L’abitare al tempo della società fluida

Intervista a Luca Molinari

Sullo spazio domestico si riversano oggi molte aspettative di innovazione tecnologica. La casa, da territorio in cui far fruttare economicamente tecnologie inventate altrove (penso al riscaldamento a microonde, tecnologia nata in campo militare), è diventata un territorio prediletto per la sperimentazione tecnologica. La casa del futuro, la casa 2.0, si regge su idee di flessibilità e automazione alla cui base stanno digitalizzazione e connessione in dosi sempre maggiori il cui scopo sarebbe garantire migliori condizioni di abitabilità. Tuttavia, alcuni sociologi evidenziano come queste innovazioni non interroghino realmente i bisogni dell’abitante, ma riflettano più che altro la mentalità di chi le progetta, celando spesso una mera esaltazione per le possibili capacità metamorfiche della tecnologia. La casa del futuro, finisce insomma per essere una casa del presente, uno specchio del pensiero che vede nell’implementazione tecnologica il feticcio di riferimento per una vita domestica migliore. Quale distanza intercorre tra le prospettive di questa iperabitazione e una condizione di abitabilità realmente migliore?

La casa come luogo in cui la tecnologia migliora la vita umana è un filone che innerva l’abitare moderno da sempre, in particolar modo l’abitare borghese. Fin dall’Ottocento la casa per la famiglia borghese era un luogo in cui la tecnologia, da una parte aiutava a differenziare il funzionamento degli spazi; dall’altra intendeva migliorare progressivamente le prestazioni e con esse i bisogni dell’uomo. C’è un vero e proprio parallelismo tra l’innesto delle tecnologie e come si struttura lo spazio della casa. Già negli anni venti si comincia a lavorare su un aspetto definito existance minimum, cioè l’idea di una casa minima ma per ogni essere umano, attraverso cui si progettano cucine, bagni, innovazioni tecniche strettamente connaturate con l’idea dell’abitare pensando una casa che possa essere per tutti. Queste novità che all’inizio sono solo per un’alta borghesia –  a cui si rivolge, per esempio, la triennale di Milano tra gli anni ’20 e ’30 – nel dopoguerra diventano per tutti, per cui nelle case entrano la lavatrice, il frigorifero e altri oggetti che in qualche modo, così, si impossessano della casa la quale, dopo averli inseriti dentro i propri spazi, da essi viene letteralmente conquistata. Gli oggetti infatti prendono il potere in termini primariamente spaziali, a partire dal fatto che i loro primi modelli erano realmente ingombranti. Quello che accade dopo è che tutta una serie di tecnologie che ispessivano i muri delle case sono scomparse, visto che stiamo procedendo verso una dimensione sempre più immateriale della tecnologia. Si potrebbe fare un’incredibile curva dello spessore dei muri, che nell’Ottocento si ingrandiscono sempre di più per tenere le tubature e quant’altro e ora, invece, si stanno restringendo in un processo di smaterializzazione che ci fa quasi tornare alla casa di carta. E allora, in questo mondo dell’impalpabile rimane sempre però una cosa e cioè che gli oggetti ci continuano a possedere. Oggi, in maniera ancora più radicale, abbiamo tecnologie che, sulla base dei loro algoritmi, ci indirizzano verso ciò di cui secondo i loro calcoli potremmo avere più bisogno. In questo senso le tecnologie, specialmente quelle presentate come futuristiche in ambito domestico, continuano ad esercitare il loro possesso sull’abitante, tuttavia con un errore di fondo che mi porta a quanto dicevi nella tua domanda. La macchina infatti lavora sul precedente; come in un’operazione di marketing, la macchina predice sulla base di ciò che hai già desiderato, non sulla base di ciò che potresti desiderare. Così le tecnologie sicuramente continuano ad offrire il comfort “del presente”, ma non arrivano mai a indovinare quale sarebbe un tuo desiderio totalmente fuori dalla portata delle loro previsioni algoritmiche.. E’ interessante allora pensare che in queste case dove la tecnologia apparentemente scompare sono in realtà sempre più costituite da tecnologia, ma la questione del rapporto tra macchine e abitare continua a rimanere paradossale. Queste tecnologie, basandosi sulla raccolta di dati passati, non sono altro che il riflesso di quel passato che continuano a perpetrare, spacciandolo per futuro. Gli spazi possono oggi rimanere sostanzialmente gli stessi, ma il nostro bisogno di questi oggetti oramai si rinnova di continuo e ci rende perfetti consumatori. In un mondo totalmente wi-fi la casa potrebbe pure tornare a trasformarsi in una grotta, eppure, anche quella grotta sarebbe piena degli oggetti e delle tecnologie che veicolano, occupando ogni spazio. L’unica evoluzioni per me molto interessante, che però non va nella direzione della casa del futuro dalle forme fluide o futuristiche, è proprio che oggi in realtà non c’è più bisogno di quelle forme per pensare la modernità, non è più necessaria la casa moderna per vivere modernamente. Ci troviamo a vivere in case antichissime, nella maniera più moderna possibile perché sono gli oggetti che ci fanno percepire davvero moderni.

