PAROLA E IMMAGINE

Pur vivendo nella società dell’immagine e dell’apparenza (come forma simbolica del successo), che nega e respinge ogni tentativo culturale di intensificazione concettuale, ogni immagine è pur sempre ed inevitabilmente gestita attraverso l’uso della parola. Nessuna ricerca “per immagini”, per quanto risentimento si nutra ancora nei confronti delle Lettere e di quella che viene quasi con disprezzo definita “Cultura umanistica” (e questo per distanziarla il più possibile dalle cosiddette Tecno-scienze ad indirizzo matematico, significativamente denotate in francese attraverso l’espressione Sciences dures), può essere difatti praticata prescindendo dall’inserimento di almeno una parola nel campo di ricerca.

La parola, intesa in senso ampio sia come morfema che come forma logica del pensiero, veicola a sua volta concetti ed immagini. Come giustamente ricordato da Kant nella Critica della ragione pura, i concetti sono essenzialmente regole o funzioni in grado di articolare (algebricamente) il molteplice dell’intuizione data in un’intuizione pura (schema) attraverso un processo dinamico e soggettivo di unificazione del molteplice in un’unica rappresentazione, prodotta secondo una regola (di successione) dal nostro pensiero (intelletto puro), ‘agente’ su se stesso (recettività, come appercezione riflessiva dell’influsso della facoltà su se stessa) in quanto atto sintetico di spontaneità (KrV, §. 24). A differenza della rappresentazione (Vorstellung) creata nella propria mente attraverso tale processo di unificazione operato dall’intelletto puro, l’immagine (Bild) è invece un che di già dato, di preformato e precostituito, assunto attraverso una semplice ri-presentazione ‘mimetica’ compiuta a partire dalla nostra osservazione. Proprio per tale ragione, vale a dire per la sua pre-formazione e la sua staticità, l’immagine è oggi essenzialmente usata per manipolare, o quantomeno per condizionare inconsciamente ed impercettibilmente gli umori di ‘consumatori’ e ‘spettatori’ inerti, condannati ad un’eterna passività, la cui spontaneità è relegata ad un ruolo di subordine del tutto marginale, operante esclusivamente ad un livello responsivo subcosciente ed essenzialmente emotivo. Essa, in quanto irriflessa, crea infatti un ambiente (Umwelt, in contrapposizione cioè all’idea di ‘mondo’, Welt) psichico umorale (e a-morale), a-critico e non problematico, cioè non implicante alcuna forma di riflessione (sillogismo), confondendo, anzi, ed assuefando il ‘fruitore’ senza implicare alcun tipo di mediazione, in quanto ‘data’ integralmente nello stato della simultaneità. Tale aspetto costituisce al tempo stesso la ragione medesima del suo successo, vale a dire la sua accomodanza, in quanto non comporta né alcuno sforzo (conatus) di produzione di una qualche rappresentazione, e di costruzione di una successione temporale articolata secondo nessi causali (nexus dinamico di successione, cfr. I. Kant, KrV, AK, III, pp. 148-149 n.; tr. it., p. 237 n.), né del relativo ricorso alla memoria (al fine di trattenere quanto già realizzato in precedenza) e all’immaginazione ‘proiettiva’ (phantasia), capace di anticipare e di pre-figurare (tracciare) quanto sarà nel modo della possibilità o della futura anteriorità (al modo del “sarà stato fatto”), dimensioni, queste, indispensabili per qualunque forma di progettualità umana.

La continua interazione esistenziale con proiezioni irriflesse d’immagini, quindi, slegate da ogni riferimento alla parola e ad un contesto anzitutto riflessivo e logico argomentativo (indipendentemente, cioè, da qualunque riferimento al nexus di successione causale), e pertanto creativo e rappresentativo, elogia perennemente l’evenemenzialità dell’esistenza, l’istante (o, più opportunamente, il momento) e la sua continua ripetizione intensiva di carattere puramente emotivo, pulsionale e subcosciente, inibendo ogni forma di capacità rappresentativa, progettuale ed argomentativa. Tale processo, nel tempo, compromette integralmente l’esistenza umana (individuale e sociale), in quanto la sommatoria di istanti o di momenti percettivo-emotivi è del tutto incapace di rispondere al desiderio di sintesi della ragione ed alla sua declinazione storico-argomentativa intesa come ‘progettualità’, confondendo e disorientando il soggetto, e rendendolo così vulnerabile in primis all’errore valutativo e all’insoddisfazione permanente. In linea con quanto ricordato da Kant nell’Architettonica della ragione pura in merito alla capacità di costruire sistemi, e quindi, mutatis mutandis, di pervenire ad esempio ad una visione unitaria della propria esistenza concepita architettonicamente “a partire dall’idea della forma di un tutto”, l’unità che può sorgere dall’accostamento di stati emotivi di illusorio appagamento istantaneo è difatti solo una successione ottenuta per aggregazione (per appositionem) – vale a dire costruita tecnicamente (e non architettonicamente in base all’idea di un tutto polarizzante l’esistenza e creante una sorta di «focus imaginarius» ulteriore all’esperienza empirica data) in base ad una certa affinità percettiva ed associativa, composta su base empirica e contingenziale – dell’effetto prodotto dall’immagine sulla sensazione, a sua volta disgiunta da una razionalità dissociata (e relegata al mero calcolo di opportunità ‘convenienti’, ovvero, economicamente, come minimizzazione di stati depressivi e massimizzazione di stati positivi emotivamente appaganti), vale a dire come riverbero ed eco emotivo che questa produce induttivamente rispetto alle pulsioni soggettive, inevitabilmente momentanee:

