Roberto Masotti è uno dei fotografi più conosciuti e apprezzati all’interno del panorama musicale internazionale. Si è contraddistinto per la sua sensibilità e per la sua capacità di cogliere l’essenza di momenti salienti della performance musicale e della vita degli artisti. Alcuni dei suoi scatti sono diventati delle vere e proprie icone utilizzate per copertine di dischi, di libri e per pubblicazioni di vario genere. In occasione della prossima uscita del suo nuovo libro su Keith Jarrett Roberto Masotti, che da sempre dedica la sua attività a raccontare la musica attraverso le immagini, ci parla del suo lavoro su Scenari. Per gentile concessione dell’editore Seipersei pubblichiamo in anteprima alcune immagini contenute nel volume.
Com’è nata la tua passione di fotografo della musica e dei musicisti?
La musica mi ha sempre appassionato molto, è stata uno degli elementi della mia formazione, da subito abbastanza varia: dischi, certo, e radio naturalmente (tra i primi ascolti a battezzarmi ci sono stati la musica di Busoni con Turandot e l’Ulisse di Dallapiccola) ma anche concerti dal vivo in Romagna con gruppi come i Colosseum e Van Der Graaf Generator e poi il jazz. C’era un gruppo di appassionati a Ravenna, da cui sarebbe nato il più longevo festival del jazz in Italia, con alcune persone anche più grandi di me come Carlo Bubani, l’iniziatore appunto organizzatore del festival Ravenna Jazz: con loro ho iniziato ad ascoltare Coltrane e le altre novità che avevano provocato fratture significative rispetto alla tradizione. Queste persone mi portarono quindi al festival del jazz di Milano, dove incominciai a conoscere una realtà meno provinciale: in un giorno solo mi capitò di ascoltare il gruppo di Cecil Taylor e quello di Miles Davis e in un attimo mi trovai davanti a dei “monumenti”. A quell’epoca non facevo ancora fotografie. Questo è stato il mio primo approccio con la musica. Poi nel 1969 – allora studiavo industrial design a Firenze ma abitavo ancora a Ravenna – andai al festival del jazz di Bologna al concerto di Ornette Coleman ed ebbi modo di assistere alla prima performance di Keith Jarrett come leader con un suo trio dopo aver lasciato il gruppo di Miles Davis. In quell’occasione avevo portato con me la Rolleiflex di mio padre. Durante il concerto del trio di Jarrett al Teatro Comunale, a un certo punto, mi alzai in piedi e andai sotto il palco a fotografare. In una rassegna alla Sala Bossi del Conservatorio, suonò Ornette Coleman e anche lì avevo con me la macchina. Queste sono state le mie prime mosse da fotografo: mi accorsi che queste foto erano ben riuscite, tant’è che le uso tuttora. Da lì capii che questa passione poteva essere alimentata e rafforzata. Cambiai macchina fotografica e iniziai a seguire i festival con regolarità… Insomma è stata una catena che mi ha portato molto naturalmente a constatare che la fotografia era la cosa che più mi interessava. Ancora prima di finire i miei studi di design aprii uno studio fotografico con un mio collega a Ravenna in cui facevamo di tutto un po’. Fu allora che attirai l’attenzione di Carlo Bubani, che parlò di me a Franco Fayenz. Entrambi diventarono per me dei mentori, e così incominciai a pubblicare le mie foto professionalmente. Finché nel 1973 Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz, mi incaricò di fare un ritratto a Jarrett per la copertina della rivista: da lì partì poi tutta un’altra storia, che racchiude tra le tante cose anche i rapporti con l’ECM…. Alla fine, ripensandoci ora, tutto nacque da quel gesto spontaneo di alzarmi in piedi e di andare sotto il palco, un gesto non semplice, dato che io ero seduto in platea, per cercare di andare verso il soggetto che volevo “catturare” e in qualche modo circondarlo di un perimetro che corrispondesse a un’immagine. Sono ragionamenti molto istintivi che però ti consentono di avere in mano qualcosa di realizzato e di credibile. E da lì ho continuato, cercando sempre di migliorarmi.
