Diderot: come nasce un’Enciclopedia

Il 5 ottobre 1713 nasceva a Langres Denis Diderot, figura cardine del pensiero illuminista, di cui incarnò gli ideali di amore del sapere in tutte le sue forme e di lotta all’ignoranza e alla superstizione religiosa. Su Scenari proponiamo un estratto di “Lettere a Sophie“, la corrispondenza tra Diderot e l’amante Louise- Henriette Volland , soprannominata dall’autore “Sophie” in onore della “culla della filosofia”.

Parigi, 12 ottobre 1759

Io vedo, mia tenera amica, che Grimm non ha eseguito bene la sua commissione. Io vi scrivevo da casa sua l’altra sera; voi avreste potuto ricevere la mia lettera ieri mattina presto, sapere che alle nove sarei stato presso il Barone e dirmi una piccola parola di saluto. Noi pranzammo da Montami con la gaiezza che vi ho detto. Alle sei ero nel viale d’Argenson. Guardai più volte sopra una certa panca, guardai anche nei dipressi; ma non vidi né quella che desideravo, né quella che temevo; e pensai che il tempo incerto e freddo vi avrebbe trattenuto in casa, in conversazione con il grosso abate, e che questi forse rivolgeva a vostra madre domande alle quali voi avevate la bontà di rispondere per lei. Vi ho promesso i particolari di quel che si è detto fra d’Alembert e me; eccolo quasi parola per parola. Egli cominciò con un esordio melato; era il nostro primo incontro dopo la morte di mio padre e il mio viaggio in provincia. Mi parlò di mio fratello, di mia sorella, del mio assestamento domestico, della mia piccola fortuna e di tutto ciò che poteva interessarmi e dispormi ad ascoltarlo favorevolmente. Poi aggiunse (giacché bisognava pur venire ad un argomento al quale avevo la malignità di rifiutarmi): “Questa assenza ha dovuto rallentare un poco il vostro lavoro. – È vero, ma da due mesi ho ben compensato il tempo perduto, se è perdere il tempo assicurarsi la propria sorte avvenire. – Siete dunque molto avanti? – Molto avanti; i miei articoli di filosofia son tutti fatti; non sono né i meno difficili né i più corti; e la maggior parte degli altri sono abbozzati. – Vedo che è tempo ch’io mi ci metta. – Quando vorrete. – Quando gli editori lo vorranno. Io li ho visti. Ho fatto loro proposte ragionevoli; se le accettano, mi dò all’Enciclopedia come prima; altrimenti, adempirò ai miei impegni a stretto rigore. L’opera non ne sarà migliore, ma non avranno nulla di più da chiedermi. – Qualunque decisione voi prendiate, io ne sarò lieto. – La mia situazione comincia a diventare sgradevole; qui non si pagan punto le nostre pensioni; quelle di Prussia, son interrotte; noi non riscuotiamo più gettoni all’Accademia francese. Io non ho d’altronde, come voi sapete, che una rendita assai modica; non dò il mio tempo, né le mie cure ad alcuno, e non sono più disposto a farne dono a quella gente. – Non vi biasimo; bisogna che ciascuno pensi a sé. – Rimangono ancora sette volumi da fare. Mi davano, credo, 500 franchi al volume quando si stampava, bisogna che me li continuino; costerà loro un migliaio di scudi; sono ben da compiangere! ma così posson contare che prima della prossima Pasqua il resto del mio lavoro sarà pronto. – È dunque quello che domandate? – Sì. Che cosa ne pensate? – Io penso che se, invece di fare l’arrabbiato, l’adirato, come faceste sei mesi fa, quando ci riunimmo per deliberare intorno alla continuazione dell’opera, aveste fatto queste proposte agli editori, le avrebbero accettate immediatamente; ma oggi che hanno le più forti ragioni per non esser ben disposti verso di voi, è diverso. – E quali sono queste ragioni? – Me le domandate? – Senza dubbio. – Ed io ve le dico. Voi avete un contratto cogli editori; i vostri onorari vi son stipulati, voi non potete chieder niente di più. Se voi avete lavorato più di quanto avreste dovuto, è per interesse verso l’opera, per amicizia verso di me, per riguardo a voi stesso: sono cose che non si pagano in denaro. Tuttavia vi hanno mandato venti luigi ad ogni volume; sono centoquaranta luigi che avete ricevuto e che non vi eran dovuti. Voi progettate un viaggio a Wesel in un momento in cui eravate loro necessario qui; non vi trattengono; per di più, voi mancate di denaro ed essi ve ne offrono. Accettate da loro cento luigi; dimenticate questo debito per due o tre anni. In capo a questo termine abbastanza lungo, pensate a sdebitarvi. Essi, cosa fanno? Vi ritornano la vostra ricevuta lacerata, e sembrano solo contenti per avervi reso un servigio. Sono schiette prove di amicizia che sembra necessario dovervi ricordare. Tuttavia, voi abbandonate un’impresa nella quale hanno impegnato tutta la loro fortuna; un affare di due milioni è una bagattella che non merita l’attenzione di un filosofo come voi. Voi sviate i loro lavoratori, li gettate in un mare di guai da cui non si solleveranno tanto presto. Voi non vedete che la piccola soddisfazione di far parlare di voi per un momento.

