Il problema dello Stato Islamico

Con la scomparsa di Massimo Campanini, che ci ha lasciati il 9 Ottobre all’età di 66 anni, perdiamo uno dei più apprezzati storici del Medio Oriente, nonché studioso della filosofia islamica. Su Scenari proponiamo un suo articolo dal titolo “Il problema dello Stato Islamico” pubblicato sul secondo numero della rivista “La rosa di nessuno” “Islam Inatteso” a cura di Paolo Branca e Massimo Campanini.

Questo breve articolo non è storico, ma critico; è una tappa di una riflessione in progress. Ho già pubblicato diversi scritti sulle medesime questioni [Campanini, 2008 e 2015], ma sono certo di non aver detto l’ultima parola. Il nodo principale sarebbe quello di prendere in considerazione i migliori ed i più acuti pensatori del mondo islamico al fine di acquisire una comprensione più precisa delle correnti attuali del pensiero politico. Mi concentrerò qui solo sul problema di comprendere dove si collocano i confini tra “Islam” e “politica”. Articolerò il mio ragionamento in sei punti.

1) Allo scopo di comprendere dove risiedano i confini tra la religione e la politica nell’Islam, un buon punto di partenza potrebbe consistere nell’analisi dello stato islamico, uno dei concetti più controversi di tutto il pensiero politico islamico. Partendo dalla definizione dello stato islamico come del sistema politico governato dalla sharī’a, la mia tesi è che, nonostante esistano altre idee che puntano in direzione contraria, la prassi politica islamica si mosse verso una precoce separazione dell’autorità pubblica e di quella religiosa. Dopo il fallimento del progetto di al-Ma’mūnesiste scarsa evidenza di un controllo califfale sulle autorità religiose o di un predominio del califfo sui giuristi e la giurisprudenza. Né gli ‘ulamā’ in quanto tali usurparono califfi e sultani del loro potere di governo. 

Il concetto di stato è uno dei più controversi del pensiero politico islamico, ed è stato ampiamente dibattuto. Nell’approcciare la questione, un primo problema che potrebbe essere utile risolvere è quello della definizione: che cos’è lo stato islamico? La risposta più ovvia, per utilizzare un’espressione di Patricia Crone, è che lo stato islamico è quello stato in cui la religione dirige gli affari temporali. In termini più precisi e raffinati, è lo stato in cui vige la sovranità di Dio (hākimiyya), espressa attraverso la Legge rivelata (sharī’a). La ricerca savant si è interrogata su quando e come il Corano e la sunna, ovvero gli elementi costitutivi della sharī’a, si sono formati. Naturalmente, le opinioni sono state e sono molto divergenti, e alcuni orientalisti hanno sostenuto che il Corano e la sunna non si sono formati all’epoca del Profeta Muhammad, ma in periodi più tardi. Se ciò è vero, è chiaro che uno stato islamico in cui governasse la sharī’a, non è mai esistito. Il fatto che la sharī’a è un prodotto storico, storicizza lo stesso concetto di stato islamico e lo proietta in una dimensione evolutiva. Il dibattito riguardante la formazione della sharī’a non ci interessa qui. Al di là della sua importanza storica, quello che risulta veramente significativo e decisivo è che, dal punto di vista musulmano, il Corano e la sunna sono i costituenti diretti dell’esperienza umana e profetica di Muhammad, così che, fin dagli inizi, essi hanno formato la base dello stato islamico. 

La questione successiva può essere formulata come segue: quando si verificò la circostanza eccezionale dell’implementazione della sharī’a e dunque della sovranità di Dio? La risposta più ovvia e obiettiva è: al tempo del Profeta, quando egli era ad un tempo capo di stato e latore della rivelazione a Medina (622-632). Ma questa situazione eccezionale gli sopravvisse? I musulmani sunniti risponderanno di sì, dato che considerano il tempo dei quattri califfi “Ben guidati” (rāshidūn) – Abū Bakr (632-634), ‘Omar (634-644), ‘Othmān (644-656) e ‘Alī (656-661) – come altrettanto benedetto da Dio. Essi credono che i quattro califfi hanno seguito l’esempio del Profeta e applicato la sharī’a. Qualche dubbio potrebbe sorgere alla luce del fatto che ben tre sui quattro califfi, tutti eccetto Abū Bakr, sono stati assassinati: la situazione era dunque lungi dall’essere idilliaca. In ogni caso, i musulmani sciiti rifiutano di riconoscere il carattere eccezionale dei califfi “Ben Guidati”, limitandosi ad asserire la superiorità di ‘Alī. Di conseguenza non esiste alcun accordo all’interno della stessa comunità musulmana. In ultima analisi, è altamente dubbio se il periodo dei califfi “Ben Guidati” può essere considerato una fase illuminata da Dio in cui venne stabilito uno stato islamico. 