«In vista dell’esecuzione, l’idea ha bisogno di uno schema[1], cioè di una molteplicità essenziale – determinata a priori in base al principio del fine – e di un ordine delle parti [dettato dalla regola di successione intesa come nexus, ndr.]. Lo schema, che non è tracciato secondo un’idea, cioè in base allo scopo principale della ragione, ma viene abbozzato empiricamente, secondo scopi che si presentano accidentalmente (il cui numero non può essere conosciuto anticipatamente), fornisce un’unità tecnica; lo schema, invece, che sorge soltanto da un’idea (dove la ragione impone a priori i fini e non li attende empiricamente), fonda un’unità architettonica»[2].

Il culto dell’immagine, sebbene per certi versi acquietante, comporta infatti delle aporie molto pericolose e difficilmente ignorabili proprio sul piano dell’esistenza. In primo luogo, dal punto di vista ‘oggettivo’, l’appiattimento della realtà alla visione diretta ed empirica – retaggio del modello epistemologico empirico-osservativo di galileiana ed aristotelica memoria (esse est percipi ; nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu) – occulta due problemi fondamentali sollevati dal pensiero filosofico della Modernità.

[Fenomenicità dell’apparenza] Anzitutto, rispetto allo stato della simultaneità, si prescinde dal riconoscimento del carattere ‘problematico’ dell’osservazione e dell’apparenza, da cui il relativo guadagno (kantiano) della sola fenomenicità delle apparenze e di tutte le variazioni fisiche dell’Universo (vale a dire di quanto vediamo, o crediamo di vedere), ed il riemergere della possibilità dell’errore e di un sostanziale ‘scollamento’ tra la realtà in quanto semplicemente osservata (ed inevitabilmente costituita dalla spontaneità dell’intelletto) e la realtà in sé, vale a dire noumenica. L’appiattimento del fenomeno sull’apparenza a cui assistiamo oggi in ogni disciplina (economica, giuridica, scientifica, psicologica, storica e umanistica) – e la relativa specializzazione indefinita degli ambiti del sapere –, annullando tale guadagno, pretende al contrario di ridurre l’esperienza allo stato della visione irriflessa e del (ri-)sentimento pulsionale sub-conscio, indotto dal succedersi dei vari stati proiettivi, divenuti stati contestuali puramente emotivi, con la relativa suggestione credenziale in base alla quale si presuppone che non possa esservi errore in ciò che è oggetto di visione, e che, al contempo, sia reale solo ciò che è direttamente osservabile (o anche solo osservato), e che solo ciò che è osservabile possa essere reale.

[Legge causale e storicità] In secondo luogo e conseguentemente, rispetto allo stato della successione, si presuppone quindi che, poiché ciò che si osserva è considerato come realtà in sé dell’apparenza, allora la successione delle diverse rappresentazioni viene fatta coincidere con la rappresentazione della loro regola di successione. Tale assunzione comporta quindi una riduzione della serie di successione causale, in base a cui l’anteriorità (a priori) della causa è logicamente presupposta ed anteposta rispetto all’effetto, alla serie della successione temporale (secondo il ‘prima’ e ‘poi’), per cui l’ordine inevitabilmente metafisico causale è assimilato al piano fisico della temporalità successiva. In questo modo, la causalità viene fatta appartenere all’ordine della successione degli eventi empiricamente determinati, in modo tale che la causa C di un determinato effetto E (fenomeno, evento, determinazione) debba sempre essere identificata in uno stato temporalmente anteriore rispetto al relativo effetto. Un tale atteggiamento epistemologico, oltre a trascurare del tutto l’errore interpretativo celato nell’osservazione e la sua possibilità, poiché non ammette (e non può concedere in virtù dei propri postulati) alcuna forma di errore nell’osservazione diretta del dato, concede da un lato grande potere manipolativo a coloro i quali gestiscono la successione temporale delle immagini e la conseguente credenza di un’ipotetica successione causale (recettività), ed abitua dall’altro il soggetto a praticare (spontaneità, dissociata dalla recettività) tale forma di associazione riduttiva anche sul piano personale di elaborazione della propria esistenza, intesa come capacità di creare una propria successione causale (libertà) declinata secondo l’ordine storico (esistenza sensata e progettuale).

