Il medico immaginario

Prima di metter mano a rispolverare la mia biblioteca non sapevo che Molière avesse composto nell’arco di quattordici anni, fino alla morte, la tetralogia del cosiddetto “théâtre médical”: 1659, Le Médecin volant; 1665, L’Amour médecin; 1669, Monsieur de Pourcegnac, 1673, Le Malade imaginaire.
Il significante médecin innervava il sintomo nevrotico del Molière ipocondriaco. Neanche lui lo avrebbe negato. Era – avrebbe detto Lacan – il suo signifiant maître. Grazie al sintomo individuale di Molière, che struttura in modo tanto singolare la nevrosi dell’artista, possiamo capire qualcosa della struttura pubblica del discorso medico che, nonostante le ricorrenti rivoluzioni scientifiche, non è sostanzialmente cambiata dalla fondazione della scuola ippocratica di Cos (V secolo a.C.) ai giorni nostri.
A dispetto dell’assetto individualistico del rapporto medico-malato, la medicina è essenzialmente e prima di tutto un fatto collettivo, culturale ancora prima che pratico. In effetti, la medicina non si limita a trattare le malattie organiche dell’individuo o della collettività (epidemie e pandemie). Dopo aver occupato il terreno della psicologia, il discorso medico ha invaso prepotentemente i principali settori della cultura, esclusi forse solo quelli artistici; allora in economia si parla di mali da curare, di crisi da superare, di terapie da attuare; in psicanalisi si parla di psicoterapia come cura delle nevrosi; in filosofia la correlazione con il discorso medico va al cuore dei due discorsi; in ontologia si parla dell’essere come in medicina si fa riferimento all’essere che sta per non essere più e il medico si accanisce a tenere in vita; il filosofo parla di essere-alla-morte come il medico parla di essere alla vita, finché ce n’è. La medicina arrivò a contaminare la filosofia di Nietzsche, tra le cui carte di Basilea si è trovato un progetto del 1873 intitolato Il filosofo come medico della civiltà (Kultur). Curiosamente, tra i colleghi psicanalisti, i più attaccati all’aspetto psicoterapeutico della psicanalisi sono letterati e filosofi; i colleghi medici sono in generale scettici sul valore terapeutico della cura analitica, ben sapendo che la cura psicologica è di serie B.
Sul punto val la pena entrare nei dettagli. Entrambe, ontologia e medicina, hanno una base metafisica comune; entrambe si reggono sul principio di ragion sufficiente, il quale, secondo Schopenhauer, ha quattro radici che risalgono ad Aristotele: la causa efficiente è la causa del divenire, la causa formale regola il conoscere tramite le leggi logiche di identità e non contraddizione; la causa materiale materializza l’essere; la causa finale orienta la volontà, la cui azione è diretta a un fine. In medicina si parla ancora in termini greci di eziologia. Ogni evento morboso ha la propria causa, l’agente morboso: dal virus all’ambiente, dal gene allo stile di vita; ogni azione terapeutica del medico è la controcausa, nelle intenzioni specifica, diretta contro l’agente morboso al fine di ristabilire l’equilibrio fisiologico da esso alterato e ripristinare lo stato premorboso.
Chiaro, no? La medicina spazia dal buon senso al senso filosofico, in versione ontologica; difficile sfuggire alla sua presa. Ancora oggi, a Natale, il re di Svezia dispensa premi Nobel per la medicina. Forse crede che la medicina sia una scienza, alla pari di fisica, chimica o economia? O che la medicina sia letteratura? Le grandi librerie delle Weltstädte, New York, Berlino, Parigi e… mettiamoci anche Milano, allineano i libri di medicina accanto a quelli scientifici. Un abbaglio, secondo me; il buon senso confonde scienza e conoscenza, Galilei con l’Ulisse dantesco: una differenza gigantesca. La medicina è conoscenza di quel che c’è: la malattia del malato; la scienza è congettura su quel che non c’è ancora, ma sarà prodotto – forse – dal dispositivo sperimentale. Il Large Hadron Collider di Ginevra, una macchina lunga 27 km, ne è l’esempio macroscopico. Come confondere scienza e medicina, ricerca pura e applicazione?
Chi non si fa ingannare dalla medicina è l’artista, Molière nel caso. Perché? Perché l’artista non è un soggetto ontologico, quindi non è né ipnotizzato dall’essere parmenideo né affascinato dal divenire eracliteo. L’artista è un soggetto epistemico; se la fa con il sapere, in particolare con il saper fare. Gli antichi Greci definivano l’arte téchne; non era la nostra tecnica, tanto meno la nostra tecnoscienza. Prima ancora che mimesis, partecipazione alla realtà, o metessi, partecipazione all’idea, per l’antico greco l’arte era sapere tecnico.