Dal mio punto di vista, dopo i califfi rāshidūn, le dinastie Omayyade (661-750) e ‘Abbaside (750-1258) non possono certamente, allo stesso modo, essere considerate come creatrici di uno stato islamico. È difficile presumere che al loro tempo la sharī’a abbia governato lo stato, mentre modi differenti di amministrazione e di management politico, che possono forse essere raccolti sotto l’etichetta onnicomprensive di qānūn, sono stati realizzati limitando il ruolo della sharī’a. Va da sé che le dinastie dei sultani come i Buyidi, i Selgiuchidi, o più tardi gli Ayyubidi o i Mamelucchi possono ancor meno del califfato aver realizzato uno stato islamico. 

È chiaro comunque che l’idea di uno stato islamico implica la discussione della relazione tra religione e politica nell’Islam. Per definizione, uno stato islamico sembra implicare l’integrazione di religione e politica. Ciò di fatto può essere accaduto all’epoca del Profeta Muhammad a Medina. Muhammad era ispirato da Dio e da Dio riceveva la rivelazione, e alla luce di esse governava la comunità politica di Medina. Se questo è vero per il periodo di Muhammad e, come detto, almeno per quanto riguarda i sunniti, per il periodo dei Quattro califfi “Ben Guidati”, la situazione è certamente diversa con gli Omayyadi e gli ‘Abbasidi, quando, come sostenuto anche da Ibn Khaldūn, il califfato si era trasformato in mulk, e dunque il potere reso legittimo dalla religione era divenuto legittimo per l’uso della forza, la patrimonializzazione delle risorse e la tirannia.

L’argomentazione di Ibn Khaldūn conferma una linea storiografica oggidì largamente condivisa (Marshall Hodgson, Ira Lapidus, Patricia Crone and Martin Hinds [Campanini e Mezran, 2007, Introduzione], Abdullah Saeed [Saeed, 2003] e oso aggiungere anche me stesso [Campanini 2008]) secondo la quale una precoce separazione tra l’autorità politica e la funzione religiosa sarebbe una delle principali caratteristiche della teoria e della prassi del politico nell’Islam. Esistono motivi sia teoretici che storici a giustificare tutto ciò: 

In Islamic history, the absence of an institutional Church ensured that religion could not monopolize or control the public sphere. Rather, religion or the representatives of sharī’a law were always forced to compete to influence the public sphere in a variety of ways. Importantly, throughout Islamic history there has never been a single voice that represents the sharī’a law or the canons of religion. Historically, the Islamic faith and sharī’a law have been represented by several competing schools of theological and jurisprudential thought, the most powerful and notable of these organized into privately run professional guilds. Although the state often claimed to rule in God’s name, the legitimacy of such claims were challenged by these professional guilds. [Abou el-Fadl 2005, p. 22]

Il pluralismo delle voci, caratteristica naturale del modello islamico di pensiero, impedisce una stretta referenzialità incrociata tra religione e potere pubblico. D’altro canto, sebbene lo stato abbia preteso di essere legittimato dalla legge religiosa, non è riuscito a privare gli ‘ulamā’ dell’autorità religiosa o a porre un bavaglio alla società civile. Lo stesso può dirsi, ovviamente, della religione: essa non è riuscita ad impedire l’autonoma gestione del potere politico né a porre un bavaglio alla società civile. 