La casa, considerata come primo artefatto umano, nasce anche come spazio edificato a protezione o nascondiglio di una certa sacralità, aspetto riscontrabile pressoché in ogni cultura. Divisa da rigide separazioni interne, la casa nasce attorno a un centro, il focolare, per i greci sede della divinità, per i romani luogo dove venerare i Penati, gli dei della famiglia. Dal centro della casa infatti si dipanano spazi via via più periferici posti a protezione di esso. Se la cultura borghese perpetrava questo modello di preservazione della vita privata, celando gelosamente i propri spazi agli occhi degli altri, oggi una certa corrente culturale hi-tec tende invece a promuovere sempre di più una “cultura della trasparenza”, mettendo la privacy sotto assedio e sommando la pervasività delle tecnologie di informazione e comunicazione a quell’ossessione per la trasparenza già tipica di molta architettura moderna. Ben oltre le tende bianche che la signorina Farnsworth volle far applicare all’omonima casa in vetro progettata da Mies van der Rohe, il problema della privacy è oggi un’istanza che si declina anche in termini abitativi. Inoltre, nel mondo culturale non si smette di ragionare sul senso della privacy nelle pareti domestiche. Film come Parasite o La casa di Jack non cessano di riflettere infatti sull’impossibilità di rimuovere una dimensione privata dallo spazio domestico, presentando la casa come luogo di realizzazione di sé attraverso l’esternazione del proprio inferno personale. Perché la modernità è così assillata dal concetto di trasparenza? E poi, che sorte ha il privato nella casa del futuro; sarà una dimensione per sempre irriducibile o sarà possibile l’esistenza di una casa realmente trasparente?

La storia della modernità va di pari passo con l’idea che realizzare una città veramente moderna vuol dire realizzare una città democratica che, a sua volta, ha a che fare con l’utopia socialista di realizzazione di un mondo in cui si è tutti uguali perché si vede nelle case degli altri. Ecco da dove arriva l’idea della trasparenza. E’ un po’ un paradosso storico comunque, perché abbiamo vissuto e continuiamo a vivere in buona parte circondati da edifici in cui la preponderanza del muro supera quella della finestra in un rapporto almeno 5 volte a 1, ed è una condizione strutturale che ci accompagna mentalmente in tutto il mondo, non è una cosa solo occidentale. Quello che è mutato negli ultimi 150 anni è che progressivamente questi muri si sono ristretti nei pilastri, dal momento che il lavoro di tenere in piedi una parete è divenuto concentrabile in un pilastro di cinquanta centimetri e ciò ha liberato spazi. Perciò la cosa interessante è stato vedere come da una parte il sogno della modernità si avverava attraverso la leggerezza del pilastro che, spogliando in qualche modo le pareti, portava lo scheletro architettonico e la sua verità in scena; dall’altra però è emersa l’irriducibilità della dimensione arcaica e profonda a cui è connaturata una parte di sé che l’uomo non vuole rivelare e che nella casa, intesa anche come luogo di culto privato, si estrinseca attraverso le idee di intimità e rifugio. Persino negli hotel di lusso, le cui facciate sono costituite prettamente da vetro, si vedono sempre le tende tirate, come a ribadire un istinto di preservazione, di protezione. La casa come guscio insomma è una questione ineludibile per l’essere umano: non può piovere dove c’è quel focolare di cui parlavi, dove risiede il cuore dell’abitare – che significa piegare uno spazio a propria difesa. Questo aspetto è poi cresciuto a dismisura con la città borghese in cui il culto della privaticità ha addirittura separato e contrapposto l’idea della casa (mia) da quella della città (degli altri): mentre prima la casa era una casa di clan e quindi la relazione tra interno ed esterno era molto più forte, la casa borghese si fonda poprio su quest’idea di chiusura, che a sua volta è ciò che ha dato adito, nelle arti e nella letteratura, a rendere la casa “chiusa” il luogo deputato alla residenza del “mostro”, basti pensare a Il Gatto di Poe o a Il silenzio degli innocenti. Un livello zero di condivisione esiste inevitabilmente come fatto antropologico dal momento che non c’è civiltà al mondo che punti alla piena e totale condivisione, a meno di non trovarsi in gruppi non stanziali, che hanno un’idea di economia del gruppo diversa. Tuttavia anche in questi casi, nella iurta o dove che sia, entra sempre chi si sceglie di far entrare. La soglia rimane tale ovunque sia. Detto ciò, oggi ovviamente l’idea della privacy che ha fondato la città occidentale, viene messa in discussione principalmente dagli strumenti digitali che ascoltano e presenziano alla nostra vita e proprio questo sta sbriciolando l’idea della casa tradizionale. Malgrado ciò, però, torniamo al discorso sul grado zero fatto poc’anzi; anche durante la quarantena proprio tramite quegli strumenti tecnologici giudicati “invasivi”, abbiamo visto persone parlare di cucine, salotti, balconi, ma quasi nessuno paralre o mostrare bagni e camere da letto. Ecco l’irriducibilità delle soglie di cui ti parlavo prima che fa nuovamente capolino. È quindi vero che la privacy è un elemento che oggi viene consumato da alcuni aspetti della società, ma sono convinto che troveremo inevitabilmente degli spazi di compensazione.

