Perché il sesso fa scandalo? Prima parte

Cosa c’è (o non c’è) sotto

Perché il sesso fa scandalo? La domanda suppone che sesso e scandalo siano legati in modo strutturale. Può sembrare, oggi, una supposizione controintuitiva: nella nostra società liberale, aperta, permissiva, chi si scandalizza più per cosa? Eppure anche nel nostro mondo, figlio dell’illuminismo, della rivoluzione freudiana, della liberazione sessuale del ’68, permane un residuo di scandalo ineliminabile. Anche la persona più tollerante e permissiva, per quanto aperta, a un certo punto non può che andare a sbattere contro una porta chiusa. Più che una porta, una tenda, che certamente si può anche sollevare, ma proprio il gesto di sollevarla è causa di scandalo. Forse non è neppure una tenda, ma qualcosa di ancor più leggero, eppure persistente: un velo. Quello che da sempre copre la sessualità. C’è una copertura ineliminabile che vige ancora oggi e vige dall’inizio della civiltà umana, diciamo dai tempi di Adamo ed Eva e della celebre foglia di fico. Questo velo è ciò che da sempre copre il sesso, tanto i genitali quanto l’atto sessuale. Per quanto si possa essere aperti e tolleranti, non si va in giro nudi e non si fa sesso in pubblico. Anche perché è vietato dalla legge, in tutto il mondo, dal momento stesso in cui è sorta la legge. È un reato che nell’Italia odierna prende il curioso nome di «atti osceni in luogo pubblico», curioso perché suona come un ossimoro: se infatti tali atti sono «fuori scena» («osceni» da ob-scenum, fuori dalla scena) come possono essere «in scena», sulla scena per antonomasia, ossia «in luogo pubblico»? Il paradosso non è casuale: sesso e legge sono intrecciati tra loro in un nodo difficilissimo da districare. E forse il velo è lì a coprire proprio il paradosso.
Chiedersi le ragioni del velo è un altro modo di chiedersi perché il sesso fa scandalo, quale rapporto lo leghi alla legge. Una spiegazione abbastanza classica, ma non priva di problemi, suppone che il velo celi l’oggetto del desiderio per mantenere l’ordine sociale. Potremmo chiamarla «spiegazione girardiana», non perché esca direttamente dalla penna di René Girard, ma perché la nozione di desiderio mimetico da lui elaborata vi calza a pennello (Girard 1978). Secondo questa spiegazione, l’oggetto del desiderio sarebbe velato onde evitare il conflitto che il desiderio sempre innesca. Se insomma il velo è necessario, se la copertura è ineliminabile, lo è per ragioni «politiche». Ossia, per scongiurare la guerra innescata dalla rivalità mimetica: tutti vogliono la stessa cosa. Sempre quella.

È una spiegazione molto «maschile», nel senso della logica maschile di cui parla Lacan nelle sue formule della sessuazione: la prospettiva del «tutto con l’eccezione». Secondo tale logica – che per certi aspetti è la versione psicoanalitica dello «stato di eccezione» di cui parla la teologia politica – la legge vale per tutti tranne che per chi la istituisce. È quel meccanismo che troviamo in diversi miti fondatori, racconti patriarcali che narrano l’istituzione della civiltà e della legge a partire dalla necessità del velo, salvo sollevarlo nell’atto stesso di istituirlo. Sono le basi della nostra cultura europea, i miti fondanti la civiltà greca e romana, in cui l’oggetto del desiderio, la donna, è causa del conflitto perché contesa da più soggetti maschili. Come nel rapimento di Elena da parte di Paride, causa della guerra di Troia e delle vicende narrate nell’Iliade (i cui primi versi cantano l’ira di Achille per un altro oggetto conteso del desiderio, la schiava Briseide). O come nel ratto delle Sabine, che permette di popolare la città di Roma, appena fortificata da Romolo, garantendole così un prospero futuro. Si vede chiaramente qui come, nell’atto di fondazione, il velo sia tolto e posto con lo stesso gesto.
Se per fondare una civiltà è necessario istituire la legge, l’antropologia insegna che la prima legge di ogni civiltà è la proibizione dell’incesto (Lévi-Strauss 1949), ossia la giusta distribuzione delle donne che, una volta assegnate agli uomini, non dovranno essere violate da altri uomini. Ecco il velo, la proibizione fondamentale: non desiderare la donna d’altri. Ma per fondare una civiltà, come quella di Roma, è anzitutto necessario procurarsi le donne, sottraendole ai popoli vicini, ossia violando il velo che s’intende imporre, trasgredendo quella stessa legge che si vuole istituire e che, proprio così, verrà istituita. Ecco il «tutto con l’eccezione»: la legge vale universalmente per tutti tranne che per coloro che la fondano nel momento stesso in cui la fondano; eccezione che li istituisce effettivamente come «tutti», ovvero li unisce e li identifica in una collettività. Come ben riassume Alenka Zupančič: «Non ci sono più cannibali qui, abbiamo mangiato l’ultimo ieri».
È la stessa logica adottata da Freud quando tenta di spiegare l’origine della legge con il mito del padre dell’orda, che i figli uccidono per sottrargli le donne, violando così la legge con lo stesso gesto con cui la istituiscono. Il padre è tolto di mezzo e immediatamente ripristinato sotto forma totemica col tabù dell’incesto: ed ecco fondata la società, la quale – conclude in modo sinistro il padre della psicoanalisi – «poggia ora sulla correità del delitto perpetrato insieme» (Freud 1912-13, p. 198). Tutto è bene quel che finisce bene, per dirla con l’amara ironia di Shakespeare. E il fantasma di Edipo aleggia nell’aria.
La logica maschile, dunque, collocando all’origine una violenza fondatrice, teme un suo possibile ritorno. Da qui la necessità del velo. E non c’è bisogno di scomodare l’hijab islamico, se una qualche forma di velo (tutt’uno con l’istituzione del tabù dell’incesto, del matrimonio e dell’ordine sociale) è presente in ogni civiltà. Il retropensiero della spiegazione classica sul velo è insomma il seguente: «Se tutte le donne andassero in giro nude scoppierebbe un pandemonio» (un modo di ragionare che tradisce la propria origine maschile, giacché a nessuna donna verrebbe in mente l’inverso, ossia «se tutti gli uomini andassero in giro nudi scoppierebbe un pandemonio»). Ma, al di là della parzialità prospettica, comunque coerente con la tradizione patriarcale e il suo fantasma edipico, c’è qualcosa che non funziona in questa spiegazione. Saremmo anzi tentati di dire che essa è un velo che copre le vere ragioni del velo. Lo scandalo del sesso è una valigia a doppio fondo.

