La notizia delle foto in pose queer dei Bronzi di Riace realizzate dall’artista Gerald Bruneau, che li ha agghindati al Museo di Reggio Calabria con un boa e dei veli, ha trovato spazio la scorsa estate non solo sui quotidiani calabresi, ma anche sui media italiani e internazionali. Facendo fare il giro del mondo agli scatti dell’allievo di Warhol e – nuovamente – ai guerrieri di bronzo del V secolo a.C., rinvenuti nel 1972 a 300 metri dalle coste di Riace. Come fatto locale, interno a quella particolare area d’Italia che è la Calabria, e in particolare alla provincia di Reggio, il gesto iconoclasta è interessante soprattutto per delle reazioni di indignazione e condanna che hanno rasentato il fondamentalismo religioso. La polemica sui Bronzi queer è un caso prezioso per comprendere come molti reggini – dai cittadini agli esponenti delle istituzioni – siano attaccati a questi simboli della propria città come a dei feticci più che come a delle opere d’arte. Il Bruneau-gate ha messo a nudo quanto il bene culturale dell’antichità, nel Bel Paese, sia e resti un importante topos – storico, concettuale e culturale – di discorso politico e ideologico sul presente.
I fatti sono noti. Nel gennaio 2014 i due capolavori statuari erano tornati al Museo Archeologico di Reggio Calabria da appena un mese, dopo un soggiorno di più di tre anni presso il Consiglio Regionale a causa dei lavori di ristrutturazione del Museo (tuttora chiuso, ad eccezione della sala dei Bronzi). Nel corso di un incontro con alcuni artisti contemporanei, organizzato dal Museo stesso, Gerald Bruneau aveva colto l’occasione per agghindare i guerrieri con un velo da sposa, un tanga leopardato, un boa fucsia e un mazzo di fiori. Trasformati in icone queer, li aveva poi immortalati nelle pose incriminate nelle foto che sono state divulgate a luglio dal sito Dagospia.
Bruneau aveva già avvolto in un tulle rosso la Paolina della Galleria Borghese a Roma, ma il colpo dei Bronzi è di ben altro calibro. Negli ultimi mesi i guerrieri sono tornati agli onori della cronaca e degli approfondimenti dei media (inclusa una puntata speciale di Ulisse condotta da Alberto Angela), e sono ormai i simboli delle speranze di rinascita di una Calabria strangolata per decenni dall’incuria politica e malavitosa verso il suo straordinario patrimonio. In questa chiave è possibile comprendere i motivi emotivi della condanna indignata e unanime di Bruneau da parte della stragrande maggioranza dei giornalisti, dei politici e degli opinionisti chiamati a commentare il fatto su quotidiani, blog, social network e canali televisivi reggini. Lo sgomento generato dall’episodio, però, resta sorprendente. Dalle condanne di un fatto “gravissimo” e barbarico si è arrivati poi a leggere chi incitava la Procura ad aprire un’inchiesta contro Bruneau, condannando scatti “shock e vergognosi” tramite i quali le statue sarebbero state “oltraggiate e deturpate”. I commentatori dei social network ci hanno messo del loro con profluvi di commenti “puristi”, omofobi e forcaioli. Ritengo che una reazione così scomposta e spropositata rispetto alla presunta gravità dell’atto meriti un’analisi che metta a fuoco alcuni punti salienti, alcuni nervi scoperti toccati da Bruneau con la sua operazione.
Le argomentazioni dei “critici” sono piuttosto facili da classificare. In primo luogo, per chi non ha apprezzato le foto, i guerrieri sono deturpati in quanto vestiti “come dei froci”. O quantomeno l’operazione è “kitsch”, è di cattivo gusto. Le foto di Bruneau esibiscono un’estetica queer e camp. E quindi a ben vedere l’indignazione è soprattutto per lesa mascolinità e rivela una cultura dominante non semplicemente provinciale ma anche orgogliosamente omofoba. Per altri, Bruneau è un ciarlatano che vuol farsi pubblicità, o quantomeno un provocatore con uno scarso senso della misura. L’arte di Bruneau, se di arte si può parlare, è brutta, incomprensibile, inutile, o semplicemente non è arte. L’arte vera è quella della cultura classica, e l’imposizione del brutto a questi cimeli nobili – le cui origini inestimabili si legano all’eredità della Magna Grecia, fonte originaria della cultura nazionale e mondiale – non può che rovinare l’immagine delle statue e della Calabria. In questa visione del mondo, l’arte classica è unico ed esclusivo punto di riferimento per il bello e per il giusto.
Da queste argomentazioni è possibile distillare alcuni valori essenziali: la mascolinità va valorizzata e rispettata nella sua forma artistica e “naturale”; la sacralità della vera arte è oggetto di culto e va contrapposta alla pseudo-arte dei degenerati; il rispetto per il passato e per le origini va tutelato di fronte agli orrori della cultura moderna. Ma davvero Bruneau voleva, meschinamente, “aggiungere del bello” alle statue, riuscendo solo ad aggiungervi del brutto? Veramente la “Grecia antica” era un blocco sociale monolitico, in cui tutti erano ugualmente omofobi e in particolare gli artisti? E l’arte greca nasceva davvero come un culto religioso già simile all’adorazione cristiana dei santi, all’intoccabilità dei simboli, alla rimozione della sessualità e al dogma? Infine, quest’arte prorompeva dalla perfezione di un dio-padre che l’aveva fissata così per sempre, piuttosto che essere il frutto dell’arte che la precedeva e circondava?