Come fai a scegliere chi o che cosa fotografare?
Per me è fondamentale ascoltare, informarsi, leggere per decidere che cosa ti piace e sapere che cosa vuoi ottenere, per poter scegliere meglio che cosa documentare attraverso la fotografia. Per esempio, considerare l’ambiente, quando possibile, è molto importante: non si tratta soltanto di fotografare questo o quel musicista con il suo strumento ma di “catturare” la presenza del pubblico e le sue reazioni, quando possibile. Quando ho incominciato i festival si trasferirono nei palasport, c’erano moltissimi giovani e questi fattori andavano inglobati nelle fotografie perché il pubblico è parte integrante del concerto tanto quanto la dinamica dei musicisti sul palco. Per esempio nel 1974 al concerto dell’Art Ensemble of Chicago al festival di Bergamo compresi che gli stop and go, le pose mimiche, i momenti di silenzio che scatenarono la risposta controversa del pubblico tra fischi e applausi erano fenomeni fondamentali, che successivamente, grazie all’esperienza, avrei cercato di documentare e interpretare meglio. Oppure ricordo anche le prime edizioni di Umbria Jazz, con le folle di ragazzi con i sacchi a pelo, una realtà così diversa e per questo così interessante rispetto all’ambiente chic e formale della buona borghesia del festival del jazz di Milano, che pure offriva un programma intelligente e aperto alle ultime novità. In ogni caso sin da allora non mi interessavo soltanto a un genere di musica ma per scelta cercavo di allargare i miei orizzonti: nel 1972 a Bologna, grazie a Franco Fayenz, fui coinvolto nella manifestazione Tra rivolta e rivoluzione, in cui la parte musicale era curata da Mario Baroni e anche lì ci fu un’apertura verso un mondo eterogeneo, con Giovanna Marini, il jazz d’avanguardia, la musica contemporanea, insomma il ventaglio di musiche proposte era molto libero e particolare. Un’apertura che avrei poi ritrovato con la rivista Gong, dove lo slogan era quello della musica a 360 gradi, infatti si passava da Bob Dylan a Frank Zappa, da Anthony Braxton a John Cage e all’Art Ensemble of Chicago, da Stockhausen a Franco Battiato. Insomma, non ci si faceva mancare nulla.
Musica e fotografia sono due espressioni artistiche diverse che fanno riferimento a sensi diversi: come hai fatto a raccontare la musica e i musicisti attraverso le immagini?
Apparentemente la fotografia sembrerebbe non adeguata o comunque limitata nel cogliere l’essenza della musica, nonostante la lunga tradizione di rappresentazione della musica da parte della pittura e delle arti visive. La fotografia in realtà si rivela però più consona e sensibile nell’afferrare il gesto, l’espressione, il movimento anche ripetutamente; quello che può fare la fotografia nei confronti della musica è un buon lavoro di interpretazione, a patto di essere molto pazienti nel seguire ciò che accade, riesce a cogliere i momenti salienti ed infine fa forza sul suo potere evocativo. La fotografia esprime non tanto e non solo il sin troppo enfatizzato “attimo” ma anche e soprattutto i tuoi momenti di attenzione e di tensione nell’ascolto e contemporaneamente nella visione di ciò che hai sotto gli occhi; tu infatti premi l’otturatore esattamente in quei momenti perché la tua esperienza ti dice che sono quelli giusti. Ad esempio, se fotografi un direttore d’orchestra, che notoriamente dà segnali in anticipo sulla musica, stai seguendo i suoi gesti cogli occhi e con le orecchie stai ascoltando la musica: quindi hai una serie di parametri molto precisi che ti comunicano quanto sia intenso il rapporto tra musica e immagine e ti fanno capire quanto tu in realtà, osservando una fotografia, possa sentire la musica – o almeno una certa parte di musica – che non stai sentendo veramente ma che in qualche modo percepisci comunque perché evocata.