Lo sgretolamento e la fluidificazione tra pubblico e privato sono stati tra i processi più accelerati dalle conseguenze della pandemia che stiamo vivendo. La riscoperta e la continua riconfigurazione degli spazi domestici in base alla complessità della socialità umana è alla base di una rinnovata percezione della casa che negli ultimi mesi si è trovata ad assumere su di sé funzioni poliedriche. Proprio questa condizione ha palesato chiaramente il limite sotteso alla costruzione delle nostre case, la concezione di una casa-monade il cui spazio appartiene a un consumatore-eremita che raramente intercorre rapporti con gli abitanti intorno a lui. L’occasione della quarantena, quindi, ha aggravato l’esigenza di soluzioni per una spazialità più associativa e condivisa, nel tentativo di superare le idee di separazione e isolamento del singolo rispetto agli altri connaturate nella progettazione di quegli spazi. Abbiamo assistito così a una riformulazione volontaria degli elementi da parte degli abitanti, che ha trasformato l’utilizzo di pianerottoli, balconi, giardini condominiali in luoghi sociali. Anche alla luce delle conseguenze della pandemia, quali direttrici dovrebbe percorrere l’architettura per considerare e favorire queste nuove forme di associazione e più in generale per invertire il modello di spazi inadeguati ad accogliere la vita collettiva?

Questi aspetti di cui parli erano in realtà esistenti già in nuce in alcune esperienze precedenti al lockdown dove gli spazi di transizione come le portinerie abbandonate, pianerottoli, tetti, considerati unicamente come spazi funzionali vengono riscoperti. Fino a qualche decennio fa il rapporto di vicinato in un condominio era pressoché nullo – almeno nelle metropoli occidentali, in alcune culture sarebbe invece impossibile pensarlo. Con il lockdown questi spazi di cui parliamo sono diventati però gli unici veri spazi di transizione garantita, nel senso che erano spazi messi meno in difficoltà dall’emergenza. Sarebbe interessante quindi immaginare come questi luoghi di transizione possano diventare spazi di relazione interpersonale per fare fronte a occasioni di emergenza come quella pandemica. L’ambito condominiale può diventare una dimensione efficace in cui una comunità ristretta – il condominio stesso – possa infomarsi vicendevolmente sugli stati di salute e sentirsi efficacemente protetta; qui potrebbero sorgere spazi funzionali come luoghi di magazzino per il delivery, spazi per il gioco dei bambini, spazi di lettura, piccole biblioteche, coltivazioni idroponiche, palestre all’aperto e così via. Insomma gli spazi considerati neutrali e inutili nella cultura del moderno, in un’ottica di diversificazione sicura, possono diventare dei potenziali per trasformare un tema in un’occasione. L’impianto di queste funzioni, il recupero edilizio, il cohousing sono orizzonti realistici che sulla scorta della pandemia potrebbero subire una notevole accelerazione.

