Ogni avvenimento violento invoca la presenza di psichiatri e psicologi che intervengano in nome della traccia psichica del dramma: il trauma. Ma quello che è accaduto l’11 settembre 2001 non ha lasciato nessuno indenne, perché tutti, vittime e non, erano e sono tutt’ora rimasti traumatizzati da questo evento dalla portata mediatica globale.
Sono trascorsi diciannove anni dal tragico attentato alle Torri Gemelle e qui di seguito proponiamo l’estratto “La politica dell’indennizzo” tratto dal libro L’impero del trauma di Didier Fassin e Richard Rechtman (traduzione di Luigigiovanni Quarta, Meltemi, 2020).
La ricerca, iniziata qualche mese prima, quel giorno ci aveva condotto al Ministero della sanità, presso un alto funzionario della difesa[1] (Haut Fonctionnaire de Défense – HFD), incaricato di presiedere il Comité national de l’urgence médico-psychologique (CNUMP). Creato attraverso il decreto del 29 maggio 1997[2], quest’organo aveva richiesto del tempo per essere attivato, dopo la sessione inaugurale del gennaio 1998, aperta in pompa magna da Bernard Kouchner, a quel tempo segretario di Stato per la salute. Dal momento della sua presa di servizio, l’HFD aveva auspicato la riattivazione della rete nazionale di urgenza medico-psicologica (RNUMP) organizzando dei gruppi di lavoro incaricati di preparare le raccomandazioni che il comitato doveva presentare nel settembre successivo. A quei tempi, la catastrofe del tunnel del Monte Bianco (marzo 1999), l’incidente del Concorde Air France (luglio 2000) e la presa di ostaggi nella prigione di Fresnes (maggio 2001) erano i tre principali avvenimenti recenti a seguito dei quali le unità d’urgenza medico-psicologica (CUMP) avevano investito risorse significative. Tuttavia, il coinvolgimento dei dipartimenti dell’HFD del Ministero della salute nell’organizzazione, nella regolazione e nel coordinamento, a livello nazionale, dei servizi di urgenza psicologica soffriva di mancanza di convinzione rispetto al suo stesso oggetto (i disturbi post-traumatici), la cui realtà clinica restava incerta o sospetta per le autorità. L’assenza di dati epidemiologici e di indagini sull’incidenza capaci di mostrare la natura dei bisogni psicologici della popolazione in caso di catastrofe; la mancanza di consenso all’interno del settore riguardo ai vantaggi di un debriefing precoce; il problema della formazione degli ipotetici operatori; e, chiaramente, le implicazioni economiche lasciavano ancora perplessi i responsabili dei dipartimenti centralizzati dello Stato. Le autorità sanitarie, esitando di fronte a una minaccia sanitaria ancora molto virtuale ma temendo di ignorare un futuro problema di salute dalle conseguenze imprevedibili, cercavano la garanzia di un quadro regolamentare comparabile a quello dei SAMU (Service d’aide médicale urgent). Lo scandalo “del sangue infetto” era ancora presente nella memoria di tutti. Era esplosa, qualche anno prima, una vera e propria crisi all’interno dei dipartimenti del ministero della salute e aveva spinto i dipartimenti dell’HFD al centro di una vasta operazione di ristrutturazione organizzativa destinata a regolare “il campo della protezione sanitaria della popolazione all’interno di situazioni eccezionali che erano emerse in modo folgorante”, secondo le parole di una responsabile. Il caso volle che l’11 settembre, alle ore 15:00, fosse stato fissato per noi un appuntamento, più volte rimandato, con l’HFD.
Il colloquio non doveva durare più di un’ora. Ciononostante, mentre ce ne andavamo, ancora sotto shock per ciò che avevamo appena vissuto al secondo piano dell’edificio principiale del ministero della salute, erano già le 19:00. La hall era sorprendentemente deserta e delle guardie smarrite si davano da fare con i pochi visitatori. Fuori, l’agitazione di quegli ultimi giorni d’estate aveva improvvisamente ceduto il posto a uno sbigottimento collettivo. Di fronte all’edificio, un gruppo di passanti circondava una macchina ferma a un semaforo, la cui radio diffondeva a tutto volume un notiziario. Più lontano, si sentiva, dalle decine di veicoli immobili che gli autisti dimenticavano di rimettere in moto, la stessa notizia. Tutte le emittenti avevano interrotto i loro programmi per riferire e commentare l’avvenimento. La minaccia fino ad allora solo virtuale di un trauma collettivo, che ossessionava i servizi dello Stato, in poche ore sembrava essersi drammaticamente concretizzata su scala planetaria. Anche in Francia, in effetti, l’esperienza degli attentati di New York si era tradotta proprio in questo nuovo linguaggio del trauma.