E la satira di Molière sa il fatto suo. Non sbaglia di molto presentando la medicina essenzialmente come un rito: è un rito la lunga procedura di formazione del medico, addestrato a non sapere altro che quel che sta scritto sui sacri testi; è un rito la pratica al letto del malato, codificata da un codice di procedura medica rigorosamente stabilito, parente del codice di procedura penale, addirittura rilegato nello stesso vademecum da cui il medico molieresco non si separava. Infatti, ogni medico doveva, ieri come allora, “pararsi il culo” nei confronti dell’azione legale del paziente contro di lui, nel caso la terapia fallisse. Succedeva ieri come oggi, con la variante lucrativa per le compagnie di assicurazione; oggi non c’è ortopedico o dentista che non sia assicurato contro i rischi professionali. Insomma, la medicina, lungi dall’essere una scienza fatta per pura curiosità, è da sempre stata medicina legale: legalizza un vuoto di sapere sul soggetto, mascherato da un pieno di sapere sull’oggetto, che è legalmente riconosciuto e può essere legalmente distribuito dalla lobby medicale. Il terzo intermezzo del Malato immaginario sull’oppio che fa dormire perché ha la virtus dormitiva è di un’ironia sferzante sul sapere tautologico di certa medicina omeopatica. L’ironia sulle virtù effettuali delle cause è ribadita da Nietzsche in Al di là del bene e del male, aforisma 11, ma si rifletta anche sull’aforisma 10 di Aurora sulla Proporzionalità inversa tra senso dell’eticità e senso della causalità. Faccio mie le considerazioni nietzscheane a proposito delle virtù metapsicologiche delle pulsioni freudiane.
Scopro finalmente le mie carte. Perché questo Umweg attraverso la medicina immaginaria? Perché me la prendo con la medicina? Sarò mica ipocondriaco anch’io?
No, non sono né ipocondriaco né paranoico: non me la prendo né con i medici né con la medicina. Me la prendo con la psicanalisi di certi psicanalisti ostinati a mettere sul mercato la propria pratica come cura medica della vita psichica, di cui prendono in considerazione solo la psicopatologia delle malattie mentali, che non sono malattie mediche.
Allora mi chiedo: perché mai la psicanalisi dovrebbe condividere l’immaginario del mio medico di base o del mio dentista? Loro si prodigano per farmi recuperare lo stato di salute precedente la malattia a suon di antibiotici, antiipertensivi, antiqualcos’altro. Non che non siano bravi, ma non sono uomini di scienza e neppure si spacciano per tali, in verità; sono tecnici onesti che applicano ritrovati scientifici escogitati altrove e in qualche caso anche convalidati con esperimenti randomizzati in doppio cieco; non congetturano nulla di nuovo, come raccomandava un grande epistemologo del XIX secolo, Ernest Naville, che in pieno positivismo proponeva per la ricerca scientifica una logica congetturale mezzo secolo prima di Karl Popper.
E, non da ultimo, non va passata sotto silenzio la portata trasgressiva della proposta scientifica autentica, non ancora asservita al capitale. La scienza congetturale – dalla teoria fisica delle stringhe alle teorie biologiche darwiniane sull’interazione individuo/specie – trasgredisce il senso comune, prima ancora di quello filosofico, perché è afinalistica; da Cartesio in poi, la vera scienza non la si può integrare in nessuna “tecnoscienza”, perché non contempla finalità produttive. La scienza è trasgressiva fino al punto di snobbare i dettati dell’ideologia marxiana, che pretende di interpretare i fenomeni culturali come epifenomeni dei sottostanti meccanismi dei rapporti di produzione. La scienza ek-siste rispetto alla produzione perché, non avendo telos, produce altro da quel pretende il padrone. In linea di principio il capitale non sarebbe in grado asservire la scienza alla legge del profitto, anche se poi di fatto ci riesce fin troppo bene. (Ma allora l’asservimento è dell’uomo di scienza, non della sua scienza.) La scienza autentica non serve a niente; è quasi come la filosofia o la vera psicanalisi, che non ha come telos neppure la guarigione dal sintomo nevrotico. La psicanalisi, infatti, quando non è psicoterapia, produce futilità: un mucchietto di significanti che rappresentano il soggetto per altri significanti. Nient’altro.
Sì, dopo aver puntigliosamente tradotto e commentato per i tipi di Mimesis, insieme a Davide Radice, più puntiglioso di me, La questione dell’analisi laica (1926) di Freud, continuo a non capire perché Freud si ostinasse tanto a giustificare davanti al tribunale della ragione la propria invenzione della psicanalisi come cura medica di malattie che non sono mediche, le nevrosi.
O forse sì, riesco a capire Freud. Come tutti noi, che pure non siamo alla sua altezza, Freud non riusciva a rinunciare alla teleologia. Immaginava di avere uno scopo nella vita: curare l’essere, come ogni medico e come certi filosofi, senza curarsi troppo del sapere (anche se del sapere inconscio Freud un po’ si curava). Un telos vale l’altro; ogni telos è immaginario, perché l’immaginario è strutturato in modo teleologico. L’immaginario maschile è addirittura troppo semplice; quello femminile, solo un po’ più complicato, l’isterica immaginando di far fallire l’immaginario maschile. Ma tutti hanno uno scopo nella vita. Non si scappa dall’immaginario. Lo diceva anche un famoso caballero televisivo dei miei tempi: “Bambina sei già mia. Chiudi il gas e vieni via”.
Sì, mi manca un Molière che mi metta in scena una comédie-balet sullo Psicanalista immaginario. Forse un Molière mi farebbe capire meglio questa medicalizzazione della vita psichica.
Dai, provaci ancora, Moretti!
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