Giovanni Ferrario, Senza titolo (dalla serie Rifrazioni), stampa digitale da scansione a contatto, dimensioni variabili, dal 2018, ©Giovanni Ferrario, courtesy dell’artista

Ciò che non funziona è presto detto: perché gli animali non conoscono il velo? Anche nel mondo animale il sesso può generare conflitto, non per nulla in alcune specie l’accesso alle femmine è soggetto a una forma di proto-regolamentazione (vedi alla voce «maschio alfa»). Eppure lì il sesso non è coperto. Si dirà: nel regno animale non c’è velo perché non c’è desiderio. Solo l’animale che parla conosce il desiderio. Certo, ma, posto che per scatenare il conflitto andrebbe benissimo anche l’istinto senza bisogno di scomodare l’umano desio, quest’ultimo è una spiegazione della copertura o non è piuttosto l’altra faccia della copertura? C’è il velo perché c’è il desiderio o c’è il desiderio perché c’è il velo? Come suggerisce Freud, si desidera ciò che è proibito, sicché velo e desiderio sono gli ingranaggi di uno stesso dispositivo. E bisogna qui intendere «dispositivo» anche in senso giuridico: velo e desiderio fanno tutt’uno con la legge. Nella Lettera ai Romani Paolo di Tarso lo ha illustrato in modo esemplare con parole di estrema lucidità. Non c’è sesso senza legge, non c’è desiderio sessuale che non sia intramato sin dalla sua origine con una proibizione, con una qualche forma di velo. La domanda è allora come si istituisce e come funziona questo dispositivo, con la sua dialettica interna di legge e desiderio, proibizione e trasgressione, velamento e disvelamento.
Iniziamo col dire che il velo non è lì a nascondere qualcosa: che motivo vi sarebbe, infatti, di ricorrere al velo se tutti sanno cosa c’è sotto? Ed è proprio perché tutti sanno cosa c’è sotto che Elena di Troia e le sabine vengono rapite, altrimenti non ci si darebbe tanto da fare, quindi il velo non serve affatto a scongiurare il conflitto. Se nascondo un tesoro sotto terra, è perché non voglio che si sappia che esso esista e dove si trovi, dunque evito di impiantare una segnaletica che ne indica il nascondiglio. Nel caso del sesso, invece, tutti sanno che esiste e dove si trova. E il velo non fa che rimarcarlo, come una grande freccia con scritto «qui».
Per certi versi sembra anzi che il velo sia lì apposta per essere sollevato, al fine di permettere la dinamica della violazione fondatrice: togli il velo, prendi le Sabine, ripristini il velo, e hai fondato una comunità ex novo. Nella versione freudiana: uccidi il padre, prendi le donne, ripristini il padre, ed ecco la Legge. Togli il coperchio, rimetti il coperchio, come rubare la marmellata. L’atto furtivo è in effetti il ritornello di ogni iniziazione maschile al sesso e alla legge (o dal sesso alla legge, se, come vuole una radicata tradizione, ogni furto o «fuitina» si conclude con l’istituzione del matrimonio). Il ritornello ma anche il tornello: a ben guardare la legge ha la consistenza di una barriera oltrepassabile, non un «divieto di fatto» ma un «divieto di diritto» (Miller, Di Ciaccia 2018, p. 72) facilmente aggirabile. Qui il velo, più che coprire la vista per scongiurare l’atto illegittimo, pare insomma strizzare l’occhio e fare l’uomo ladro (salvo poi riabilitarlo nell’Aufhebung come buon padre di famiglia o padre della patria).