Il centro storico delle città è, soprattutto in Italia, un luogo contraddittorio in cui il nesso casa-città si rende sempre più complicato. Dove non in pessime condizioni strutturali, le case del centro tendono a subire varie sorti che conducono però a un medesimo finale. Preda di speculazione sugli affitti per gli studenti di passaggio, come a Bologna; indirizzati ad uso prettamente  turistico, come a Firenze o Venezia, o iperfunzionalizzati al punto da essere privi di abitanti, come a Milano, i centri delle città vedono sempre più problematizzato il proprio rapporto con l’abitare. Oggi assistiamo all’avanzare di un enorme vuoto dovuto soprattutto alla turistificazione delle città, in cui modelli come Airbnb stanno modificando radicalmente il modo di abitare. Se il nuovo come si è detto viene dalla periferia non è semplicemente per un’idea romantica di fermento dal basso, ma accade perché i centri si stanno trasformando in ambienti necrotici la cui esperienza non esiste al di fuori dalla dimensione funzionale. Sono questi aspetti ad escludere progressivamente gli abitanti e a confinarli sempre più lontani dal centro. Cosa rappresenta il centro città oggi, quale ruolo dovrebbe rivestire e come si può pensare diversamente?

Questo discorso sui centri storici è un argomento molto delicato. Intanto, vale limitatamente al centro nord; al sud i centri continuano ad essere foltamente abitati da una forte mescolanza sociale, pur patendo quello che giustamente definivi come pessima condizione strutturale. Dopo la grande fuga della borghesia dai centri storici durante gli anni ’70, posso dire che attualmente stiamo assiestendo a un ripopolamento in parte residenziale – anche se è vero che questo riguarda solamente le fasce più alte della popolazione –, ma soprattutto funzionale. Se un grande gruppo aziendale avesse dovuto piazzare la propria sede a Milano, dieci anni fa abrebbe scelto un edificio futuristico di una qualche periferia ben servita, oggi la metterebbe in centro – via Dante ne è un esempio clamoroso. Le città – anche quelle che apparentemente non cambiano mai – sono degli organismi estremamente fluidi, divorati e ricostruiti dall’interno in maniera continua. Fatte queste premesse, però, non c’è alcun dubbio che i centri stiano allontanando da sé la funzione primaria, cioè quella residenziale, in alcuni casi anche a favore di una “airbnbzzazzione”. Su questo aspetto adesso però grava il lockdown appena terminato che ha pesantemente toccato l’idea di una shared-economy, per cui anche realtà come Airbnb hanno avuto un tracollo economico – a Venezia, per esempio, il comune ha firmato un patto con Ca’ Foscari e lo Iuav per far in modo che le case vuote di Airbnb siano date in affitto agevolato agli studenti. Più in generale, penso che l’obiettivo vero del lavoro sui centri storici sia quello di riuscire a riportare una mixité sociale e funzionale al loro interno – anche se questo processo andrebbe ovviamente contro ogni logica economica di tipo capitalistico – moltiplicare funzioni e usi sociali completamente variati. Portare scuole, strutture pubbliche che abbiano la possibilità di trattenere la gente al loro interno, evitando la monofunzione in cui spesso cadono i centri. Oggi che il discorso collettivo si concentra sempre di più sulle periferie, penso che troppo poco spesso si parla di centri, ma questo è legato al fatto che, come argomento, suscitano poco interesse – chi ne ha in merito sono pochi e portatori di interessi molto forti, riducendo i centri storici a “gioielli di famiglia” in cui aumenta la redditività a discapito di una popolazione sempre più allontanata.

