Delocazione e temporalità

Nuove opportunità, vecchie (e cattive) abitudini. La rivoluzione digitale e la conseguente dematerializzazione del lavoro hanno scandito nuove forme di sfruttamento degli individui, vittime e nel contempo alleati dei loro sfruttatori.
Allo stesso modo, la maggior accessibilità ai mezzi di produzione digitale e la liberazione dall’orario canonico, due dei capisaldi che hanno caratterizzato il sogno di emancipazione dal lavoro, hanno invece contribuito alla creazione di orizzonti ben lontani dalle aspettative iniziali.
Su Scenari, pubblichiamo un estratto del saggio di Vincenzo Estremo
Teoria del lavoro reputazionale (Milieu Edizioni, 2020).

Nel 1966 Martin Heidegger, commentando il tentativo dell’uomo di conquistare lo spazio, manifestava il suo turbamento per il pericolo dell’efficienza della tecnica: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge oltre verso un ulteriore funzionare, […] lo sradicamento dell’uomo è già cosa fatta”.[1]
La lunga lezione di Heidegger sulla tecnica ha reso più chiaro il motivo per cui a un modernismo utopico sia subentrato uno di tipo funzionale e come questo processo stia trovando il suo apice – almeno per ora – nella rivoluzione digitale. La dematerializzazione porta con sé nuove professionalità e nuova temporalità del lavoro pur mantenendo nello sfruttamento una vecchia costante premoderna. Oggi allo sfruttamento usurante delle forme di lavoro salariale, si aggiunge lo sfruttamento di un lavoro intellettuale, immateriale, emotivo, disfunzionale, frazionato etc.
Uno sfruttamento che se imposto in maniera sistemica trova proprio negli stessi lavoratori degli alleati inaspettati. Una massa (non una classe) di persone che non si conosce o che, pur conoscendosi, non ha possibilità di organizzare la propria agenda politica intorno a necessità e desideri comuni. Un insieme o meglio una moltitudine, in cui si annullano le partizioni del bios con la dissoluzione dei confini tra pura attività intellettuale, azione politica e lavoro.[2]
Una condizione in cui l’azione del lavoro assorbe in maniera distopica gli aspetti del politico inteso quale complesso di attività dell’uomo in relazione con gli altri e che ha nel cosiddetto cognitariato[3] una sorta di emblema dei tempi. Secondo Franco Berardi (Bifo) il cognitariato può essere descritto come quel proletariato apolide che lavora indipendentemente e a progetti sempre temporanei con un conseguente alto grado di precarietà. Una classe indefinibile, all’interno della quale converge l’insieme dei lavoratori cognitivi, artisti, curatori, ricercatori, pensatori e artefici, che alimentano il cosiddetto sistema dell’arte e delle industrie creative.

L’identità e le condizioni di questi lavoratori sono determinate da due fattori principali, la temporalità afasica e la distribuzione e l’accesso capillare agli strumenti della tecnica.[4] Come spesso ci capiterà di vedere nel corso di questa analisi i fattori che furono capisaldi del sogno dell’emancipazione dal lavoro spesso subiscono, in una logica appropriativa e devalorizzante, un’inversione di intenti.
È questo il caso della diffusione degli strumenti di produzione, come l’accesso ai personal computer e agli altri congegni di lavoro. Il singolo possesso degli strumenti, non più macchine da scrivere marcate come quelle del padre adottivo di Antoine Doinel, capovolgono quello che era stato l’obbiettivo della prassi marxista-leninista, ovvero la lotta per l’acquisizione proletaria dei mezzi di produzione. La riproposizione in chiave capitalista della diffusione degli strumenti di produzione si innesca in un complesso sistema di sfruttamento in cui un insieme di lavoratori deboli e molto esposti al ricatto capitalista, sono spinti a lavorare al di fuori dei capisaldi di ogni tutela collettiva. Il possesso dei mezzi di produzione risponde all’ennesimo ricatto del capitalismo avanzato, alla proprietà, infatti, si associano nuove limitazioni d’uso. Non più il marchio delle macchine da scrivere del signor Doinel, ma il pieno possesso piccolo-borghese degli strumenti di lavoro limitati nelle funzioni e limitanti nell’agency del lavoratore. Possedere i mezzi di produzione digitale significa accettare limitazioni alle facoltà d’uso di questi mezzi la cui proprietà è tutto fuorché esclusiva. La legittimità di questi limiti sta nel fatto che a tutti gli utilizzatori, nell’ambito della loro autonomia contrattuale, vengono imposti dei vincoli che rendono l’azione dei lavoratori pressoché sterile. L’accessibilità ai mezzi di produzione digitale mescolata all’auto-determinazione del tempo di lavoro, produce un grado massimo di sfruttamento, in una sorta di arbitraria applicazione del Marx analitico a fini capitalistici e liberali.[5]

Una grande contraddizione che si manifesta in una curiosa inversione della prospettiva marxista sulla creazione di valore, in cui il tempo espanso del lavoro della classe del cognitariato entra in una relazione di potere tra il sapiente, il mercante e il guerriero.[6]
Ecco quindi che la flessibilità in forma di ri-temporalizzazione e delocalizzazione del lavoro, è uno strumento di modificazione delle strutture produttive, voluta e promossa da politici riformisti eredi diretti di Marx di cui abiurano le tesi in nome di libertà solo nominali.
Nelle teorie neoliberal l’applicazione della flessibilità è l’unica normativa possibile o meglio il ricatto ai sapienti – stando alla definizione di Franco Berardi (Bifo) – da parte di politici e imprenditori, al fine di mantenere un alto grado di competitività all’interno dell’economia globale. I tempi della flessibilità spostano i costi e le responsabilità del rapporto di lavoro sui lavoratori stessi attraverso pratiche di alienazione del processo produttivo messe in atto da chi invece il lavoro lo somministra.
A questa logica fa eco una serie di fenomenologie del lavoro che trovano nella delocalizzazione, nella mobilità e nella temporalità afasica una ristrutturazione del concetto di lavoro stesso.