Durante la tua carriera hai fotografato gli stessi musicisti anche per anni come Jarrett, Cage, Paert, Mingus, Garbarek: come hai fatto a creare un rapporto duraturo di fiducia e magari di amicizia con alcuni di loro?
Mi sono sempre trovato bene con i musicisti, perché dietro ai loro “personaggi” si nascondono uomini che in fondo non aspettano che di avere relazioni con gli altri. Gli artisti non sono soltanto quelli che arrivano sul palcoscenico, non vedono nessuno, suonano e poi se ne vanno; sono anche quelli con i quali capita di creare rapporti un po’ più stretti. Quante volte mi è capitato di andare a cena con i musicisti. Con Jarrett però non si mangiava mai dopo il concerto, ma sempre prima… Comunque andare a cena con Jarrett o con András Schiff è un’occasione per frequentarli e, perché no, per ampliare la cerchia delle proprie conoscenze. Assistere alle prove poi permette di avere un contatto diretto e informale con i musicisti, che in quelle occasioni se hanno voglia e tempo possono aprirsi e avviare un dialogo. In fondo, quelli che tieni sotto il tuo mirino sono degli artisti, vale a dire delle persone sensibilissime, che si accorgono se stai insistendo con lo sguardo su di loro. Così si crea un certo rapporto: li vedi una volta, poi una seconda, e poi sei mesi dopo, anni dopo in un altro posto, in un altro paese e diventi per loro una presenza ricorrente. Magari non c’è un’amicizia profonda, ma ti conosci almeno di vista, ma soprattutto ti riconosci. Succede anche che tu dai delle tue foto a un artista perché le ritieni particolarmente riuscite e lui ti regala un suo disco, arrivando così a comunicare attraverso i propri prodotti oltre che a parole. L’apice si raggiunge quando un musicista si mostra interessato a ciò che fai. I musicisti oltre alla sensibilità hanno grande intuito, per cui se oggi ripenso a quando Jarrett nel 1973 mi disse “Vorrei che tu mandassi qualcuna delle tue foto alla Impulse e alla ECM” mi rendo conto di quanto allora il nostro fosse un rapporto al buio, basato sulla sensibilità. Jarrett evidentemente aveva intravisto nel mio modo di agire qualcosa che avrebbe potuto produrre buoni risultati. Oppure penso a quando Manfred Eicher mi chiamò a Londra per la registrazione di Passio di Arvo Pärt: se pochi minuti dopo averlo conosciuto potevo scherzare con Arvo Pärt lo devo ad Eicher, al rapporto di stima e fiducia che si era creato con lui, all’aria di casa che si respirava in quei momenti cruciali della registrazione di un disco in una chiesa. Da quell’occasione poi nacquero delle foto che sono rimaste nei decenni, come quella che ritrae insieme Eicher e Pärt e che descrive tuttora la relazione che c’è tra di loro. Andare ai concerti e frequentare i musicisti è fondamentale, per cui l’incitamento nei confronti dei giovani fotografi è quello di conoscere e di informarsi, di fare insomma della fotografia uno strumento di conoscenza.
Come si è integrato e differenziato il tuo lavoro rispetto a quello di tua moglie Silvia Lelli, anche lei fotografa di musica, spettacolo e danza?