Tutto è cominciato alle 15:50, nel centro operativo del Ministero della salute, a due porte dall’ufficio dell’HFD dove si svolgeva il nostro colloquio[3], con l’interruzione improvvisa del suo vice, venuto per informarlo della catastrofe. Nonostante la tensione e l’imprecisione delle informazioni – si pensa ancora che altri aerei si dirigano verso alcune capitali europee, tra cui Parigi e Londra – si procede immediatamente all’organizzazione della crisi. La prima riunione si tiene nell’ufficio del vice in presenza di tutto il personale ma mancano ancora i dettagli[4]. Il lancio del piano Vigipirate[5] è immediatamente accompagnato dall’attivazione di un piano d’azione coordinato dall’HFD. Si teme un attacco aereo o un attentato chimico; si paventa l’arrivo in massa di feriti e la saturazione dei servizi ospedalieri; si prevede un eventuale panico collettivo. In meno di un’ora, tutti i servizi di protezione civile sono attivati. A questo livello, l’emergenza non è certamente psichiatrica. Ciononostante, il segretariato dell’HFD è assalito da chiamate che arrivano dalle unità medico-psicologiche della provincia. In attesa di istruzioni, la maggior parte ha già attivato i propri servizi e si appresta a raggiungere la capitale per prevenire le conseguenze psichiche di un eventuale attentato in Francia, o per partire per New York nell’ottica di un’assistenza internazionale. È solo verso le 19:00 che viene registrata la prima richiesta di sostegno psicologico. Arriva dalla direzione di Air France che ha chiamato il SAMU 93 per accogliere, all’aeroporto di Roissy Charles de Gaulle, i passeggeri di un volo Parigi-New York che ha dovuto fare inversione. Comunque, il comandante a bordo aveva avuto la precauzione di addurre come pretesto un sovraffollamento dello spazio aereo e cattive condizioni meteorologiche che gli impedivano di atterrare all’aeroporto internazionale John Fitzgerald Kennedy. Solo al loro arrivo, i passeggeri conosceranno le cause esatte di questo cambio di destinazione. In tutto si conteranno dieci crisi d’ansia poco gravi, prese facilmente in carico dal personale a terra delle principali compagnie aeree. Nondimeno, i servizi di urgenza medico-psicologici, attivati nell’ora seguente all’annuncio ufficiale degli attentati di New York, resteranno in allerta per tutta la settimana.
Ciononostante, il ruolo dei nuovi psichiatri di urgenza non si limita ad aspettare nell’ombra l’eventuale decisione del Quai d’Orsay di autorizzare l’attivazione di una missione umanitaria negli Stati Uniti. In mancanza di un intervento sul campo, questi specialisti si alternano sugli schermi televisivi, nelle trasmissioni radiofoniche e sulla stampa quotidiana per analizzare l’evento e le sue conseguenze psicologiche[6]. Gli psichiatri e gli psicologi, che ormai godono di una legittimità equivalente a quella dei militari in pensione o dei politici in attività – commentatori abituali di questo tipo di dramma –, non sono da meno nello spiegare, a una popolazione sotto shock per le immagini del crollo delle Torri Gemelle, che questa partecipazione visiva all’evento potrebbe produrre dei traumi psichici quasi equivalenti a quelli dei testimoni diretti degli attentati. D’altronde, apprenderemo più tardi che la trasmissione in loop delle immagini dell’11 settembre ha generato tra i bambini, ma anche tra gli adulti, un conclamato trauma psichico, caratterizzato da incubi ricorrenti, da reazioni di soprassalto e un doloroso sentimento di impotenza che bisogna rapidamente prendere in carico[7]. Così, malgrado la lontananza dalla scena degli attentati e anche una volta passata la paura di attacchi simili in Francia, la prospettiva del trauma si impone nello spazio pubblico. I francesi possono comunque rassicurarsi – si afferma –: delle unità medico-psicologiche vegliano su tutto il paese e degli esperti in vittimologia psichiatrica sono pronti a intervenire.