Vincenzo Estremo, Teoria del lavoro reputazionale (Milieu Edizioni, 2020)

Delle evidenze che mostrando le possibilità concrete per i lavoratori di essere produttivi in più luoghi, manifestano una più ampia dinamica di dematerializzazione del lavoro, nonché una politica sintomatica di libertà e disciplina. Questa condizione di continuo accesso al lavoro, resa possibile dall’affermazione sociale e ideologica della tecnologia, si è trasformata da possibilità a scelta concreta. Un fenomeno che vede la diminuzione dell’importanza dei luoghi – in una prospettiva globalizzante – e la conseguente avidità o illimitatezza del lavoro.[7]
La mobilità spaziale e l’informalità temporale del lavoro interessano lavoratori e lavoratrici, il cui tasso di sfruttamento risulta essere fuori dal visibile perché fuori dalle norme e dagli istituti della contrattualistica convenzionale. Una tipologia di lavoro mobile o smart (chiamato in origine telelavoro) sintomatico delle trasformazioni su larga scala di fattori sociali, temporali, spaziali e mediatici, in cui la mobilità e la temporalità asimmetrica mostrano quanto la tecnologia rappresenti un finto fattore emancipatorio. Qualcosa in grado di contribuire alla costruzione di un futuro immaginario in cui la liberazione del lavoro e dei lavoratori da uno spazio e da un tempo predefinito contribuisce a contrastare l’alienazione stessa da lavoro.
Eppure io credo all’opposto contrario, ovvero che il falso mito del progresso continui ad albergare proprio nella presunzione di libertà. Ecco allora che ritorna quanto detto in precedenza, il possesso dei mezzi tecnici di produzione alimenta il mito di un lavoratore libero, scevro da qualsiasi vassallaggio o dipendenza da corporation o simili, in grado ovunque e in qualsiasi momento di essere produttivo e di diventare un potente simbolo del nuovo. Questa figura finisce per incarnare le potenzialità macro-sociali risultanti dalla compressione dello spazio-tempo in cui la comunicazione istantanea annienta l’importanza della distanza geografica.
L’abbattimento dello spazio e l’annullamento dei cicli del tempo espandono una temporalità che in realtà, nell’esecuzione e nella produzione effettiva, deve essere sincopata, ridotta ai minimi termini, annullata. Qualcosa di invisibile, che prende il via con l’ideologizzazione post-thatcheriana del New Labour, un ideologia in cui l’ordine capitalistico diventa spettacolare e in cui alla prospettiva delle lotte ai dockers di Liverpool o alle battaglie con i minatori come a Orgreaves,[8] si sostituirà l’immagine giocosa e stupida delle Spice Girls e del Cool Britannia. Un’avanguardia post-ideologica o di nuova ideologia,[9] fatta di giovani calciatori estremamente ricchi, di relazioni sentimentali divulgate su giornali scandalistici, dell’Union Jack appiccicata maldestramente su vestiti scollati o su chitarre da migliaia di sterline che suonano per cause umanitarie immediatamente televisizzate. Un potere senza dignità e senza corpo che si fa modello sociale e che detta le linee del lavoro.


[1] La dichiarazione venne rilasciata originariamente al settimanale tedesco “Der Spiegel” il 23 settembre 1966 dopo il lancio dello Sputnik. Martin Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2005.

[2] Paolo Virno, Grammatica della Moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Derive Approdi, Roma, 2014, p. 38.

[3] Il termine è il frutto dell’adattamento del sostantivo inglese cognitariat, a sua volta composto dall’aggettivo cognit(ive), cognitivo, della conoscenza, e dal sostantivo (prolet)ariat, proletariato.

[4] Infatti: “Se vogliamo usare le parole del Novecento, il trionfo della moltitudine pone al neoproletariato della diaspora, ai creativi messi al lavoro nella società dello spettacolo, del General Intellect, alla neoborghesia apolide dei flussi il grande tema della coscienza di sé. Senza coscienza di sé, infatti, il proletariato non si fa classe, i padroni non si fanno borghesia, si sarebbe detto un tempo, e i creativi messi al lavoro stanno in mezzo nel loro essere cognitariato (Franco Berardi – Bifo) più che essere classe creativa (Richard Florida)”. Aldo Bonomi, La piccola transizione italiana, in “Sole 24 Ore”, 31 ottobre 2010, p. 31.

[5] Eric J. Hobsbawm, Il Secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995.

[6] Franco Berardi, Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all’emergere del cognitariato. DeriveApprodi, Roma, 2004.

[7] Henri Lefebvre, La produzione dello spazio, Pgreco, Roma, 2018.

[8] Della battaglia di Orgreaves ci si occuperà approfonditamente più avanti.

[9] In questo caso il concetto di ideologia è quello teorizzato da Slavoj Žižek nel film, The pervert’s guide to ideology (2012) e in Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie, Milano, 2014.



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