Silvia ed io siamo stati tra i pochissimi che sono riusciti a fare della fotografia della musica una professione. Intorno alla musica c’è sempre stato molto amatorismo da parte di appassionati che andavano ai concerti rock e jazz muniti di macchine fotografiche ma che non sono mai riusciti a farne un mestiere. Tra Silvia e me ci sono state da subito differenze di interessi, che tuttavia disegnavano un quadro d’insieme. Silvia ha seguito dall’inizio il teatro, la danza e poi successivamente anche la musica classica, da quando è diventata fotografa ufficiale della rivista Musica viva diretta da Lorenzo Arruga e lavorava anche come me per Gong. Nel 1979 è incominciato il rapporto con la Scala e di fatto nasce la Lelli e Masotti perché si trattava di un lavoro di tale portata che non poteva essere svolto da una persona sola: decidemmo quindi di affrontarlo insieme non tralasciando però, nei limite del possibile, i nostri progetti personali. C’è sempre stata tra noi una sorta di complementarietà: ognuno ha seguito i propri interessi oppure ci siamo fusi per altre esperienze che ci hanno visto lavorare gomito a gomito non soltanto per la Scala o creare progetti comuni.
Nel 2019 l’Archivio Lelli e Masotti è stato riconosciuto dal MIBAC come un archivio fotografico di interesse storico particolarmente importante. Al di là della soddisfazione artistica e professionale che significato ha questo riconoscimento?
Ha il significato di riconoscere un’attività e soprattutto i suoi esiti: centinaia di migliaia di fotografie che coprono un ampio raggio delle arti performative da noi seguite per decenni. Il riconoscimento rappresenta anche un limite perché comporta degli obblighi: archiviazione, conservazione e digitalizzazione, aspetti connessi con la concezione dell’archivio stesso e della sua promozione. Il riconoscimento ha premiato il lavoro di organizzazione e classificazione che da un certo momento in avanti abbiamo realizzato, raccogliendo i materiali pubblicati e quelli legati alla discografia, numerando i negativi in ordine progressivo, utilizzando schede perforate. Da qualche anno partecipiamo all’iniziativa Archivi aperti, ospitando persone interessate a visitare l’archivio e spiegando loro in che cosa consiste. Da qui capisci che nei materiali archiviati ci sono delle storie da narrare e che tu puoi fare un racconto della tua attività. Parallelamente all’Archivio Lelli e Masotti, che a noi piace chiamare Lelli e Masotti Archivio, se ne è costituito anche un altro al Teatro alla Scala che custodisce le fotografie da noi scattate nei 17 anni di collaborazione con l’ente e che noi abbiamo sin dall’inizio voluto fosse di proprietà dell’istituzione; scelta, questa, molto discussa all’epoca. Per noi però era apparso chiaro che dovesse essere una istituzione pubblica di tale importanza ad assumersi la gestione e la conservazione delle immagini; per questo insistemmo perché la Scala acquisisse anche l’archivio privato del fotografo precedente, Erio Piccagliani. In questo modo non è nato soltanto Lelli e Masotti Archivio ma anche quello del Teatro alla Scala, che prima non esisteva in quanto tale. Con il senno di poi è stata una scelta molto corretta e sensata perché per noi sarebbe stato difficile gestire anche le centinaia di migliaia di fotografie prodotte per la Scala.
A gennaio uscirà per l’editore Seipersei di Siena un tuo nuovo volume dedicato a Keith Jarrett, intitolato Keith Jarrett : a portrait, dopo quello pubblicato nel 2015 per celebrare i 70 anni dell’artista. In che cosa si differenzia questo nuovo lavoro dal precedente?
Il libro in uscita è più asciutto, rigoroso, ci sono meno fotografie (e soltanto in bianco e nero); è anche più raffinato in un certo senso, con una migliore qualità di stampa e un maggior rispetto nel presentare le fotografie, anche se l’impaginazione del volume precedente era di Stefano Vigni che poi è diventato l’editore di quest’ultimo suggerendo lui stesso la selezione del materiale. I file sono stati tutti rivisti e migliorati, uno a uno amorevolmente. Il volume precedente era nato con l’idea di mettere insieme il più possibile della mia esperienza fotografica con Jarrett, quindi anche molte immagini a colori degli anni più recenti; ad accompagnare le foto c’era un testo mio e basta. In Keith Jarrett : a portrait invece ci sono più contributi: ci sono testi di Geoff Dyer e Franco Fabbri oltre a uno mio breve. L’intenzione che si manifesta già in questo volume è quella di pubblicare una serie di libri sui musicisti ai quali mi sono maggiormente dedicato negli anni. E che recheranno tutti il marchio: “a portrait” perché ritengo, per ognuno dei casi di avere materiale sufficiente per disegnare un ritratto dell’artista. Il secondo libro della serie sarà su John Cage.