Da un punto di vista ‘soggettivo’, difatti, la mancanza di immaginazione – come capacità di tracciare una successione causale attraverso la facoltà sintetica dell’immaginazione produttiva (Bildungskraft) – inibisce la creatività, e questo genera inevitabilmente l’affievolirsi del desiderio (etim. de-sideribus, “che viene dalle stelle”), fino ad un suo progressivo smarrimento e alla sua totale perdita. Il surrogato pulsionale della creazione di una visione razionale moralmente ed esteticamente appagante si converte quindi in uno stato bulimico volto alla ricerca di immagini emotivamente stimolanti, per le quali oggi, tramite i social networks, passa il riconoscimento inter-soggettivo, su cui si fonda così patologicamente il riconoscimento intra-soggettivo. Tale modalità di riconoscimento è finalizzata alla capacità di generare stati di (fittizio) appagamento emotivo negli altri spettatori della propria rete sociale, sulla base di un’immagine proiettiva di sé – assunta acriticamente dal contesto sociale, caratterizzato da un marcato edonismo individualista finalizzato all’ostentazione del successo personale – capace di suscitare ammirazione, una tacita ed inconfessabile invidia, e l’affermazione di un’esistenza perfetta, felice, del tutto priva di responsabilità (da qui l’elogio dell’immaturità come espressione d’insensata giovinezza) e, per così dire, gaudiosa.

Un tale atteggiamento, tuttavia, comporta nel tempo due conseguenze esistenziali marcanti. La mancanza di un autentico riconoscimento intra-soggettivo, primigenio, sul quale scegliere e configurare preventivamente il proprio contesto sociale, e da cui maturare ed accogliere il riconoscimento inter-soggettivo, comporta la mancanza di una progettualità sistematica e consapevolmente assunta, prevedendo come sola forma progettuale la rapsodica ed indifferenziata capacità di piacere e di essere seguiti, cioè di avere followers pur essendo essi stessi a sua volta follower, producendo così una massa acritica senza leader e leadership, e quindi o disperatamente alla ricerca di ciò, oppure rassegnata alla propria condizione a-storica ed a-progettuale. Un’esistenza condotta in questi termini, difatti, volge inevitabilmente o nell’insorgere della depressione (catatonico-implosiva, o funzionale ed attivista), come assunzione della mancanza di senso, oppure scinde le due principali componenti dell’esperienza, vale a dire razionalità e sensibilità, relagando la prima alla dimensione del calcolo (di opportunità individuali), afferente alla zona professionale dell’esteriorità e del riconoscimento sociale (come manifestazione del proprio successo professionale e, quindi, del proprio valore individuole e ‘tribale’), e la seconda alla sfera privata dell’interiorità emotiva, sollecitata continuamente sulla base di immagini appaganti, sulle quali il proprio network converge, costruite a loro volta a partire da un’immagine soggettiva, precostituita ed acriticamente assunta, di beatitudine emotiva, alla quale ci si intende conformare.

Al fine di evitare tali devianze, si rende quindi necessario, per la riabilitazione di un’esistenza moralmente ed esteticamente appagante in modo autentico, recuperare il valore della parola anzitutto nella sua capacità di veicolare concetti, che dovranno essere intesi, a loro volta, come regole di costruzione di rappresentazioni elaborate a priori attraverso la produzione del nesso continuo di successione. L’esigenza di questo secondo atteggiamento è dettata proprio dai due guadagni sopra accennati della Modernità, vale a dire dall’assunzione della fenomenicità delle apparenze, invalidante l’osservazione empirica oggettivamente intesa quale unica fonte di verità, e dalla relativa impossibilità di ridurre l’ordine di successione causale all’ordine di successione temporale delle apparenze medesime, vale a dire la logica alla temporalità. La totale mancanza di una visione autenticamente responsiva del proprio desiderio è infatti determinata dall’atteggiamento tecnico-emotivo, che relega la razionalità ad un piano di subordine rispetto all’immagine ed ai suoi effetti pulsionali, laddove invece il recupero della razionalità risulta imprescindibile proprio per poter accedere alla conoscenza ed alla costituzione di sé (mondo interno) e del mondo in cui viviamo (mondo esterno), entrambi non conoscibili attraverso la semplice osservazione empirica. Del resto, come sempre lo stesso Kant ricorda in merito all’origine del fondamento della certezza della nostra esperienza:

«L’esperienza stessa, in effetti, donde mai trarrebbe la sua certezza, se tutte le regole, secondo le quali essa procede, fossero ogni volta empiriche, e quindi contingenti (cosicché è difficile credere che si possano far valere come prime proposizioni fondamentali)?»

(I. Kant, KrV, AK, III, p. 30; tr. it., p. 50).

[1] Cfr.: I. Kant, KrV, AK, III, pp. 135-136; tr. it., Id., Critica della ragione pura, a cura di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 2007 (19751), pp. 220-221.
[2] I. Kant, KrV, AK, III, pp. 538-539; tr. it., pp. 806-807.



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