Lo scorso 18 giugno è uscito in Italia Darsi del tu (Mimesis Edizioni, 2020, traduzione di Claudia Tatasciore), la nuova raccolta di racconti della scrittrice ungherese Edina Szvoren.
Già vincitrice del Premio Letterario Europeo con Non c’è e non deve esserci (Mimesis Edizioni, 2017, traduz. Claudia Tatasciore), questa nuova raccolta rappresenta in realtà l’esordio letterario dell’autrice, accolto in patria come una delle opere di racconti più originali degli anni Duemila ungheresi.
Ma come rendere la lingua di Szvoren in italiano? Lo racconta nell’introduzione la traduttrice Claudia Tatasciore nella nota che anticipa la raccolta e che pubblichiamo di seguito.
Un’estrema attenzione per il dettaglio, combinata a una generale inaffidabilità della prospettiva narrante. Con questa contraddizione solo apparente posso riassumere la condizione di tensione viva che mi ha accompagnata nel tempo della traduzione di questi racconti, che Mimesis pubblica dopo aver dato alle stampe, nel 2017, un’altra raccolta dell’autrice, Non c’è e non deve esserci, insignita nel 2015 del Premio letterario dell’Unione Europea.
I racconti della raccolta Darsi del tu arrivano in Italia solo ora, ma rappresentano in realtà il debutto letterario di Edina Szvoren. Un debutto già maturo, come la critica ungherese ha affermato in più occasioni, e in effetti i quindici racconti selezionati dall’autrice per la nuova edizione a cura dell’editore Magvető (la prima pubblicazione per Palatinus, del 2010, ne conteneva venti suddivisi in tre cicli) hanno la densità di una materia linguistica a lungo sedimentata, che è necessaria, vera, urgente.
Una lingua che assume un punto di osservazione ravvicinato, che nella mancanza di distanza interpretativa fa solo intuire, non grida, il torbido delle relazioni familiari e interpersonali.
Narratori non affidabili, dicevo, e sperimentazione con le voci narranti: Szvoren sfrutta con naturalezza le possibilità della lingua ungherese. Scrive per esempio un intero racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, all’imperativo, che in ungherese esiste come forma grammaticale specifica (l’imperativo si coniuga in tutte le persone): una sorta di istruzioni di scena su come debba svolgersi il racconto che rendono indefinibile la figura dell’io narrante e mettono in discussione lo status stesso della narrazione. Oppure sceglie per un intero racconto la seconda persona singolare, così che la personalità della protagonista si va a costruire non per quello che è, ma per quello che le sue compagne di collegio le fanno scoprire di essere.
O, ancora, fa narrare la storia attraverso un “noi” che simboleggia la fusione della coppia (tanto che perde d’importanza la distinzione tra le azioni compiute da lui o da lei), per poi passare a un io che narra per sé solo, ma di cui solo nel corso della vicenda scopriamo se è il lui o la lei della coppia.
E, infine, su diversi personaggi che narrano in prima persona non sappiamo dire se siano uomini o donne, bambini o bambine. L’ungherese non possiede il genere grammaticale (anche il pronome di terza persona singolare è solo uno) e Szvoren sfrutta questa struttura per scardinare la convenzionalità di genere nei rapporti.
Cosa accade con queste soluzioni narrative? L’identità di chi narra la storia spesso si fa labile, il punto di osservazione tende a svuotarsi dell’osservatore e lascia spazio, si badi bene, non all’oggettività, ma all’estrema soggettività. Tanto meno definita è l’identità di chi parla, tanto più questi si aggrappa alla minuziosità del dettaglio così come viene percepito, con le associazioni che evoca.
Dettaglio vuol dire che il mondo di Szvoren è estremamente fisico: tutti e cinque i sensi sono coinvolti, l’ambiente in cui si muovono i protagonisti non è in qualche modo, ma odora di, sa di, manda tali e talaltri suoni…
Ed è generalmente un ambiente oppresso e opprimente. Uno dei miei compiti è stato rendere accessibili al lettore italiano certe allusioni storiche, politiche e culturali del paese di partenza. Soprattutto, rendere intellegibili quei punti in cui non c’è un rimando a un fatto, a un dato preciso, ma soltanto a una condizione di oppressione generale che inevitabilmente influenza la percezione di sé e del mondo e la socializzazione dei protagonisti.
In questo senso, l’eredità del socialismo permea i racconti di Edina Szvoren in maniera, direi, sottocutanea. E la resa in traduzione è affidata a una sottile ricerca delle giuste espressioni che rimangano in bilico tra detto e non detto.
Questo brano è tratto da Darsi del tu (Mimesis Edizioni, Milano 2020, pag. 240, 18 €, traduz. di Claudia Tatasciore)