don Julián che mi assumo la responsabilità di tutto quel che ho scritto. Ho dovuto distruggermi prima di costruire la mia vera opera. Questo romanzo non è, come il titolo potrebbe suggerire, un romanzo storico. Il narratore è un esule della dittatura del Caudillo che da Tangeri guarda la costa spagnola e si identifica con il conte don Julián, il grande traditore e nobile visigoto che, secondo la leggenda, aprì, all’inizio del VIII secolo (711), le porte della Spagna alla conquista musulmana. L’uomo sogna un’altra invasione – culturale e simbolica – del suo paese che tutta la tradizione spagnola aveva sentito come una violazione, una distruzione della sacralità della Spagna. Ma, come ho detto prima, questo è un mito. E contro questo mito, ho voluto opporre un’altra versione della Storia, ho voluto «sodomizzare» il mito che per secoli aveva tradito la molteplicità culturale della Spagna.
 
Quando apre il suo romanzo, il lettore trova immediatamente alcune sorprese: assenza di maiuscole; punteggiatura assai ridotta; costruzione sintattica colma di rotture logiche; citazioni; passaggi dalla prima alla seconda persona; uso incessante dell’elissi… Una struttra linguistica barocca… Qual era il suo scopo?
 
Volevo che Don Julián fosse allo stesso tempo un poema, un romanzo e un saggio. Ma come evitare la prosa poetica che da sempre detestavo? Non amavo gli scrittori puri, castizos. Rifiutavo ogni lettura castratrice del Siglo de Oro. Mi sono inventato allora un genere senza frontiere. Le frontiere escludono le innovazioni. Se si dovessero misurare con il compasso i confini del romanzo, si sarebbe costretti a cancellare dalla sua storia l’opera di Joyce, Céline, Guimãres Rosa. Quel che volevo, inoltre, era unire prosa e poesia creando una prosodia che ha bisogno di un orecchio molto fine per essere captata.
 
Durante questo lavoro ha apportato dei cambiamenti importanti?

Nel Don Julián non ho toccato nulla. La rilettura di Señas de identidad è stata piuttosto gradevole. Ho conservato tutto: la narrazione alla seconda persona, la rottura della linearità temporale attraverso l’alternarsi delle storie, quella varietà linguistica piena di parole straniere che è caratteristica del personaggio protagonista che, dopo dieci anni di emigrazione in Francia, si rende conto, una volta ritornato in patria, di non riconoscere più nulla. Nel Juan sin Tierra, invece, ho tolto una settantina di pagine, in particolare ho ridotto il terzo e il sesto capitolo. C’era troppa teoria. Il libro ora è molto più leggero di prima. Tenta di mettersi sulle tracce dei Canti di Maldoror: la trasgressione per la trasgressione. Il tradimento più radicale di ogni buen decir. La voce del Male.
 
Ritorniamo alla sua opera. Negli anni Ottanta pubblica tre romanzi: Makbara (1980), Paesaggi dopo la battaglia (1982) e Las virtudes del pájaro solitario (1988). In Makbara e in Las virtudes del pájaro solitario, come in altri romanzi, ma in modo ancora più potente, la prosodia, il ritmo, la dimensione auditiva della prosa hanno un’importanza essenziale…

 
Makbara è stato scritto dopo la morte di Franco. Nel 1976 sono andato a Marrakech. È stato allora che ho voluto imparare, una volte per tutte, la darija, la variante araba che si parla in Marocco. L’ho imparata ascoltando i jongleurs di Piazza Jemaa el Fna o passeggiando, come sempre, per la città. L’altra fonte del romanzo è stata l’opera di Juan Ruiz. L’idea era di leggerne alcuni frammenti ad alta voce, alla maniera dei narratori popolari. Ma c’era anche la volontà di mettere sulla pagina lo spazio cangiante e caotico della Piazza, tutto quello che tale spazio generava continuamente: i suoi corpi, le sue voci, i suoi colori… Nessuno lo aveva fatto. Ho provato a impiegare i diversi livelli della lingua spagnola in un continuum poetico. Ho recuperato molte parole che erano state espulse all’epoca dei Re Cattolici. La parola macabro, ad esempio, scomparsa per secoli, era emersa in Spagna di nuovo, attraverso il francese, alla fine del XIX: la danse macabre. Ma si trattava di una parola araba: maqbara significa «cimitero». Il cimitero dei musulmani, nel Medioevo, si chiamava El Macabro. La scoperta di parole nuove avviene sempre attraverso il recupero di quelle antiche…
 
Se il modello di Makbara è Juan Ruiz, in Las virtudes del pájaro solitario, è l’opera di San Juan de la Cruz che ispira il romanzo. Anche qui l’ordine logico spaziale e temporale è annullato. Il lettore è costretto, grazie soprattutto al sistema di punteggiatura, a calarsi nel romanzo come se fosse sempre alla frontiera tra la realtà, il sogno e l’estasi: una frontiera sempre labile, in movimento, capricciosa…
 
ll sistema dei due punti, che ho seguito nel Don Julián, in Juan sin Tierra, e in Las virtudes del pájaro solitario non è un capriccio. Non potevo costruire questi romanzi se non così. La prima frase, attraverso l’uso dei due punti, si connette alla seconda, la seconda alla terza… Ma la terza, a volte, può non essere in relazione con la prima. Così facendo il ritmo è rotto. Non si tratta di un atto arbitrario, ma la sola possibilità di far circolare il senso in modo ininterrotto. Tutti e tre i romanzi richiedono questo tipo di «musicalizzazione» della prosa romanzesca.
 
