Cosa si traccia
Per attingere le radici dello scandalo forse non bisogna andare a fondo ma seguire la superficie.
Se scomponiamo fotograficamente il movimento di un bocciolo che diviene fiore e poi frutto, ci ritroviamo con tre istantanee tra loro contraddittorie. Eppure la vita della pianta si svolge tranquillamente, senza problemi, ignara delle fotografie e delle loro contraddizioni. Allo stesso modo, se facciamo a pezzi quel dispositivo costituito dalla legge e dal desiderio, ad esempio scomponendolo in soggetto-velo-oggetto, e li isoliamo uno dall’altro, notiamo che sono tutti contraddittori, anzitutto con se stessi. È ambivalente il velo, è ambivalente il soggetto che si rapporta al velo, è ambivalente l’oggetto del desiderio al di là del velo. Ciascuno dei tre è infatti qualcosa ma anche, contemporaneamente, la mancanza di qualcosa. E se questa loro ambivalenza fosse solo l’effetto di una serie di scatti fotografici in cui la loro dinamica viene scomposta?
Partiamo dal velo. Come già osservato, esso proibisce ciò che è al di là coprendolo e, contemporaneamente, strizza l’occhio perché lo si scopra. Più che un accesso sbarrato, pare un tornello o una porta girevole che tiene il passaggio chiuso nello stesso modo in cui lo tiene aperto. Oppure ricorda, per tornare al teatro, quelle pesanti tende rosse all’ingresso in sala, non diverse dal sipario, che coprono la vista ma permettono il passaggio. Il velo sarebbe dunque qualcosa ma anche la mancanza di qualcosa: manca, per così dire, qualcosa che lo saldi stabilmente a terra, che otturi il transito di chi furtivamente intende varcare la soglia.
Questa ambiguità, però, appare solo a bocce ferme, quando il velo e la legge sono già stabiliti. Prima o dopo quello stato di eccezione in cui la soglia viene varcata e la legge violata e subito ripristinata; prima o dopo l’istante in cui il velo è effettivamente sollevato e riposto. O la tenda scansata. Ma ci sono davvero quell’istante, quel prima e quel dopo?
L’ambiguità appare solo in un fermo immagine. È la cartolina di un paesaggio urbano in cui regna la calma e che mostra la legge e il velo pienamente istituiti, come una torre civica e un campanile, statici e compiuti, seppur con qualche buco, seppure un po’ sbilenchi, a dominare il panorama cittadino. Come se la legge e il velo, queste immancabili istituzioni, non fossero sempre in fase di costruzione, decadimento, restaurazione, ricostruzione. Come se la città e i suoi palazzi simbolici, immobili in cartolina, non fossero un perenne cantiere (prima quella chiesa era una basilica romana, domani quella torre civica diverrà la sede di un museo, ecc.). Come se quello stato di eccezione fosse davvero un’eccezione, un istante evanescente, e non un evento sempre in corso. Dunque, ciò che nella statica di una cartolina si dà a vedere come una mancanza o un buco interno alla legge – un mattone del campanile assente, un intonaco della torre scrostato da sistemare, un pinnacolo ancora da aggiungere – non è che il movimento con cui la legge stessa si istituisce e non finisce mai di istituirsi. Ciò che nella fotografia appare come un’insufficiente consistenza del velo, o una sua conformazione un po’ sbilenca, o una sua scarsa aderenza al suolo che lascerebbe il varco socchiuso, non è che il movimento con cui il velo stesso prende consistenza e si erige assieme al varco. La mancanza, la casella vuota, non è altro che movimento: il transito della soglia che inaugura il velo, sempre in corso di inaugurazione, il traffico sulla soglia che rinnova la legge, sempre in corso di rinnovamento.
Come per la vita della pianta fotografata, l’ambivalenza scompare se si guarda nella sua interezza la dinamica del velo, continuamente istituito e trasgredito, anziché suddividerla in pezzi tenuti poi fermi in pose innaturali. Scompare qualora si pensi il velo non come una cosa – un oggetto che dovrebbe stare saldo a terra e risulta invece malfermo: dunque qualcosa più la mancanza di qualcosa – bensì come un evento o un processo ininterrottamente all’opera. Il velo si traccia e non finisce mai di tracciarsi e questa operazione avviene assieme a ciò che essa stessa vela o svela. Sicché, quanto è al di là del velo è anch’esso sempre in movimento, è esso stesso un movimento, è la dinamica dell’istituirsi come velato o svelato: piuttosto che un «al di là» del velo, ne è un prolungamento, una piega nella stessa stoffa. Seguiamone la superficie. Spostiamoci allora in questo supposto al di là: dietro il velo c’è qualcosa, l’oggetto del desiderio e della pulsione sessuale, o non c’è niente? Anche qui, come già osservato, un misto di entrambi. Si desidera un corpo, si desidera un seno, si desidera un piede; ma è anche vero che non si desidera soltanto un corpo, soltanto un seno, soltanto un piede. Il velo cela certamente l’oggetto ma anche il nulla – la mancanza, il buco, il vuoto – che sempre lo accompagna. Di nuovo l’ambivalenza. Inevitabile, se si vuole tenere fermo il tutto in una rappresentazione, in uno schema, come nell’immagine qui sotto.