Denis Diderot, Lettere a Sophie (Editoriale Jouvence, Milano 2020, pag. 186, 14€).

Essi sono nella necessità di rivolgersi al pubblico; bisogna vedere come trattan bene voi e come sacrifican me. – È un’ingiustizia. – È vero, ma non sta in voi rimproverarla loro. E non è tutto. Vi passa per la mente di raccogliere differenti frammenti sparsi dell’Enciclopedia; nulla è più contrario al loro interesse; ve lo fanno presente, voi insistete, l’edizione si fa, essi ne anticipano le spese, e voi ne dividete il profitto. Sembrava che, dopo aver pagato due volte la vostra opera, fossero in diritto di considerarla come di loro proprietà. Tuttavia, voi andate a cercare un altro editore e gli vendete alla rinfusa quel che non vi appartiene – Mi hanno dato mille motivi di malcontento. – Che scusa! Non ci sono piccole scuse fra amici. Tutto si pesa, perché l’amicizia è un commercio di purezza e di delicatezza; ma gli editori sono vostri amici? e non li onorate forse troppo, con un esame così scrupoloso del loro modo di agire? Se sono vostri amici, la vostra condotta verso di loro è orribile. Se non lo sono, non avete nulla da obbiettar loro. Sapete, d’Alembert, a chi spetta di giudicare tra essi e voi? Al pubblico. Se facessero un avviso e lo prendessero per arbitro, credete che si pronunzierebbe in vostro favore? no, amico mio; lascerebbe da parte tutte le minuzie, e voi sareste coperto di vergogna. – Come, Diderot, voi prendete la parte degli editori! – I torti che hanno con me non m’impediscono punto di scorger quelli che voi avete verso di loro. Dopo tutta questa ostentazione di fierezza convenite che la vostra parte odierna è ben misera. Comunque, la vostra domanda mi sembra bassa, ma giusta. Se non fosse così tardi, andrei a parlar loro. Domani parto per la campagna: scriverò loro di là. Al mio ritorno, voi saprete la risposta; nell’attesa lavorate sempre. Se vi rifiutano questi mille scudi ve li offro io. – Voi vi burlate di me. Vi aspettavate che io li accettassi? – Non lo so, ma, provenendo da me, non vi avvilirebbero. – Dite che io m’impegno soltanto per la mia parte. – Essi non ne vogliono di più, e neppur io. – Non più prefazioni. – Se anche ne voleste fare in seguito, non lo potreste. – E perché? – Le precedenti ci hanno già richiamato tutti gli odii da cui siamo colpiti. Chi mai non vi è insultato? – Io rivedrò le bozze secondo il solito, dato che ci sia. Maupertuis è morto. Gli affari del re di Prussia non sono disperati. Potrebbe chiamarmi. – Si dice ch’egli vi chiami alla presidenza della sua Accademia. – Mi ha scritto, ma ciò non è ancora avvenuto. – Ogni cosa a suo tempo. Buona sera”. Erano le sette e mezzo; il viale diventava freddo; la carrozza di monsignore mi aspettava; avevo promesso a Grimm che sarei stato da lui fra le otto e le nove; dunque ci separammo. Rientrai al Palazzo Reale; parlai circa tre quarti d’ora con Montami. I costumi furono il nostro tema; io dissi in argomento molte cose di cui non mi ricordo più, se non che gli uomini hanno una strana opinione della virtù; credono che sia a loro disposizione, e che si diventi onest’uomo dall’oggi al domani. Conservano la loro biancheria sporca sin che hanno cattive azioni da compiere, e ne fanno per tutta la vita, giacché non si abbandona un’abitudine viziosa come una camicia. È peggio che la pelle del centauro Nesso; non la si strappa senza dolori e senza lamenti; è più