Quando il califfo ‘abbaside al-Ma’mūn (r. 813-833) tentò di imporre il controllo califfale sull’autorità religiosa attraverso l’imposizione della dottrina mu’tazilita del Corano creato e attraverso l’organizzazione della mihna, tentò di realizzare una forma di cesaro-papismo che doveva sottomettere l’autorità religiosa al mulk del califfo. È ben noto come siffatto progetto venne sventato dall’opposizione convergente degli ‘ulamā’ conservatori e tradizionalisti e del popolo stesso. Quando al-Mutawakkil (r. 847-861) abolì la mihna e inflisse un duro colpo al Mu’tazilismo, gli ‘ulamā’ furono in grado di asserire la loro autonomia rispetto al potere centrale. Ciò non significa che gli ‘ulamā’ reclamassero il controllo del mulk nello stesso modo in cui la Chiesa cattolica reclamò il controllo della spada temporale nei confronti dell’imperatore del Sacro Romano Impero germanico. Nel mondo musulmano, i due poteri coesistettero in parallelo, sebbene i sovrani pretendessero di governare in nome della religione e gli ‘ulamā’ di controllare autonomamente il potere legislativo. Nel suo Iqtisād fī’l-i’tiqād, in cui Abū Hāmid al-Ghazālī (1058-1111) afferma che “religione (dīn) e potere (sultān) sono gemelli (sinwān)”, egli non intende affatto sostenere che vi è un unico detentore dell’autorità religiosa e dell’autorità politica (come pretendevano, opponendosi l’uno all’altro, il papa e l’imperatore nel mondo cristiano medievale). Piuttosto, quello che egli intendeva dire è che il potere difende la religione e la religione sostiene il potere. In tal modo, emerge chiaramente la presenza congiunta di entrambe le autorità; e questo parallelismo caratterizza tutta la storia del mondo musulmano classico. 

2) L’affermazione di Noah Feldman per cui tutta l’esperienza “medievale” del governo fu, nel complesso, l’esito ultimo della realizzazione pratica dello stato islamico merita di essere discussa e confutata, anche perché quando Ibn Khaldūn descrive la trasformazione dello stato islamico dal califfato al mulk, descrive la separazione tra la religione e lo stato: il califfato era uno stato religioso fondato sulla ‘asabiyya; il mulk era uno stato secolare fondato sulla tirannia e sulla forza. 

In un libro recente e molto interessante [Feldman, 2008], Noah Feldman ha sostenuto, in netta antitesi a quanto ho affermato più sopra, che l’intera esperienza islamica “medievale” del governo sia stata, nel complesso, l’esito ultimo della realizzazione pratica dello stato islamico. Lo stato islamico è fondato sulla sharī’a ed è lo stato della Legge. Nel Medio Evo, la sharī’a era protetta e difesa dagli ‘ulamā’. I governanti erano sottomessi alla sharī’a e il loro governo era legittimato dagli ‘ulamā’. Attraverso la sharī’a e la Legge, gli ‘ulamā’ ebbero modo di creare i governanti e il governo. La costituzione islamica classica e tradizionale consisteva in uno stato “legale”, nel senso che il sistema era giustificato dalla Legge e amministrato attraverso la Legge. Per cui, si può dire che lo stato islamico sia stato pienamente implementato, costituendo anzi una sorta di teocrazia. 

Branca, Campanini, “Islam inatteso” n.2 della rivista “La rosa di nessuno” (Mimesis Edizioni, Milano 2020, pag. 118, 18€).

Molte ragioni mi spingono a rifiutare il paradigma di Feldman. Innanzi tutto, una teocrazia islamica non è mai esistita. L’Islam non è una teocrazia perché nell’Islam non esiste Chiesa. Inoltre, se è vero che, dopo il fallimento del progetto di al-Ma’mūn, vi è scarsissima evidenza di un controllo califfale sulle autorità religiose o di un dominio califfale sui giuristi e la giurisprudenza, così come neppure gli ‘ulamā’ poterono usurpare i califfi e i sultani del loro potere di governare; e se è vero che la sharī’a fu sottoposta all’elaborazione del tutto umana del fiqh e del qānūn –, ne deriva di conseguenza che Dio abbia cessato di regnare sulla Terra. La sharī’a si riduceva a puro punto di riferimento ideale attraverso il quale legittimare il controllo secolare del potere esercitato dai califfi e dai sultani. L’idea di stato islamico sopravvisse come mera prospettiva del passato. Quando Ibn Khaldūn descrive la trasformazione dello stato islamico da califfato in mulk, egli descrive la separazione di fatto tra la religione e lo stato: il califfato era uno stato religioso fondato sulla ‘asabiyya; il mulk ero lo stato secolare fondato sulla forza e la patrimonializzazione del potere. Questa è la ragione per cui, dal punto di vista di Ibn Khaldūn, il califfato è meramente un modello teleologico. Quando, nell’VIII/XIV secolo, il califfato era defunto e il sultanato trionfava, l’antico modello di governo dei Quattro califfi “Ben Guidati” poteva essere considerato come lo stato migliore mai realizzato sulla Terra – un autentico stato islamico. Esso, tuttavia, non può più al presente venire riprodotto, ma deve in ogni caso dirigere e illuminare l’azione politica degli attuali detentori del potere alla luce dei principi islamici della giustizia, dell’equità, del sostegno religioso all’autorità politica e del rifiuto della patrimonializzazione. 