Negli Stati Uniti, nel frattempo, i professionisti della salute si mobilitano in massa. Molto velocemente, le iniziative spontanee dei clinici, degli psichiatri e degli psicologi si moltiplicano per presentarsi davanti ai newyorchesi, quasi senza tenere in conto la lettera aperta inviata tre giorni dopo gli attentati, indirizzata alla American Psychological Association da diciannove firmatari, tra i più rinomati nel campo del trauma, che mettono fortemente in guardia contro il “debriefing selvaggio” e contro i suoi rischi iatrogeni[8]. Del resto, gli appelli al discorso liberatore si moltiplicano sulle radio e grandi cartelloni pubblicitari invitano i sopravvissuti, i salvatori, i testimoni o semplicemente i telespettatori a mettersi in contatto con un centro d’ascolto telefonico[9]. Lo psichiatra Richard Mollica, noto a livello internazionale per i suoi lavori scientifici e la creazione, a Boston negli anni Ottanta, del primo centro di diagnosi e trattamento del PTSD per i rifugiati del Sud-Est asiatico, mette in allarme sul rischio di una crescita esponenziale dei disturbi post-traumatici non solo tra i newyorchesi ma anche tra tutta la popolazione nordamericana, esposta alle stesse immagini televisive. A nulla serve la disciplina dei media, che si auto-limita nel diffondere immagini di cadaveri o di corpi smembrati: l’impatto delle prime sequenze è sufficiente a produrre uno shock emotivo di una grandezza equivalente a quella dello spettacolo vissuto. I primi studi epidemiologici si pongono nella stessa prospettiva e ricercano i postumi traumatici ben oltre al perimetro dell’incidente. Il primo studio, condotto su un largo campione della popolazione nei cinque giorni successivi all’attentato, stabilisce che più del 45% dei cittadini statunitensi presenta dei sintomi significativi di stress e che il 90% presenta almeno un segno clinico[10]. Questa idea, abbondantemente ripresa, lascia comunque in sospeso la natura del trauma. Si tratta di un sentimento patriottico o di un’identificazione con le vittime, della perdita del senso di onnipotenza attribuita agli Stati Uniti o di un moto empatico che porta i cittadini a soffrire come (e per) coloro che soffrono per aver perso i propri cari? Chiaramente, nessuna di queste ipotesi è conforme alla nuova definizione di disturbi post-traumatici in quanto, se nel registro collettivo è possibile ampliare a piacimento, in modo metaforico, il concetto di trauma, diversamente, l’estensione diviene più complessa quando si tratta di dar conto a livello clinico dell’esperienza individuale.
Effettivamente, che i cittadini statunitensi siano potuti essere turbati, angosciati, stupefatti, rattristati, indignati; che essi abbiano potuto provare un dolore profondo, una compassione sincera, un sentimento di ingiustizia, non sembra lasciar dubbi. Ma affermare che tutti essi, o una parte significativa di essi, sono stati traumatizzati nel senso in cui lo intende la psichiatria nordamericana moderna è tutt’altra cosa. Per corrispondere ai criteri in vigore, ci sarebbe stato bisogno che la persona avesse fatto esperienza dell’evento, che essa avesse avvertito un’intensa angoscia, prossima a un sentimento di morte imminente, e che, in questo straripamento emozionale, le sue difese naturali fossero state sommerse dall’afflusso di stress. Si era in presenza di una tale realtà clinica? È precisamente ciò che gli studi seguenti, portando avanti la prima ricerca, tenteranno di stabilire, insistendo sulla correlazione tra le immagini televisive e lo sviluppo di una patologia post-traumatica. L’argomento è il seguente: i telespettatori, ancor più delle persone presenti sul luogo, che spesso ignoravano i dettagli della scena, vedevano, allo stesso tempo, gli aerei che penetravano nelle torri le quali prendevano fuoco prima di crollare, la caduta dei corpi lungo gli edifici, la folla in strada presa dal panico, i feriti, il fumo e la polvere. Nessuna testimonianza visiva diretta poteva raggiungere un tale livello di “realtà”. L’ipotesi eziologica è quindi conforme alle motivazioni del PTSD[11] e il trauma a distanza si impone come la nuova denominazione di questa variante equivalente in ogni aspetto alla forma classica poiché c’è certamente stata una partecipazione effettiva e affettiva all’evento – ma questa volta attraverso la trasmissione televisiva.