Lasciando a storici, antropologi, classicisti e filosofi il compito di dibattere questioni così complesse, è facile riconoscere come l’operazione ironica di Bruneau dirottasse i bronzi fuori dalla sala religiosa del museo e li omaggiasse causticamente con i mezzi e i linguaggi della cultura pop. Bruneau inoltre ha, volutamente o meno, messo il dito nella piaga di problemi ancora irrisolti per l’Italia, come quelli delle ideologie di genere, dell’omofobia e transfobia e dei diritti civili. La reazione della maggior parte dei reggini, invece, è stata seria, e ricorda quasi quella che era toccata a Innocence of Muslims, il film su Maometto che aveva scatenato le ire dei fondamentalisti musulmani. Un gesto di omaggio e sovversione artistica è stato letto come una sorta di attentato all’integrità morale della collettività. Più che i valori umanistici, un simile modo di intendere il patrimonio culturale parla di religione popolare. Come il pungolo di metallo rovente nel sangue infetto de La Cosa di John Carpenter, l’operazione di Bruneau ha risvegliato in poche ore un modello isterico e mostruoso di identità che prospera in un’ideologia meschina e gelosa e non fa fatica a invasare folle di avatar, esteti improvvisati, aspiranti storici e agitatori di forconi. I Bronzi sono stati trasformati dalla popolazione reggina quasi in reliquie da esporre stampate nel salotto, come Padre Pio sul comodino e la santa Vergine in Chiesa. Intoccabili come dei testi sacri, questi Bronzi sono diventati dei simboli irrigiditi, chiusi, sterili. Se già in un altro caso una banale pubblicità dei Bronzi girata sotto forma di animazione umoristica era stata criticata aspramente, oggi la loro presunta “deturpazione” è la scusa ideale per esprimere una smania di inviolabilità che ricaccia lontano come minaccioso o fuori luogo tutto ciò che vìola il sacro canone. È questo un presente umanista che utilizza la storia, la cultura, la bellezza del passato per orientare l’esistenza per il benessere collettivo in una società plurale e laica?
È facile capire – se non giustificare – perché molti reggini siano così attaccati alla propria identità da riuscire a sostenere con tale violenza un simile fraintendimento. Il fatto che opere d’arte diventino feticci religiosi è l’esito infelice di decenni di abbandono delle risorse materiali e simboliche calabresi da parte delle istituzioni – e del conseguente investimento affettivo dei cittadini a ciò che tenacemente, ma incoerentemente, cercano di preservare come unicamente proprio. Il passato è una zona politica. Al suo interno non vi vedono tanto il passato stesso, quanto il loro presente. I bronzi definiscono le origini dei calabresi, sono il riscatto finale, la nostalgia dei tempi d’oro rispetto al presente indesiderabile. Tutto ciò potrebbe anche essere romantico, ma diventa svilente quando giornalisti, politici o studiosi arrivano a fomentare la popolazione come patrioti contro i “barbari” della cultura moderna. Ed è deprimente constatare come per le classi dirigenti il patrimonio artistico sia stato sostanzialmente un feticcio identitario da sfruttare in testa alla folla degli inquisitori. I demagoghi del purismo culturale sono la cartina di tornasole del punto di non ritorno in una situazione di profonda arretratezza nel concepire e trattare i beni pubblici o semplicemente vivere il presente nelle sue forme e nei suoi linguaggi. Se l’istigazione a perseguire legalmente Bruneau ha fatto leva sulla più banale ansia di identità, l’incapacità di leggere questa provocazione come tale dimostra l’assenza di una formazione di base nel leggere la civiltà e il mondo in cui viviamo di leader politici, opinionisti e studiosi. In un paese che ha un rapporto pigro e parassitario con il suo patrimonio, e in cui siti e capolavori inestimabili decadono tra la vanagloria nostalgica e gelosa di qualche élite e l’incuria degli spremitori di risorse pubbliche, ritengo sia importante tenere a mente questo caso di rogo mediatico imposto dai vati della purezza. Collettivi artistici come Je suis Gerald Bruneau e iniziative come il Face Festival di Reggio Calabria non sono preposti alla tutela del patrimonio archeologico. Tuttavia, iniziative di questo tipo, che hanno accolto la provocazione di Bruneau, sostengono le arti contemporanee e si battono per il riconoscimento di cause di importanza civile, rappresentano delle cattedrali nel deserto che i rappresentanti della politica non possono non tutelare e sostenere. Solo così facendo potranno salvaguardare quella parte del pubblico reggino non irrimediabilmente invischiato in un feticismo conservatore del passato che rema, in ultima analisi, in direzione contraria all’interesse di tutti a comprenderlo e comunicarlo.
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