Inoltre, se Feldman avesse ragione e lo stato islamico fosse stato reso islamico dai dotti in scienze religiose (‘ulamā’), non sapremmo spiegare e capire come mai sofisticati pensatori politici come al-Ghazālī e Ibn Jamā’a (due ‘ulamā’!) riconoscessero la supremazia dei sultani sui califfi in grazia del loro monopolio della forza. I sultani governavano non attraverso la Legge o attraverso gli studiosi in scienze religiose, ma attraverso la forza, le armi e il potere secolare, sfruttando la religione per i loro fini politici. Si giunse alla teorizzazione di un modello islamico di stato al posto dello stato islamico. Al-Mawardī (m. 1058) tentò di ricreare il califfato pur persuaso della sua debolezza: il califfato era lo stato islamico, ma doveva venire ricostituito nel V/XI secolo poiché aveva perso il controllo reale sull’impero e la società islamica. Ibn Taymiyya formulò la sua siyāsa shar’iyya poiché era consapevole che i governanti non stavano più applicando la Legge di Dio: era necessario formulare una politica (siyāsa) basata sulla Legge religiosa poiché la Legge religiosa (sharī’a) non era più in vigore. Ibn Khaldūn era convinto che il califfato – lo stato islamico – si era trasformato in un mulk, in un potere patrimoniale e tirannico: i nuovi governanti avevano dimenticato la sharī’a dei primi califfi ben guidati e governavano spinti dai loro interessi personali. La situazione perfetta del passato non era altro che un sogno, mentre la tirannia, la forza e l’ingiustizia prevalevano nel mondo musulmano. 

3) Piuttosto, nel pensiero politico islamico evolse un modello di utopia retrospettiva: il sistema politico perfetto si sarebbe realizzato ai tempi del Profeta e dei califfi rāshidūn. In siffatto sistema, religione e politica erano strettamente legati e l’unione tra dīn dawla rappresenta la precondizione dell’utopia retrospettiva, sebbene il Profeta non fosse stato un re né la società medinese uno stato (secondo l’idea contemporanea dello stato).

Lo sviluppo del pensiero politico islamico produsse di fatto una utopia retrospettiva. Grazie all’opera di prestigiosi ‘ulamā’, a partire da Ibn Hanbal per continuare con i teologi Ash’ariti, prese forma l’idea, che è in seguito, come già detto, divenuta comune tra i sunniti, che il periodo dei Califfi Ben Guidati sia stata un’estensione dell’epoca eccezionale di Muhammad. Venne di conseguenza elaborata l’idea che lo stato islamico non si fosse incarnato solo a Medina, allorché Muhammad governava in nome di Dio, ma anche nell’era travagliata delle lotte di potere intestine dei primi califfi (specialmente ‘Othmān e ‘Alī). I tre decenni dei califfi ben guidati divennero (contro ogni verosimiglianza storica) un’età dell’oro, un mito, da essere riprodotto e imitato analogamente alla straordinaria esperienza del Profeta. La costruzione di questa mitologia sarebbe ingiustificabile e di fatto priva di senso se gli ‘ulamā’ fossero stati capaci di garantire la legittimità del potere dominante sulla base della sharī’a. La sovranità di Dio (hākimiyya) sarebbe stato il governo reale e autentico senza alcuna necessità di proiettarlo nel passato.

Siffatta idea di utopia retrospettiva ha bloccato l’ulteriore eviluppo del pensiero politico sunnita, che non fu in grado di formulare una teleologia della storia. Per costruire il futuro bisogna guardare al passato: una chiara distorsione del tempo storico. Furono piuttosto gli Shi’iti, elaborando il concetto di imamato (l’imam nascosto e atteso alla fine dei tempi), che colsero il significato teleologico della storia. 

4) La secolarizzazione del potere è stata messa in discussione dalle correnti islamiste contemporanee, che hanno riesumato sia l’idea dello stato islamico sia l’utopia retrospettiva del perfetto sistema di governo del Profeta. D’altro canto, l’esegesi politica del Corano – cioè il fatto di leggere il Corano come un intero allo scopo di costruire una dottrina politica – è un fenomeno del Ventesimo secolo associato al cosiddetto fondamentalismo islamico. 