In una delle lezioni dedicate all’argomento, tracciando alla lavagna lo «schema del velo», Lacan disegna un puntino per il soggetto del desiderio, poi una barra per il velo e, al di là di essa, due puntini – «Oggetto» e «Niente» – collegati tra loro da un tratto orizzontale come se fossero una cosa sola (Lacan 1994, p. 154). Siamo nel Seminario IV, poco oltre la metà degli anni ‘50: Lacan non ha ancora elaborato l’oggetto a, in cui quel qualcosa e quel nulla verranno fusi insieme, per cui, ponendoli come separati, deve ricorrere graficamente a un tratto per unirli.
I Greci ci hanno consegnato un fulgido esempio per pensare questo tratto, composto da qualcosa e dalla mancanza di qualcosa, questo oggetto+nulla, o oggetto orlato di nulla: la «tessera di ospitalità», il frammento di una coppa che due ospiti spezzavano trasmettendo poi le parti ai figli perché potessero un giorno rinnovare il rapporto di ospitalità riunendo i cocci. Il nome greco è symbolon, da cui la celebre immagine del simbolo come tessera spezzata. Si potrebbe dire che l’oggetto del desiderio sia proprio fatto così, come il frammento di una coppa da condividere, e che l’uomo desideri sempre simboli e mai semplici cose, ospitalità e riconoscimento e non un mero coccio. Ora, la tessera di ospitalità, come ogni simbolo, è ambivalente (un po’ qualcosa, un po’ mancanza di qualcosa) finché la si tiene ferma; ma funziona benissimo, senza ambiguità alcuna, quando è in movimento, ogni volta che passa da una mano all’altra per rinnovare l’ospitalità. La sua mancanza non è altro che il suo itinerario, la dinamica attraverso cui la coppa è spezzata e successivamente ricomposta.
Il medesimo potrebbe dirsi, in Lacan, per l’oggetto del desiderio e della pulsione sessuale, l’oggetto a che dovremmo collocare al di là del velo. È ambivalente agli occhi del sapere, al cui cospetto si presenta da una parte come un oggetto specifico (lo sguardo, la voce, il seno, le feci, il fallo, secondo la celebre serie) e dall’altra come il vuoto (Lacan 1973 p. 192). O, per dirla in termini filosofici, come oggetto empirico e come oggetto trascendentale. Ma non presenta alcuna ambiguità quando entra in funzione, ad esempio quando è preso di mira dalla pulsione, essendo perfettamente integrato con essa in un circuito che ha nel vuoto il proprio motore: la pulsione gira attorno a questo vuoto centrale e si soddisfa così (ivi, p. 173). Contrariamente al sapere, che potrebbe lamentare l’ambiguità di oggetto+nulla, non vedendo di buon occhio il nulla, o non vedendolo affatto, la pulsione non ha nulla di che lagnarsi, ossia non ha di che lagnarsi del nulla, senza cui non potrebbe compiere con soddisfazione il proprio giro sulla giostra. Andate a raccontarle che l’oggetto è ambivalente, sorriderà lasciando intendere che non ne sa niente. Se ciò che è al di là del velo appare ambivalente è perché non si tratta di un oggetto ma di un evento. Si desidera il coccio di una coppa in quanto rinvia ad altro, così come si desiderano un corpo, un seno, un piede in quanto rinviano ad altro: questo rinvio non è una cosa ma un concatenamento, il tracciarsi di una dinamica. L’oggetto del desiderio è cioè un accadere sempre in corso: un ininterrotto passaggio di mano, un giro sulla giostra, un tragitto che il sapere può solo limitarsi a fotografare scomponendolo in istantanee. Non si desidera mai una semplice cosa: desiderare significa tracciare concatenamenti (Deleuze 2004). Non è un caso se nel Seminario IV Lacan disegna in questo al di là un tratto, quello che poi diverrà l’oggetto a. È semmai un sintomo, o un presentimento. Perché, a ben guardare, il futuro oggetto a presenta proprio le caratteristiche del tratto (Di Ciaccia 2012), o meglio dell’evento di un tratto (Leoni 2019). Non cioè un tratto già fatto e compiuto che unisce i puntini «Oggetto» e «Niente», ma il tracciarsi di un tratto in cui ogni punto è il delinearsi progressivo di un oggetto e di un niente, di un oggetto che prende consistenza stagliandosi sul nulla dello sfondo e di un nulla che si nientifica retrocedendo come sfondo. Nessuna ambivalenza, il gesto del tracciare è esattamente così, è proprio questo evento: è il costituirsi reciproco di una figura e di uno sfondo, di una presenza e di un’assenza, di un pieno e di un vuoto, che appaiono tali retrospettivamente solo a gesto compiuto, una volta staccato il gesso dalla lavagna. Non è un caso se Lacan disegna su di essa un tratto: non perché al di là del velo vi sia quel tratto orizzontale, ma perché vi è proprio il gesto con cui lo si traccia.
