Pubblichiamo un’intervista a Georges Didi-Huberman in occasione della consegna del Premio Udine Filosofia 2020, un’iniziativa a cura di Luca Taddio in sinergia con la casa editrice Mimesis Edizioni e l’associazione culturale “Territori delle idee”, che si propone di ribadire l’importanza della riflessione filosofica come veicolo di scambio e di confronto culturale tra i popoli.
Il concetto di immagine accompagna e attraversa l’intera sua opera: che cosa significa essere “davanti all’immagine”? In che termini possiamo prendere le distanze da ciò che sappiamo?
Davanti vuol dire che si è vicini e che, al contempo, vi è una certa distanza. Vi è un movimento d’approccio, ma vi è sempre anche un intervallo. Essere “davanti a un’immagine” significa trovarsi sempre in una doppia relazione, fatta di prossimità – qualche volta di tattilità – e di lontananza. Troppo vicino non si vede niente (in francese si dice: “avere il naso incollato su qualcosa”). Troppo lontano, non si vede più. Bisogna dunque, per esercitare lo sguardo, muoversi costantemente tra il “troppo vicino” e il “troppo lontano”.
Gombrich criticava (in un altro contesto) l’idea di un “occhio innocente”, intendendo così affermare l’idea che l’occhio è sempre condizionato da ciò che pensiamo. Secondo questa tradizione, non ci troviamo mai dinnanzi a un’immagine ma sempre a un’interpretazione. Lei sembra invece rimettere in gioco il sapere grazie al potere delle immagini, è così?
È vero che l’occhio non è mai innocente. Si guarda tanto con le parole quanto con gli occhi. Ma ciò che Lei ha esposto sinteticamente di Gombrich suppone che le immagini siano fluttuanti, mentre il linguaggio sarebbe perenne. Non è certo così semplice. La potenza delle immagini – dico potenza e non potere – consiste nel fatto che il visibile sa rimettere in questione tutto il nostro linguaggio: non si tratta, quindi, di tacere e di rimanere muti davanti alle immagini, bisogna, al contrario, reinventare il nostro linguaggio.
Le immagini sono qualcosa di complesso, hanno a che fare con diverse discipline: antropologia, storia, politica etc. La filosofia è una tra queste discipline o gioca un ruolo diverso?
Ogni disciplina appartenente alle scienze umane presuppone una presa di posizione su un problema filosofico e su una storia della filosofia. Questa è, dunque, centrale: essa innerva, anche inconsciamente, le analisi in apparenza più fattuali. Louis Althusser parlava della “filosofia spontanea degli scienziati”. Bisogna, dunque, fare in modo di esplicitare, in ogni momento, i nostri presupposti filosofici.
Confrontarsi con un nuovo genere di immagine implica un confronto con una nuova forma di scrittura?
Effettivamente penso che, a ogni incontro con un’immagine singolare, si debba, in qualche modo, rifondare la propria lingua. Se ho assunto una determinata abitudine nel descrivere le opere del Rinascimento, davanti a un’opera di Gerhard Richter avrò bisogno di trovare un vocabolario – se non una sintassi – differente.
Vi è un tempo proprio dello sguardo?
Se Lei parla dello sguardo in generale, no. Se Lei parla di questo sguardo, in questo momento, rivolto a questa cosa o a questa persona, allora sì. Lo sguardo si accorda con l’evento, che è sempre singolare.
In che senso gli oggetti culturali e storici si costituiscono come un montaggio?
Questi oggetti sono raramente delle creazioni sorte dal nulla. Sono, piuttosto, delle trasformazioni. Uno dei gesti che caratterizza una trasformazione è lo spostamento: ciò che era qui, Lei lo mette lì. Spostando, Lei fa un montaggio. E un nuovo montaggio è come una nuova frase: significa “diversamente”, o anche tutt’altra cosa.
Le immagini possono stare in rapporto con la sofferenza dell’umano e questo le riconduce a un problema di ordine politico. Il Friuli è stata la terra di Pasolini. Prima col suo testo dedicato alle immagini di Auschwitz e poi con Come le lucciole, ha analizzato la relazione immagine-politica? Tale rapporto lo ritroviamo anche nel cinema di Pasolini?
Sì, certamente. Ci si rende subito conto che parlare di immagini significa entrare nella sfera dell’etica e della politica. Tutta la visione di Pasolini – poetica o cinematografica – era innervata da questa potenza politica delle immagini.
Secondo lei oggi Pasolini come interpreterebbe la pandemia? Si troverebbe in sintonia con quanto affermato da Agamben e alle sue critiche alle attuali restrizioni?
Come potrei rispondere a questa domanda? L’attività critica è certamente un aspetto comune a molti artisti e intellettuali. Criticare è un compito necessario, vitale, ma tutto dipende dai paradigmi adottati e i limiti fino a cui ci si vuole spingere.
Perché ha pensato di terminare il suo libro Come le lucciole con il richiamo all’immagine del danzatore curdo? Secondo lei oggi con chi identificherebbe Pasolini le nuove lucciole?
Anche in questo caso, sono incapace di “testimoniare per il testimone” che fu Pasolini. Per quanto mi riguarda, ho fatto la scelta di quel migrante curdo, poiché oggi la questione delle migrazioni mi sembra – a tutti i livelli, compreso quello filosofico – una delle più cruciali. Per questo motivo ho scritto, insieme a una poetessa e attivista greca, un testo su tale questione (Passare a ogni costo, Edizioni Casagrande).
Perché ultimamente si è mostrato critico rispetto al concetto di “capolavoro”, cosa non funziona in questo concetto?
Sono nato nell’arte (mio padre era un pittore) e sono sempre stato turbato da certe opere estreme: dai “capolavori”, dunque, come certe sculture di Donatello, certi dipinti di Vermeer, le “pitture nere” di Goya, ecc. Non ho messo in discussione questa concezione di capolavoro, se non nel contesto di una critica più generale della storia dell’arte, concepita come pura e semplice storia di riuscite estetiche. Come se la storia dell’arte fosse un semplice concorso di bellezza. La storia dell’arte implica molto più di questo: è il cristallo di tutto un rapporto al mondo, di tutto uno “spessore” antropologico. Da qui il mio interesse per Aby Warburg, che non esitava a mettere, sulla stessa tavola del suo atlante di immagini, un capolavoro di Delacroix e una pubblicità di carta igienica.
Un’ultima domanda: ritiene che ci troviamo sulla soglia della “morte dell’arte” dato che l’uomo, ibridandosi con la tecnica, sta radicalmente riprogettando il suo corpo? Possiamo oggi parlare di un nesso tra arte e post-umano?
In ambito culturale non vi è nessuna “morte”, nel senso in cui qualcosa sparirebbe definitivamente. Vi sono delle tradizioni nascoste, come diceva Hannah Arendt. Vi sono delle “sopravvivenze”, come diceva Warburg. Vi sono delle rimozioni e dei ritorni del rimosso, come diceva Freud. La diffusione di queste idee oggi, l’inflazione considerevole di questo discorso del post– mi sembra un’odiosa facilità di pensiero, come una parola d’ordine pubblicitaria. Si pensa molto male quando si vuole semplificare il tempo.