Così, a Parigi come a New York, tra gli esperti del Comité national d’urgence psychologique del Ministero francese della salute, così come tra gli psichiatri incaricati di svolgere ampie indagini epidemiologiche negli Stati Uniti, il trauma come prova collettiva e il trauma come entità clinica tendono a sovrapporsi. L’evidenza della tragedia serve a intensificare la fine del sospetto: l’evento si impone a tutti come traumatico, nella piena polisemia del termine, cioè sia metaforico che medico. Non solo l’11 settembre estende questa convergenza, o questa confusione, ben lontano dalle frontiere nazionali (e del mondo occidentale) ma moltiplica anche la popolazione delle vittime al di là delle persone direttamente esposte (includendo gli spettatori lontani). Il fatto nuovo è, in effetti, che non si ha più bisogno di rivendicare un’esperienza condivisa di sventura, di aver vissuto la stessa guerra, sopportato le stesse persecuzioni, subito le stesse violenze sessuali; ora è possibile essere traumatizzati a condizione che ci si riconosca nella stessa comunità morale, quella colpita dall’evento[12]. Qui, l’apporto della psichiatria è sia essenziale sia marginale. Essenziale, perché essa fornisce la conferma della realtà dei traumi individuali a distanza dal luogo dell’impatto: essa permette quindi di dimostrare che il registro metaforico del trauma collettivo non si riduce a semplice retorica o a un’illusione, poiché individui indirettamente esposti all’evento soffrono di disturbi post-traumatici. Marginale, nella misura in cui questa prova clinica della realtà dei traumi non chiede di essere riprodotta per ogni individuo: le cifre stesse non confermano l’ipotesi di una catastrofe sanitaria, poiché gli studi epidemiologici seguenti ritroveranno dei tassi di sintomi traumatici certamente superiori a quelli abitualmente osservati in una popolazione di riferimento ma molto al di qua della soglia abituale di prevalenza del PTSD all’interno di una popolazione sottoposta a uno o più eventi fuori dal comune[13]. Malgrado l’attiva partecipazione degli specialisti della salute mentale e l’uso reiterato della metafora del trauma collettivo, l’11 settembre non è per nulla divenuto un evento psichiatrico.
In questo, l’attentato di New York consacra, nello stesso tempo in cui la mostra, la tensione tra la pratica clinica e l’uso sociale del trauma. L’ascesa di pari passo della vittimologia psichiatrica e delle unità medico-psicologiche, nella Francia degli anni Novanta, mostra questo. E la stessa cosa la rivela, con particolare gravità, l’esplosione della fabbrica AZF di Tolosa, il 21 settembre 2001. In questo caso, il trauma – il quale, come vedremo, solo molto tardivamente si approprierà dell’eredità newyorchese – è mobilitato per riconoscere pienamente le vittime, cioè soprattutto per offrire loro un indennizzo per i postumi psichici, ma anche sociali, dell’evento che essi hanno vissuto.
[1] Creato con l’ordinanza del 1959 per completare il servizio della Difesa nazionale, il corpo di alti funzionari della difesa è direttamente collegato al Primo ministro attraverso l’intermediazione di ogni ministro di competenza. In ogni grande ministero, a eccezione di quello della Difesa, un HFD è incaricato di coordinare l’infrastruttura logistica e operativa di protezione della popolazione, nel campo di competenza del suo ministero di assegnazione.
[2] Il decreto del 29 maggio 1997 prevede la creazione di una rete nazionale gerarchica di urgenza medico-psicologica, suddivisa in sette macroregioni poste sotto il coordinamento di un comitato nazionale (il CNUMP). In ognuna di queste una unità permanente, composta da uno psichiatra, uno psicologo e un segretariato, assicura il monitoraggio, la regolazione e il coordinamento dei servizi dipartimentali, essi stessi limitati alla designazione (tra tutti i medici locali) di uno psichiatra referente che si faccia carico di redigere una lista di volontari pronti a essere mobilitati in caso di intervento.