In età contemporanea, i movimenti radicali islamici sunniti hanno sistematicamente resuscitato l’immagine deformata dell’utopia retrospettiva dello stato islamico. Le rigidità che si possono individuare nella loro concezione giuridica e politica – compresi comportamenti aberranti come l’applicazione delle pene corporali o l’emarginazione delle donne – dipendono dalla convinzione che è necessario o sufficiente riprodurre le condizioni del tempo del Profeta per risolvere, attraverso lo stato islamico, tutti i problemi della società musulmana. Si tratta in altre parole, come dice Feldman, di restaurare il ruolo della Legge. Non della legge degli ‘ulamā’, tuttavia, ma della Legge del Profeta. 

D’altro canto, la rivendicazione dello stato islamico da parte dei movimenti radicali sunniti presenta, in età contemporanea, un duplice aspetto innovativo: 

a) contraddice la secolarizzazione del potere, tradizionale nella prassi islamica e nella dottrina del pensiero politico, rinnovando un’idea di teocrazia che – come abbiamo detto – non è rinvenibile nell’Islam classico. Come ha scritto Aziz al-Azmeh:

It is a seldom appreciated fact that political exegesis of the Koran, that is reading the Koran as a whole for the purpose of constructing political theory, is a twentieth-century phenomenon associated with integralist Islamic fundamentalism, without precedent in the classical and medieval periods, just as the slogan ubiquitous today that Islam is at one “religion and state” is a product of the twentieth century. [Al-Azmeh, 2007, p. 197]

Questo punto cruciale è un indizio di modernità nella concezione dello stato islamico. 

b) Va incontro alla necessità del mondo moderno di elaborare una struttura politica istituzionale in cui l’Islam “autentico” possa esprimersi. Si tratta precisamente dello stato islamico come opposto e alternativo allo stato moderno (o post-moderno). Dopo la fine della decolonizzazione e il tramonto dello stesso stato post-coloniale, gli stati che sono emersi dal fallimento tanto delle primitive esperienze liberali quanto delle successive esperienze socialiste del Ventesimo secolo sono organismi politici basati sul capitalismo selvaggio, sulla patrimonializzazione del potere da parte delle elite dominanti e sulle ineguaglianze sociali. In rapporto a siffatte distorsioni ideali e pratiche, il mito dello stato islamico appare come la panacea per risolvere, precisamente in senso islamico, le contraddizioni del presente. 

5) In ogni caso, esiste una differenza sostanziale tra i movimenti islamisti radicali e moderati. Il movimento islamista moderato della Wasatiyya ha formulato una nuova proposta di stato islamico fondato sulle idee politiche islamiche classiche. Alla luce dei concetti di Antonio Gramsci di egemonia e di società civile, sostengo che la consultazione (shūrà), la giustizia (‘adl), la libertà (hurriyya), l’uguaglianza (musāwāt), la responsabilità dei governanti e l’obbedienza dei governati (in altri termini, il problema del consenso o ijmā’), la prescrizione del Bene e la proibizione del male (al-amr bi’l-ma’rūf wa al-nahy ‘an al-munkar) costituiscono le necessarie pietre angolari della versione contemporanea dello stato islamico. 

Sebbene il tentativo di interpretare le categorie del pensiero politico islamico utilizzando strumenti concettuali derivati dal pensiero politico occidentale possa sembrare surrettizio, credo sia essenziale, come sostenne anche Averroes/Ibn Rushd quando patrocinò l’uso della filosofia greca nell’orizzonte mentale dell’Islam, servirsi di strumenti euristici che possono condurre a un’analisi sofisticata delle questioni teoriche, anche se provengono da un contesto di civiltà differente. 