presto fatto di restare come si è. Oh! amica mia, non facciamo il male, amiamoci per renderci migliori, siamoci, come lo siamo stati, censori fedeli l’uno all’altro. Rendetemi degno di voi, ispiratemi quel candore, quella franchezza, quella dolcezza che vi sono naturali. C’è più distanza fra il nostro stato di innocenza attuale e un primo fallo, che non fra un primo fallo e un secondo, e da questo a un terzo. Se vi ingannassi una volta, potrei ingannarvi mille; ma non v’ingannerò mai. Voi vegliate in fondo al mio cuore, siete là, e nulla di men che puro può accostarsi a voi. Montami mi domandò che cosa fosse un uomo felice a questo mondo. Ed io gli risposi: “Colui al quale la natura ha accordato un buono spirito, un cuore giusto e una fortuna proporzionata al suo stato. – La vostra risposta, – egli mi disse, – è quella che mi diede un giorno il Signor di Silhouette; allora, non era molto ricco. Il controllo generale non gli era ancora affidato. Le sue speranze si limitavano a 30.000 lire di rendita, ed egli esclamava: “Se le avrò un giorno, sarò un uomo ben più onesto”. Se avessi inteso questo discorso da Silhouette, avrei forse concluso ch’egli era un briccone: vi sono certe confessioni sulle quali non costa nulla rincarare un poco. Non tutti hanno la mia sincerità. Quando io parlo male di me, non misuro certo le parole. Io dico quel che di peggio si può dire, non lascio aggiunger nulla a quelli che mi ascoltano; e mi curo assai poco che mi prendano in parola. Voi, soprattutto, amica mia, non voglio che attenuiate. Se il vizio di cui mi accuso non è nel mio cuore, è d’uopo che ve ne sia un altro nel mio spirito. Se questo principio vi sembra giusto, mi apprezzerete equamente, e voi sarete domani, dopodomani, fra dieci anni, ugualmente contenta o malcontenta di me. Abituatevi ai miei difetti; io sono troppo vecchio per correggermi: sarà più facile per voi avere una virtù di più, che per me un vizio di meno. Io valgo qualcosa sotto certi aspetti; per esempio, io ho dello spirito, in proporzione di quel che se ne ha. Vostra sorella me ne attribuiva talora molto. Con voi, io sento, io amo, ascolto, guardo, accarezzo, ho una specie d’esistenza che preferisco ad ogni altra. Se voi mi stringete fra le vostre braccia, godo di una felicità che non concepisco superiore. Sono trascorsi quattro anni dacché voi mi appariste bella; oggi vi trovo più bella ancora; è la magia della costanza, la più difficile e la più rara delle nostre virtù. Uscendo dal Palazzo Reale, andai da Grimm. Non c’era; vi scrissi aspettando ch’egli venisse; non tardò. Parlammo di lui, di voi, di vostra madre, di me. Egli non capisce nulla di questa donna. Ho portato qui il vostro giornale; continuatemelo, io vi farò il mio. Sarà forse un poco monotono, soprattutto mentre il tempo continuerà ad essere piovoso; ma che cosa importa? voi vedrete almeno che i miei più dolci momenti son quelli in cui io penso a voi. Son stato occupato tutta la mattina per Eloisa ed Abelardo. Ella diceva: “Sarei più felice d’essere l’amante del mio filosofo che la moglie del più potente re della terra”. Ed io dicevo: “Quanto fu amato quest’uomo!”. Addio, mia Sophie; vi abbraccio con tutto il cuore.

Il vostro amante e vostro amico Diderot.

Questo brano è tratto da Denis Diderot, Lettere a Sophie (Editoriale Jouvence, Milano 2020, pag. 186, 14€).



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