Quando i padri se ne vanno, in cielo o in terra, non importa, non tornano più. Ci rimane il ricordo, e dopo un poco neanche più quello. E allora diventano i nostri eroi, e gli eroi non hanno cognomi, non hanno figli, non hanno famiglia. Sono uomini adulti, soli, contro tutti e orgogliosi di esserlo. Noi siamo i figli, ma non saremo mai eroi.
(Paolo Sorrentino, L’amico di Famiglia)
Queste sono le parole pronunciate da Geremia, protagonista de L’amico di famiglia, al figlio illegittimo di un nobile deceduto in cerca di un prestito per potersi ricomprare il titolo nobiliare che avrebbe dovuto spettargli di diritto. Una scena in cui si racchiude una delle tematiche che attraversano tutta l’opera di Paolo Sorrentino, la figura-funzione paterna.
Scorrendo la galleria di personaggi messi in scena da L’uomo in più fino a The New Pope, quelli che ci troviamo di fronte sono eterni figli smarriti, sempre protesi verso la ricerca di un modello perduto, mai conosciuto o inarrivabile. Figli che a loro volta si dimostrano incapaci di assumere pienamente un ruolo di responsabilità, sedotti dalle false promesse che l’immaturità sembra offrirgli e imprigionati dietro a una maschera grottesca in cui non si riconoscono fino in fondo.
Tutti i personaggi di Sorrentino sembrano accomunati dall’assenza del padre, tanto sul piano reale quanto su quello simbolico. E quando ci sono, quelle paterne sono figure inefficaci, evanescenti e nella maggior parte dei casi addirittura oscene. Pensiamo al distacco totale di Tony verso il padre ne L’uomo in più, sottolineato anche dalla scelta di non presenziare al suo funerale, o alla sua stessa inadeguatezza nei confronti della propria figlia. C’è il rapporto distaccato e glaciale di Titta con la propria figura genitoriale in Le conseguenze dell’amore, che viene a sua volta perpetuato nel legame disgregato e interrotto con i figli, al punto da renderli orfani nel finale del film. I già citati Geremia e Tesauro, figli rinnegati in L’amico di famiglia. C’è Fred Ballinger in Youth, ritratto dalla figlia Lena come marito infedele, oltre che padre disinteressato e insensibile. C’è il padre morto senza mai essere stato conosciuto veramente da Cheyenne, quello assente di Mary e quelli persi o rinnegati della famiglia di Rachel e Tommy in This Must Be the Place. Ci sono i genitori hippy che abbandonano il futuro papa Lenny Belardo in orfanotrofio e quelli che rinnegano il suo sostituto interpretato da John Malkovich in The New Pope, costringendolo a vivere nell’ombra del defunto fratello. Due papi che sembrano a più riprese abbandonati anche dal padre per eccellenza, Dio. C’è il manipolo di aspiranti figli di Berlusconi messi in scena in Loro, pronti a qualsiasi eccesso pur di attirare le attenzioni e l’approvazione del premier. O ci sono i padri mancati, come gli stessi due papi, sia sul piano biologico che in quello simbolico.
Lenny Belardo in particolare, un papa orfano che ha interiorizzato totalmente l’assenza e l’amore mancato dei genitori, al punto da rendere a sua volta orfani di una figura di riferimento i fedeli della propria Chiesa e stabilendo come principi del suo pontificato l’attesa e la negazione. O ancora Cheyenne, che arriva a legare la sua crisi interiore proprio alla sua mancata paternità.
La grande bellezza non fa eccezione in questo percorso, mettendo in scena addirittura una summa di tutte queste figure. Attraverso un lapsus è possibile riconoscere anche in Jep la figura del padre mancato («Jep: “Avete avuto figli?” Alfredo:” No, io non potevo.” Jep: “Io si, potevo”»), ma è l’intero film a essere caratterizzato dall’assenza di figure paterne. Pensiamo al padre defunto del giovane Andrea, o alla maggior parte dei personaggi incontrati da Jep nell’ambito mondano, coppie senza figli o, come nel caso di Stefania, che delegano la loro crescita ad altri. Oppure la loro è una presenza ambigua e dal vago sentore incestuoso, come nel caso di Egidio, il padre di Ramona, che ha cresciuto la figlia dandole un lavoro da stripper nel proprio locale.