Data la nuova funzionalità e operatività politica del concetto di stato islamico – che coinvolge non solo i movimenti radicali, ma anche, in buona misura, l’elaborazione teorico-politica degli intellettuali musulmani moderati –, è opportuno considerarne alcune caratteristiche generali. A questo riguardo, sovviene il pensiero di Antonio Gramsci, che ha enunciato il problema dirimente dell’egemonia. Il blocco politico-sociale tra governanti e governati all’interno dello stato implica un discorso egemonico nella conduzione della società. Se, fino a un certo momento, questo discorso egemonico ha visto la dominazione di una classe su un’altra (la borghesia sul proletariato), si tratta adesso di identificare le sue articolazioni in una condizione di: 1) crisi o collasso delle ideologie; 2) scomparsa di una opposizione di classe. Sebbene non sia più questione di sovranità, ma di governamentalità (come mostrato da Foucault), il problema egemonico della leadership morale (intellettuale) e politica della società è tuttavia ancora vivo. Possiamo utilizzare Gramsci come la cartina al tornasole per individuare le caratteristiche dello stato islamico.

Come si situa il concetto di stato islamico in rapporto a questa categorizzazione, assunta in senso euristico e strumentale?

1)  Il concetto di classe viene rimpiazzato dal concetto ecumenico di Comunità dei credenti (umma). L’uguaglianza di tutti i credenti è garantita dal fatto che sono posti orizzontalmente di fronte a Dio, a sua volta garanzia di giustizia e di equità. 

2)  L’egemonia sembra essere riservata agli ‘ulamā’, agli intellettuali religiosi maggiormente a contatto con la massa. Questa posizione pare, tuttavia, piena di rischi, per quanto il popolo può essere espropriato dagli ‘ulamā’ del suo diritto di sovranità. Un altro rischio consiste nel ruolo carismatico attribuito alla società, a sua volta rappresentante della umma, a causa del possibile emergere di un leader populista o demagogico. 

3)  Il consenso è raggiunto attraverso la shūrà o consultazione. La consultazione può assumere la forma del governo parlamentare, ma può anche assumere la forma di una democrazia diretta attraverso la cancellazione delle sovrastrutture intermedie (in certo senso, questo è il significato dell’esperimento politico di Gheddafi). Due categorie gramsciane possono essere riesumate e rivalutate in relazione alla shūrà: la volontà collettiva (incarnata nel partito) e la democrazia partecipativa (rappresentata in Gramsci dai consigli di fabbrica egemonizzati dalle organizzazioni dei lavoratori e dai sindacati).

4)  Un ruolo centrale deve essere riservato alla sharī’a. Ciò che è importante è capire che cos’è effettivamente la sharī’a, come debba essere interpretata e articolata. Nelle elaborazioni più acute e avvertite, come quelle dei ben noti intellettuali ‘Abdullahi al-Na’īm, Khaled Abou el-Fadl e anche Tariq Ramadan [Ramadan 2003], la sharī’a conserva il suo valore etimologico di “via”, cioè di riferimento fondativo del sistema normativo, perdendo nel contempo la sua natura regolativa. Le leggi sono elaborate da uomini per venire incontro a contingenti necessità umane. La sharī’a è la pietra angolare su cui si costruisce lo stato, ma deve essere intesa come una via e una direzione, non come un sistema normativo; la sharī’a è la fondazione ideale non la realizzazione pratica. Il sistema normativo, anzi, è solo il frutto dell’attività umana, non dell’intervento divino, sebbene la rivelazione, il Corano e la sunna, siano i riferimenti obbligatori della prassi legale, sociale e politica. 

Queste osservazioni forniscono appena il sistema generale di riferimento. È importante osservare che ci sono considerevoli differenze tra le concezioni dei movimenti radicali e quelle degli intellettuali “moderati” che formano la spina dorsale della wasatiyya. Lo stato islamico, nell’elaborazione dell’islamismo radicale, fa stretto riferimento alle fonti, per esempio invocando un’inflessibile e letterale applicazione della sharī’a. Questa “esagerazione” sul ruolo applicativo della Legge è remota dalla via “mediana” del Corano. Lo stato islamico, nella elaborazione degli intellettuali della corrente “mediana” dell’Islam contemporaneo (Wasatiyya), si focalizza su un processo egemonico su base religiosa. 

6) Non essendo un fine in sé, ma soltanto un mezzo per facilitare l’applicazione delle ordinanze della Legge, lo stato islamico non assume un’unica forma, ma molte, e tocca ai musulmani di ogni epoca storica di scoprire quella che appare più adatta alle loro necessità. Da questo punto di vista, non vi è alcun obbligo di presumere una identità istituzionale tra religione e politica al fine di implementare lo stato islamico, che può assumere la forma di una democrazia partecipativa e non di una teocrazia. Lo sviluppo di una società civile nel mondo islamico punta verso l’implementazione di una democrazia partecipativa. La democrazia partecipativa rappresenta una chiara alternativa al fallimento della democrazia rappresentativa. 