Ragionando intorno alle periferie, invece, lei ha più volte ricordato come le periferie che viviamo oggi siano in realtà frutto dell’ideale socialdemocratico di fornire una casa individuale e dotata di servizi essenziali a tutti. Nonostante la rivoluzionarietà dell’idea, le contraddizioni su questo tema emergono però profondamente nel momento in cui migliori standard abitativi e di servizi, unitamente alla rivoluzione tecnologica di fine Ottocento, hanno prodotto un’esplosione demografica, diretta conseguenza della diffusione di un benessere maggiore, manifestatasi come esito nefasto e in incontrollabile. E’ da qui che hanno origine le sterminate periferie delle città contemporanee e conseguentemente i loro disagi. Lontano dalla critica, sottolineando l’esigenza di ripartire dalla nobilissima idea di fornire una casa ad ognuno, lei scrive che queste periferie sono oggi “un patrimonio di abitazioni immenso, scomodo da gestire” ma che richiede “un impegno coraggioso da parte di chi oggi sembra privo di una visione politica innovativa e attenta alla vita che nel frattempo ha colonizzato questa porzione di mondo”. Prendendo atto del suo possibilismo, dunque, è possibile oggi fornire una casa ad ognuno, garantendo standard dignitosi, senza dimenticare che la demografia da un lato impone oggi più che mai attenzione al tema della sostenibilità, dall’altro che le politiche di gentrificazione, selezionando un determinato tipo di utenza abitativa, non fanno altro che ampliare la forbice del divario sociale tra le zone di una città rinsaldando l’attuale idea di periferia?

La periferia nasce in qualità di altro-dal-centro e questo rimane come dato di fatto creando delle ritualità anche fisiche molto chiare; ci si allontanava dal centro fino al momento in cui, in accordo all’urbanisitica del dopoguerra, la città andava replicata, perseguendo un’idea quasi settecentesca di centro abitato. Oggi questo discorso è però molto più complesso, ci sono centri storici che sono periferie – pensa a Genova – e, al contrario, ci sono periferie che sono luoghi di preservazione di uno status – come Milano due o Milano tre. I territori hanno rimescolato le carte. Se oggi vai a Istanbul, Città del Messico, al Cairo, al di là di una lettura di tipo storiografico per cui si riconosce un centro effettivo attorno a cui l’insediamento è cresciuto, la città fuori è una specie di arcipelago di isole non scritto la cui fluidità cambia continuamente in base a mutamenti minimi. Il Bronx per esempio era orginariamente un quartiere di ricchi ebrei nel quale, però, la costruzione di una grande superstrada genera un mutamento tale da indurre gli ebrei a spostarsi altrove e lasciare l’accesso alla popolazione afroamericana. La città ha una continua capacità di mutare, rinegoziando continuamente le aree di benessere e quelle di depressione. Quello che è avvenuto, però, è che essa è sempre più orizzontale, sempre più vasta (i territori metropolitani sono ormai zone da venti milioni di abitanti). Se nel passato la città era un luogo che si poteva attraversare a piedi in una giornata, adesso sappiamo che la periferia di Città del Messico si sposta di trenta chilometri ogni anno – in qualche modo la città cresce, quelli che abitavano le case delle fasce esterne costruite con materiali poverissimi vedono stabilizzare le proprie abitazioni perché nuovi poveri continuano ad addensarsi ai limiti della città e così si generano periferie in continuo divenire. Quello a cui assistiamo oggi è un moltiplicarsi della dimensione di perifericizzazione che cambia a seconda delle aree, dettata da cambiamenti di tipo immobiliare e sociale dal momento che dove non c’è più un centro non c’è più una gerarchia apparente e ogni gruppo può rinegoziare la propria rendita. Da questo punto di vista quindi la responsabilità dell’amministrazione pubblica è ancora più forte, perché il potere politico deve avere la capacità di gestire quest’arcipelago evitando sperequazioni e sbilanciamenti di tipo sociale e immobiliare tra un’area e l’altra, lavorando sui servizi e l’infrastrutturazione diffusa, sul permettere alle persone di muoversi in maniera iper-distribuita e via così. La griglia tradizionale è saltata e c’è bisogno che in un nuovo assetto questi universi-mondi si parlino, tenendosi insieme. Io continuo a pensare che le periferie di oggi siano davvero un luogo di sperimentazione sociale, proprio perché nel frattempo le periferie hanno elaborato questa loro natura spesso senza aspettare l’amministrazione centrale. Le periferie di oggi sono luoghi da seconda o terza generazione al punto da essere quasi de facto delle nuove città, molte delle quali si sono organizzate anche grazie a reti sociali e azioni dal basso che hanno modificato e promosso la rigenerazione degli spazi a piano terra e che rendono valore all’intera zona. Credo sia importante, oltre a lavorare su una dimensione diffusa ed equilibrata dei servizi, incentivare anche le possibilità di autoraprresentazione per le diverse comunità in modo tale da “fare casa” in un determinato spazio grazie ad una virtuosa identificazione con esso. Se la periferia diventa una casa, te ne prendi cura, se rimane un dormitorio indistinto, resta un luogo da cui scappare in cui gli spazi vengono abbandonati a se stessi.