[3] Poco lontana dalle altre direzioni, le poche stanze dedicate agli uffici dell’HFD suddividono l’estremità di una delle due ali principali del ministero, delimitando uno spazio chiuso, difficilmente accessibile, che termina su una stanza cieca, interamente securizzata, dove è presente la gran parte della migliore tecnologia in fatto di comunicazioni secretate, direttamente collegata agli altri ministeri e all’ufficio del Primo ministro.
[4] Le reti di comunicazioni securizzate rapidamente si dimostrano superate dall’affluenza di informazioni contraddittorie e – cosa strabiliante – alla fine è il canale via cavo americano CNN a prendere il sopravvento.
[5] Come si può leggere nell’edizione inglese del presente volume: “Il piano Vigipirate è un sistema di sicurezza nazionale con vari livelli di allerta” [N.d.T.].
[6] Sotto il titolo allarmista Des risques majeurs de séquelles psychologiques, “Le Monde” dà la parola, nella sua edizione del 14 settembre 2001, ai principali rappresentanti dell’urgenza medico-psicologica in Francia.
[7] Cfr. lo studio realizzato da Courbet e Fourquet-Courbet (2003).
[8] La lettera è stata ripubblicata sul sito della American Psychological Association con la risposta degli organi rappresentativi dell’associazione e con vari commenti: www.apa.org/monitor/nov01/letters.html.
[9] Si poteva leggere, nella metropolitana e nella maggior parte dei luoghi pubblici, questo annuncio diffuso dal Dipartimento di salute pubblica di New York: “Even heroes need to talk, New York needs us strong. Call 1-800-lifenet”. O anche: “Feel free to feel better”, per incoraggiare i newyorchesi ad andare nei consultori.
[10] Cfr. Schuster et al. (2001). Nella loro conclusione, gli autori portano l’attenzione dei clinici che lavorano negli Stati Uniti sul rischio sanitario che rappresenta questo problema, invitandoli a prendere in carico pazienti traumatizzati anche a migliaia di chilometri dal luogo dell’attacco terroristico. Questa indagine sarà citata in 272 pubblicazioni di livello internazionale in meno di quattro anni e portata avanti da ampi studi longitudinali che analizzano lo sviluppo di questi traumi iniziali.
[11] Gli studi seguenti, tuttavia, mitigheranno un po’ l’influenza eziologica dei media, preferendo classificarla semplicemente tra i fattori favorizzanti. Cfr. Ahern, Galea, Vlahov e Resnick (2004); Galea, Ahern, Vlahov e Resnick (2004); Manos (2003).
[12] Cosa che legittimerà George Bush quando inizierà la sua crociata contro il terrorismo all’indomani degli attentati e, invece, lo renderà impopolare dopo la tragedia dell’uragano Katrina che distrusse la Louisiana, avendo tutti constatato che non si sentiva parte integrante della comunità morale delle vittime, composta in larga parte da neri e poveri.
[13] Gli studi internazionali ammettono ormai che la soglia del PTSD si fissa a un terzo di persone raggiunte da una sindrome completa, a un terzo che presenta segni non specifici di sofferenza psichica e a un altro terzo che resta indenne da ogni patologia (Breslau e Davis 1992). Ora, nei postumi dell’11 settembre, queste proporzioni non sono mai state raggiunte (Schuster et al. 2001; Schlenger 2004).
Didier Fassin, antropologo, sociologo e medico, è professore all’Institute for Advanced Study di Princeton e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. È inoltre titolare della cattedra annuale di salute pubblica presso il Collège de France. I suoi interessi di ricerca concernono la dimensione politica e morale dei mondi contemporanei.
Richard Rechtman è psichiatra, psicanalista e antropologo. Professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, membro del CESPRA, è riconosciuto come uno dei maggiori specialisti del genocidio cambogiano e dell’antropologia della psichiatria, campi in cui lavora da trent’anni. Ha svolto ricerche sull’antropologia dei perpetratori del genocidio, sui quali ha da poco pubblicato, per le edizioni del CNRS, La vie ordinaire des génocidaires (2020). Sempre suo è Les Vivantes, per i tipi di Léo Scheer (2013).
Questo brano è tratto da Didier Fassin e Richard Rechtman, L’impero del trauma. Nascita della condizione di vittima (Meltemi Editore, Milano 2020, pag. 470, 24 €, a cura di Luigigiovanni Quarta).