In questo orizzonte, la relazione tra religione e politica è più etica che istituzionale. Eticamente, la religione ispira lo stato islamico, ma, istituzionalmente, lo stato islamico può acquisire diverse forme e modelli. È chiaro che pensatori islamici di orientamenti diversi come Sayyid Qutb o Muhammad Mitwallī al-Sha’rāwī hanno sostenuto che non è la “forma” dello stato a identificarlo in quanto islamico. Come ha scritto Syed Khatab: 

As an Islamic state is not an end in itself but only a means that facilitates the ordinances of the law [sharī’a] and manages the affairs of the people, [it is obvious that] the political ordinances of the sharī’a do not prescribe a specific form to which an Islamic state must conform. Thus, there is not only one form of the Islamic state, but many, and it is for the Muslims of every period to discover the form most suitable to their needs. […] As for the manner or the method of consultation [shūrà], no particular system or model has been specified, so its application is left to existing circumstances and needs. This consultation did not follow any established or formally defined system but left it to the Muslims to devise the best method or system of their age. [Khatab e Bouma, 2007, pp. 21, 16, 35-36]

Come questi presupposti generali possano evolvere rimane da essere verificato nel futuro. Si tratta di presupposti che possono essere armonizzati con la visione politica moderna di uno stato che effettivamente governa? Dobbiamo tenere a mente che i paesi musulmani si trovano in uno stadio di sviluppo politico diverso da quello delle cosiddette democrazie occidentali. Nei paesi musulmani vi è probabilmente ancora spazio per costruzioni politiche che non si traducano in una crisi di rappresentatività. Secondo l’analisi di Danilo Zolo, la democrazia rappresentativa è estremamente inefficiente e inadeguata oggidì. «La democrazia parlamentare [oggi] cede il passo alla “videocrazia”. I partiti politici di massa scompaiono perché le loro direzioni centrali non ricorrono più al proselitismo degli iscritti e dei militanti. Strumenti molto più efficaci ed economici sono i canali delle televisioni pubbliche e private. In questo senso i nuovi soggetti politici non sono più dei “partiti”: sono delle ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria tra loro, si rivolgono alle masse dei cittadini-consumatori esibendo, secondo precise strategie di marketing televisivo, i propri prodotti simbolici. Come Norberto Bobbio ha osservato, si è verificata un’inversione del rapporto tra controllori e controllati: sono gli eletti a controllare gli elettori e non viceversa». [Zolo, 2007, p. 49] È ovvio che, in questo modo, non esista più alcun tipo di rappresentazione; al contrario, la rappresentazione si è trasformata in un inganno anti-democratico o post-democratico. 


Riferimenti Bibliografici

Abou El-Fadl K. (2005), The Greatheft. Wrestling Islam from the Extremists, Harper Collins, New York.
Al-Azmeh A. (2007), The Times of History: Universal Topics of Islamic Historiography, Central European University Press, Budapest and New York.
Campanini M. – Mezran K. (2007), Arcipelago Islam. Tradizione, riforma e militanza in età contemporanea, Laterza, Roma-Bari.
Campanini M. (2008), Ideologia e politica nell’Islam, Il Mulino, Bologna.
Campanini M. (2015), Islam e politica, Il Mulino, Bologna.
Feldman N. (2008), The Fall and Rise of the Islamic State, Princeton University Press, Princeton and Oxford.
Khatab S. – Bouma G. (2007), Democracy in Islam, Routledge, London and New York.
Linz J. – Stepan A. (1996), Problems of Democratic Transition and Consolidation: Southern Europe, South America and Post-Communist Europe, Johns Hopkins University Press, Baltimore.
Ramadan T. (2003), Les Musulmans d’Occident et l’avenir de l’Islam, Actes Sud, Arles.
Saeed A. (2003), «The official ulema and Religious Legitimacy of the Modern Nation State», in saeed a. – akbarzadeh s. (ed.), Islam and Political Legitimacy, Routledge, London and New York. 
Zolo D. (2007), «La questione mediterranea», in cassano f. – zolo d. (eds.), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano.

Questo articolo è tratto da Branca, Campanini, Islam inatteso, n.2 della rivista “La rosa di nessuno” (Mimesis Edizioni, Milano 2020, pag. 118, 18€).



Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139