Mi sembra di poter dire che nel tuo caso alcune etichette discografiche hanno avuto un ruolo importante per la tua carriera. Grazie a Jarrett eri approdato all’ECM, mentre attraverso la Cramps Records hai conosciuto Cage. Ci puoi raccontare come sono andate le cose?
Nel 1977 lavoravo per la Cramps Records come fotografo già da qualche anno. Andai alle prove di Empty Words al Teatro Lirico di Milano e conobbi Cage. Anche in questo caso è stato, per così dire, amore a prima vista e se vogliamo sotto certi punti di vista Cage era un personaggio più facile di quanto non sia Jarrett. Alla Cramps c’era un ampio raggio di azione possibile, potevi incontrare i personaggi più disparati, da Eugenio Finardi agli Area, da Demetrio Stratos ad Alberto Camerini, i due artisti Fluxus Hidalgo e Marchetti e per me sono stati anni estremamente formativi e anche molto liberi. Senza il lavoro per la Cramps Records non avrei potuto concepire un progetto che ha avuto particolare fortuna come You Tourned the Tables on Me: avevo acquistato un tavolino da un ferrivecchi e l’ho usato per fare dei ritratti a oltre cento musicisti, tra cui Demetrio Stratos, Philip Glass e Brian Eno, l’avanguardia jazzistica americana e europea. La relazione con la Cramps e Gianni Sassi da una parte e la ECM e Manfred Eicher dall’altra non è stata poi così diversa: da entrambe le etichette e dai produttori ho sempre ricevuto fiducia e libertà assoluta. Sassi e Eicher facevano affidamento sul mio modo di fare e io davo loro quello che gli serviva, creativamente.
Ci puoi raccontare qualcosa del tuo rapporto con Jarrett?
Jarrett è sempre stata una persona molto determinata e schietta, dai tratti severi ma anche divertente e ironica. Ho sempre goduto della sua presenza e della sua personalità, naturalmente c’è stato negli anni Novanta il periodo della malattia, della sindrome da affaticamento cronico, a seguito della quale il suo carattere si è necessariamente indurito perché la sofferenza ti cambia dentro. La relazione con lui è sempre stata a distanza ma molto amichevole; Jarrett mi ha permesso cose che non consentiva ad altri, come fotografarlo da vicino o sul palco in determinate situazioni. Sicuramente queste occasioni non erano però i concerti di piano solo sui quali non transigeva per nessuno da un certo momento in poi. Quando ho espresso a Jarrett e ad Eicher l’intenzione di realizzare il primo libro nel 2015 non hanno posto alcuna restrizione e mi hanno detto di mostrargli il lavoro una volta che fosse stato realizzato. E quando Jarrett ha avuto il libro, pubblicato in occasione dei suoi 70 anni, mi ha detto che è stato il regalo più bello che avesse ricevuto. Per me è stata naturalmente una grande soddisfazione. Anche per quest’ultimo volume ho interagito con Jarrett e Eicher, informandoli del progetto. Le fotografie sono ormai conosciute in un certo ambito, anche se rimangono poco note a un pubblico più allargato che ama Jarrett perché le immagini e la musica non vengono messe in relazione tra di loro in modo consapevole e profondo e sono percepite come due cose separate. Manca una sorta di cultura d’insieme che unisce fotografia e musica, spero che facendo libri simili e persistendo su questa via si riesca a svilupparla.
Come immagine di copertina dell’articolo un ritratto di Roberto Masotti scattato da Markus Stockhausen.