La vera questione del sesso e del velo che sempre lo accompagna, allora, non è cosa c’è sotto e nemmeno cosa non c’è sotto, ma cosa si traccia. Lo «schema del velo» andrebbe cioè guardato non come una fotografia della lavagna di Lacan a lezione conclusa, ma come un filmato in presa diretta in cui si tracciano segni sulla lavagna, in cui i tratti sono nel corso di essere disegnati, in cui il tratto verticale del velo e il tratto orizzontale del suo al di là si delineano nella continuità di un unico gesto. Un’unica stoffa si piega tracciando il velo e l’al di là del velo. Continuiamo a seguirne la superficie.
La stoffa si prolunga naturalmente anche al di qua del velo. Il soggetto, che nello schema è lì collocato come un puntino, ne è un’ulteriore piega. Esiste infatti da qualche parte un soggetto fatto e finito? Nel caso, sarebbe morto. Anche il soggetto non è una cosa ma un evento sempre in corso, sempre indaffarato a trafficare con la legge, a erigere torri civiche e campanili, a passarsi oggetti di mano in mano, a girare sulla giostra. Sempre in via di tracciarsi assieme al velo, al desiderio e all’oggetto del desiderio. I quali non promanano da lui più di quanto egli non promani da loro.
Anche il soggetto appare ambivalente quando lo si tiene innaturalmente fermo: sembra composto da qualcosa e dalla mancanza di qualcosa, motivo per cui Lacan lo scrive sovente con una S barrata ($). Ma l’ambivalenza viene meno se si coglie il soggetto nel suo divenire dinamico, come un vivente che respira e non come un’immagine immortalata in una fotografia. Ovvero, come l’evento di una traccia, quella stessa traccia che disegna il velo e ciò che è al di là del velo, quel tratto in via di configurazione che in ogni punto sfuma nel vuoto stagliando un pieno e ricompone il pieno generando un vuoto. Soggetto e oggetto del desiderio sono un’unica traccia che respira. In questa prospettiva non vi sono pieni e vuoti definiti; tutt’al più si direbbero in corso di definizione, se quel corso avesse un punto di arresto; ma non c’è punto di arresto, se non quando il soggetto è ormai morto, quindi non c’è ambivalenza. C’è piuttosto un ritmo, una frequenza respiratoria, che non ha un preciso punto di partenza: non ha origine né nel soggetto, né nell’oggetto, né nel velo, essendo queste le pieghe di un’unica stoffa che traspira, le configurazioni momentanee di un unico tracciare, i tessuti sempre in via di rinnovamento di un unico grande polmone. Più che un polmone, un evento polmonare. Lo «schema del velo» va rianimato e visto respirare.
Dunque, soggetto, velo e oggetto paiono tutti e tre fatti di qualcosa e della mancanza di qualcosa solo se tenuti separati e innaturalmente fermi. Ma quest’ambiguità si scioglie se si guarda al loro tracciarsi come a un’unica dinamica complessiva, quella dinamica vivente e transitoria cui diamo nome eros: desiderio e pulsione sessuale. Il dispositivo soggetto-velo-oggetto è cioè un solo processo ritmico: non una somma di parti, né un tutto in un’unità fusionale, ma un movimento i cui effetti – soggetto, velo, oggetto – vengono in luce simultaneamente, in un lampo, senza mai smettere di cangiare e di pulsare. Se lo si intende come un unico evento sempre in corso, anziché suddividerlo in pezzi isolati e irrigiditi come cadaveri – ciò che fa il sapere scattando singole foto – si inizia a intuire perché il sesso esibito, fotografato dall’occhio pubblico, desta scandalo. È lo stesso scandalo che solleverebbe un corpo morto abbandonato sulla pubblica piazza, per cui si stende un velo pietoso.
Leggi la prima parte Perché il sesso fa scandalo? Cosa c’è (o non c’è) sotto.