Proviamo allora a battere un’altra via. Non diremo che il velo nasconde qualcosa – l’oggetto del desiderio, potenziale generatore di conflitti – ma che il velo nasconde la mancanza di qualcosa. Una mancanza che ha sempre a che fare con la legge e con l’istituzione della civiltà. Il fatto che manchi qualcosa non significa che non vi sia niente. Significa che non c’è ciò che dovrebbe esserci. Come il libro della biblioteca che, nel celebre esempio lacaniano, manca al suo posto: l’ordine simbolico, qui rappresentato dal catalogo del bibliotecario, indica una collocazione che nel reale risulta però vacante.
È l’esperienza di chi si mette sulle tracce della legge per rinvenirne il fondamento: si finisce sempre con l’imbattersi in un posto vuoto, col cadere in un paradosso, con l’inciampare in un intoppo, proprio nel punto che dovrebbe sorreggere l’intero ordine costituito. Gli itinerari intellettuali di Carl Schmitt e Walter Benjamin ne sono esempi illustri, avendo elevato tale punto cieco, o «stato di eccezione», a oggetto di indagine privilegiato. Accade il medesimo a Freud quando si mette sulle tracce della pulsione sessuale, sia nei Tre saggi sulla sessualità sia in Al di là del principio di piacere: l’intoppo è dietro l’angolo. Nel primo una serie di oggetti parziali si frappongono alla meta, cioè a quello che dovrebbe essere il compimento della sessualità. Nel secondo qualcosa sfugge continuamente di mano all’autore, che tenta di afferrare la radice delle pulsioni ma non fa che inciampare e, come infine ammette egli stesso, è costretto a zoppicare (Freud 1920, p. 228).
Non è un caso se tanto la legge quanto il sesso nascondano sul fondo un intoppo costitutivo. Si tratta infatti proprio dello stesso intoppo. La psicoanalisi lacaniana lo ha mostrato a modo suo. C’è sempre un punto su cui cade chi indaga il fondamento del diritto, della legge, dell’ordine simbolico. Bene, proprio in quel punto cieco va rinvenuta l’origine della sessualità: essa sorge come tentativo precario, sempre fallimentare, di venirne a capo (Zupančič 2017). Di qui il suo costitutivo legame con lo «scandalo» in senso etimologico: l’ostacolo, la pietra d’inciampo. Ciò che il velo copre è allora tale inciampo, una mancanza strutturale interna alla legge simbolica?
Di solito si guarda la situazione a termini invertiti: il sesso sarebbe un intoppo (un’eccedenza, un che di troppo) a cui la legge tenta di porre rimedio (con il velo, ossia la proibizione dell’incesto, il matrimonio, ecc.). È il tradizionale discorso che relega una supposta natura al ruolo di fondamento primitivo, un po’ caotico e incivile, sul quale la cultura provvede a mettere ordine. Agli «incerti concubiti» dei bestioni primitivi, diceva Vico, si sostituiscono «nozze, tribunali ed are». Ma se, come mostrano la psicoanalisi e la teologia politica, l’intoppo sta dalla parte della legge, e ne è anzi parte integrante e costitutiva, può essere istruttivo, almeno in un primo momento, rovesciare la prospettiva, seguendo il suggerimento di Alenka Zupančič e guardando al sesso come a un tentativo di rabberciare una legge di per sé sbrindellata e perennemente bucata. Un tentativo a sua volta sbrindellato e, perciò, continuamente ripetuto. Da questo punto di vista la copertura che da sempre accompagna il sesso, lungi dal voler celare qualcosa che c’è, assomiglia piuttosto al proverbiale «velo pietoso» volto a coprire ciò che non c’è, o quanto meno non c’è più (l’espressione deriva originariamente dal velo con cui, nel XIV secolo, si coprivano «pietosamente» i morti per la peste nera). L’immagine è forse eccessivamente tragica, considerato che la sessualità, così intesa, ha invece qualcosa di comico. Si pensi al comico nell’interpretazione di Bataille – l’effetto di uno scacco nell’ordine simbolico – o di Kant – l’effetto di un’«attesa che si risolve nel nulla». Ecco, la sessualità è un modo un po’ ridicolo, perché sempre sul filo del fallimento, di far fronte all’imbarazzante scacco che abita la legge e all’attesa delusa di una sua piena consistenza. Si potrebbe perciò dire che facciamo sesso per le stesse ragioni per cui ridiamo (già Gregory Bateson notava l’affinità di riso e orgasmo, entrambi accompagnati da fenomeni convulsivi). Sarebbe allora una forma di catarsi mai del tutto risolutiva: l’attività sessuale scaturirebbe dall’incompletezza del sistema, nel tentativo di ovviare alla sua mancanza costitutiva, salvo l’impossibilità di completarlo, così come la risata scaturisce di fronte alle déifallance del sistema, ogni volta che si scivola su una buccia di banana o si cade in un tombino. E il velo sarebbe lì a coprire questa ridicolaggine, ossia il tentativo, sempre mal riuscito, di colmare il buco.