A maggio è uscito un saggio di Gianluca Didino intitolato Essere senza casa. La tesi centrale è che alla base della nostra percezione del mondo contemporaneo stia la perdita della casa, in ogni sua accezione. Dall’emergenza abitativa, esemplificata nella città di Londra oramai trasformata in una fortezza inaccessibile se non per la borghesia altofinanziaria, a quella climatica che promette disastri senza ritorno, l’autore sostiene che la sensazione di vivere in un mondo dalle coordinate impazzite derivi proprio dalla perdita progressiva della certezza della casa, sia a livello pragmatico che simbolico. Come si può conciliare il divenire, prodotto di un simile contesto instabile, rispetto ad una progettualità architettonica? Stiamo perdendo le case che siamo?

No, ma le case che abitiamo oggi sono certamente diverse da quelle di ieri. Ciò che dice Didino è vero, soprattutto per le nuove generazioni e aggiungo una cosa. La cultura borghese occidentale ha come pilastro cardine la solidità della casa: una famiglia esiste se possiede una casa. Di conseguenza, una madre e un padre avevano come primo obiettivo per i figli proprio la casa, al punto spesso di arrivare direttamente a comprargliela. L’Italia, peraltro, in questo aspetto è uno dei casi più esemplificativi a livello mondiale; fino a un decennio fa una famiglia italiana di ceto medio cambiava al massimo due case in tutta la vita, mentre una americana ne cambiava sei. Oggi la stessa famiglia italiana ne cambia circa cinque e questo è un segno della maggior fluidità del contesto in cui ci si muove. Ma proprio questo contesto fluidificato ha portato un ulteriore cambiamento, anche in relazione alle maggiori ristrettezze economiche post-crisi, e cioè che molte famiglie preferiscono investire sulla formazione dei figli piuttosto che comprargli una casa. Il cambio di paradigma che induce una famiglia borghese a mandare il figlio a studiare a Londra piuttosto che comprargli la villetta in campagna dimostra, in primo luogo, il mondo è più piccolo e le distanze, come sappiamo, sono diventate un problema relativo, ma soprattutto che si punta a un’educazione in grado di fornire un upgrade sociale e maggiori possibilità a cui l’idea della casa segue solo successivamente. Per quanto riguarda la progettualità, una verità è che la casa di oggi si sta restringendo. Chiunque abbia avuto un’esperienza da studente a Venezia, Bologna, Milano, sa bene che la casa è ristretta a una mezza stanza o direttamente al posto letto e questo vale anche per i lavoratori delle metropoli europee. La casa diventa il luogo dove dormi e le sue funzioni sono sempre più esternalizzate – basti pensare che gli interni di molte case nei paesi orientali sono prive di cucina perché mangiare fuori è la norma che si adegua meglio alla rapidità della società in cui si muovono gli abitanti. In generale, la tendenza della casa negli ultimi anni è stata quella di ospitare sempre più persone al suo interno e il mercato si è mosso in questa direzione. Tutto ciò però si scontra per l’ennesima volta con quello che abbiamo vissuto durante la pandemia, visto che restare chiusi nei venticinque metri quadri in cui ci ha costretto quel mercato di cui prima, è evidentemente inaccettabile. Questa pandemia – o la prossima – e più in generale la crisi ambientale sono elementi che incideranno inevitabilmente e porteranno a pensare nuove forme di abitare che sono la grande sfida visionaria dell’architettura di oggi. Quadrare il bilancio energetico insieme a forme di economia abitativa che considerino i desideri di individualità, sicurezza e condivisione degli abitanti, sono tra le risposte che l’architettura deve dare inserendosi in questo equilibrio instabile.

Quest’intervista è stata realizzata in occasione del Festivaletteratura (2020) di Mantova.

Luca Molinari critico, curatore e professore ordinario di Teoria e Progettazione dell’Architettura presso la Seconda Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, è stato direttore della Scuola di Design della NABA di Milano e ha curato mostre ed eventi di architettura e urbanistica per la Triennale di Milano e la Biennale di Venezia. Da anni scrive per numerose riviste e giornali e nel 2016 è uscito per l’editore Nottetempo il suo libro Le case che siamo, una riflessione che mescola l’architettura alle scienze umane per riflettere sulle forme e le ragioni dell’abitare contemporaneo.


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