Paesaggi dopo la battaglia ha come modello Flaubert, che a sua volta, non bisogna dimenticarlo, aveva come modello Cervantes: «Sto rileggendo il Don Chisciotte. Che libro impareggiabile! Ce ne sono di più belli? (lettera a George Sand del 1869). Il protagonista del romanzo vive a Parigi, nel Sentier, in un monolocale. Comunica per iscritto con sua moglie, che abita di fronte a casa sua; è un uomo solitario, obeso, misantropo, voyeur, un po’ pedofilo: «un mostro» ben educato; cerca delle relazioni attraverso alcuni annunci pornografici; invia lettere all’opinione pubblica e altri messaggi minacciosi che attribuisce a un gruppo terrorista sconosciuto. Ma soprattutto è qualcuno che, mescolandosi agli «umili iloti della defunta espansione economica» occidentale, «mina le basi» – per riprendere l’epigrafe del libro tratta da Bouvard et Pécuchet – della società. Quale società? Questa società europea che non si accorge di non essere più la stessa? Che ha paura di essere contagiata da malattie esotiche, di diventare per sempre un suk?
 
A trent’anni dall’uscita del libro, la mia visione dello spazio urbano mi sembra encora più attuale di allora. I beurs et i blacks incendiano le auto; gli xenofobi e i fondamentalisti islamici si affrontano a colpi di pistola; i gruppi di estrema destra inneggiano al ritorno dei Borboni e distruggono le case già in rovina degli emigrati africani; bande di terroristi pianificano attentati in nome di popoli in via di estinzione; gli scioperanti, disperati, si danno fuoco come bonzi nelle piazze o davanti alle chiese. La schiuma degli esclusi della terra sale alla superficie per rivendicare la loro condizione di rifiuti umani…
 
Il «mostro» del Sentier aveva previsto la Parigi dell’autunno del 2005! «L’Africa ha inizio nei boulevard», troviamo nel romanzo. Eppure il fatto che Parigi si «terzomondizzi», come lei dice, non la rende meno attraente. Al contrario, ciò si rivela un antidoto alla turistocrazia, le conferisce i tratti di una «metropoli bastarda», di uno spazio germinale di coabitazione delle culture e delle etnie refrattario a ogni sciovinismo…
 
Certo. In un saggio su Parigi, scrivevo qualche tempo fa: «Di colpo, la visione etnocentrica delle cose, noiosa e meschina, si decompone; i valori rispettati si relativizzano, pregiudizi e sospetti perdono la loro importanza. La Parigi monumentale e oleografica – l’Arco di Trionfo, Il Milite Ignoto – viene lasciata alla grande borghesia, agli alti funzionari pubblici, ai ricchi pensionati, alle vedove di guerra. Nell’altra Parigi – quella davvero che vive – gli hamam e le drogherie di cuscus spuntano come funghi. Tamburi africani, liuti berberi, strumenti indo-americani risuonano nei corridoi della metropolitana…»

Alla fine del suo ultimo romanzo, El exiliado de aquí y allá (2008), dove il «mostro» del Sentier di Paesaggi dopo la battaglia ritorna dall’Aldilà della morte (che nel romanzo è definito «Aldiquà»), che si è trasformato nel frattempo in un immenso parco cibernetico, per scoprire tutto il grottesco della nostra società dei diritti dell’uomo afflitta dal dovere sessuale e sottomessa al principio del terrore, trova la pace soltanto in un limbo lontano dalla vita e dalla morte: «Non attendeva nulla da questo mondo, né dall’altro. Li conosce entrambi e preferisce il limbo dove può rimanere per sempre in uno stato nebuloso di calma e distrazione». Nel Limbo di Dante risiedono le anime che non hanno ricevuto il battesimo, tra le quali ci sono tutti insieme: Abramo, Omero, Virgilio, i filosofi greci e quelli arabi… Il Limbo è il luogo più vicino al grande contesto degli incontri molteplici dove tutte le radici culturali si incontrano… Forse per questo è il primo cerchio dell’Inferno…
 

Dante, in esilio per quasi tutta la sua vita, ha posto nel Limbo, questa patria di tutti gli esuli, molti grandi spiriti. Castigliano in Catalogna, amante della Francia in Spagna, spagnolo in Francia, latino negli Stati Uniti, nesraní in Marocco e moro in ogni luogo, mi sono trasformato in una rara specie di scrittore senza mandato, estraneo a ogni fede, a ogni gruppo, a ogni categoria, a ogni sistema politico. Sono spagnolo? No. Non condivido i valori del paese in cui sono nato. Sono europeo? I miei romanzi sono ambientati a Tangeri, Fez, Istanbul, Marrakech. E se Parigi è stata la città delle deambulazioni di uno dei miei personaggi, vi si ritrovano pochissimi parigini o europei. Lo scrittore oggi dovrebbe prendere atto che la letteratura non può essere né nazionale né europea. L’Europa, concepita come un club riservato unicamente ai paesi ricchi, è agli antipodi dell’ecumenismo e della convivialità che hanno dato vita al suo albero. Che cosa può fare allora uno scrittore che vede le radici di quest’albero trasformarsi in un bene di consumo? Il suo gesto può aiutare il suo prossimo che gli tende la mano? No. Non può che radicalizzare il suo gesto, ritornare ancora una volta alle origini. Artaud, a questo proposito, ha detto l’essenziale: «La cosa più urgente da fare non è tanto difendere la cultura la cui esistenza non ha mai salvato un uomo dall’angoscia di vivere o dalla fame, quanto estrarre da ciò che chiamiamo cultura alcune idee la cui forza vitale sia pari a quella della fame».



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