Ma è proprio così? Concentriamoci sul buco e sull’intoppo che ne consegue: c’è una mancanza, un’assenza, là dove ci si aspetterebbe una presenza. Si tratta di uno strano miscuglio di qualcosa che c’è (generando aspettativa) e di qualcosa che non c’è (deludendo l’aspettativa). Per definirlo bisognerebbe contorcersi in locuzioni del tipo «un’assenza in presenza» o «la presenza di un’assenza». Non senza una certa eleganza, lo strutturalismo ha pensato questo punto cieco sotto il nome di «casella vuota» (dove «casella» indica la presenza attesa e «vuota» l’aspettativa mancata). Non c’è struttura, istituzione, organizzazione sociale, comunità politica, diciamo in generale relazione, che non ruoti attorno a un posto vacante. Lungi però dal costituire un limite dell’ordine simbolico, la casella vuota è esattamente ciò che lo fa funzionare (Deleuze 1976). Vale anche per la pulsione sessuale, che ruota interamente attorno a questo vuoto (Lacan 1973). Il posto vacante è cioè il motore di quel dispositivo costituito dalla legge, dal velo e dal desiderio. E da tutti i giochi di potere – da tutta quella dialettica del velamento e del disvelamento, del rubare la marmellata, ecc. – che trovano nel vuoto il proprio spazio di manovra e che l’istituirsi della legge reca sempre con sé. Il trono vuoto, che appare negli archi e nelle absidi delle basiliche paleocristiane e bizantine, costituisce allora, come è stato detto, «il simbolo forse più pregnante del potere» (Agamben 2007, p. 11). Bisogna però intendersi sul senso di questo vuoto o di questa mancanza, troppo spesso derubricata ad assenza di fondamento e dunque letta ancora a partire dall’ordine simbolico, secondo una logica che è, di nuovo, tutta maschile. Il rischio è di ricadere nella logica del «tutto con l’eccezione» semplicemente rovesciandone i termini, muovendo dall’eccezione anziché dal tutto, dal vuoto anziché dal pieno, denunciando perciò il fondo bucato della legge ma mantenendo le stesse coordinate. Si resterebbe così intrappolati sempre nella medesima dialettica: legge/trasgressione, velamento/disvelamento, presenza/assenza, pieno/vuoto, eccedenza/mancanza. Scoperchiare il vuoto, palesare le logiche di potere che vi fanno leva, denunciare l’assenza di fondamento, la violenza fondatrice e l’azione furtiva alla base della legge – in breve, smontare gli ingranaggi dell’ordine simbolico – lascia sul tavolo gli stessi pezzi di quel dispositivo, solo disattivati anziché funzionanti. E se invece i pezzi fossero altri o non fossero affatto dei «pezzi»? Se lo scandalo del sesso non fosse una valigia la cui verità va ricercata in un doppio o terzo fondo, cioè in altri pezzi nascosti o mancanti? La valigia, coi suoi doppi fondi, non è che una variante del teatro, con le sue quinte: è la classica metafora dell’inconscio come rappresentazione (presa di mira da Deleuze, Guattari 1972) che mette in scena un pezzo nascondendone altri nel retroscena, per portare in luce i quali altri ancora dovranno retrocedere dietro le quinte e così via in una dialettica infinita. E se non si trattasse affatto di un gioco dialettico di sipari che nascondono altri sipari, di veli che celano altri veli, ma di un unico tessuto senza stacchi e senza pezzi?

[In copertina: Giovanni Ferrario, Senza titolo (dalla serie Rifrazioni), stampa digitale da scansione a contatto, dimensioni variabili, dal 2018, ©Giovanni Ferrario, courtesy dell’artista]

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