Tale riflessione può essere ampliata più genericamente a tutte quelle figure che, seppur non immediatamente identificabili come paterne, svolgono la stessa funzione orientativa su una scala più grande: i rappresentanti del potere politico, religioso e culturale.
Il Vaticano messo in scena in The Young Pope e The New Pope è costellato di importanti personaggi corrotti e amorali, al punto da far apparire le trasgressioni dei due papi o delle suore di clausura come dei vizi innocenti. Ne La Grande Bellezza c’è un ritratto impietoso della cosiddetta classe dirigente del Paese e degli intellettuali, rappresentati come individui totalmente immaturi e dediti a ogni forma di godimento effimero. Al punto da essere ripresi persino dal latitante mafioso vicino di Jep, che durante l’arresto gli rimprovera la frivolezza ricordando che è la gente come lui a mandare avanti il Paese.
Infine ci sono i due politici messi direttamente in scena da Sorrentino, i padri morali/osceni della Nazione, Andreotti e Berlusconi. Entrambi colti nei momenti più bassi della loro carriera politica e forse umana, attanagliati dall’incapacità di fare i conti con la perdita del potere, senza il quale sembrano soggetti perduti e incapaci di reinventarsi.
Quello delle figure paterne, o meglio della loro assenza, è un tema da considerarsi strettamente legato ai rapporti di potere e al senso identitario. Non è infatti la questione biologica o la dimensione famigliare ad interessare il regista, quanto, in un’accezione più ampia, quella che possiamo definire come la valenza orientativa del ruolo paterno, il suo farsi funzione simbolica. La funzione per cui Jacques Lacan ha coniato l’espressione “Nom-du-père”(Nome del Padre), vale a dire «il significante del luogo dell’Altro in quanto tale; il significante-guida, il significante dal quale dipendono tutti gli altri significanti».
Il Padre inteso come colui che occupa una posizione di garante e al contempo di eccezione rispetto al sistema della Legge che instaura. Colui che impone il divieto, il limite, permettendo al soggetto di identificarsi con un sistema significante, quello della Legge e del Simbolico, concedendogli così la possibilità di dare un senso all’esperienza. Quello stesso limite a cui fa riferimento Geremia in un dialogo immaginato con il padre: «Ci siamo seduti dalla parte del torto papà, perché tutti gli altri posti erano occupati, e va bene; ci siamo detti “facciamo i cattivi perché i buoni muoiono bambini”, e pure questo va bene; ci siamo solo dimenticati di dirci qual è il limite – perché c’è il limite, papà… ma io non lo conosco».
Quelli di Sorrentino sono personaggi attanagliati da una minacciosa assenza di senso che non si traduce mai in un desiderio, se non al termine delle storie, ma solo in una ricerca e in un accumulo fini a se stessi di oggetti concreti e immaginari, con il solo scopo di colmare un vuoto esistenziale che colmabile non è, quello della propria individualità. Sono soggetti disincantati che ergono il proprio cinismo e la propria presunta libertà a Legge universale attraverso cui interpretare il mondo. Assomigliano ai moderni cinici di massa descritti da Peter Sloterdijk, «asociali integrati con lo sguardo lucido e cattivo […] gente che ha capito quanto siano chiaramente sorpassati i tempi dell’ingenuità […] il cinico d’oggi può esser definito come un caso limite di melanconico ancora in grado di controllare i propri sintomi depressivi conservando una certa capacità produttiva. Sotto le scorze della dura efficienza, c’è in loro il portato di mille infelicità, facili a ferirsi, e di un grande, grande bisogno di lacrime. C’è il lutto per l’innocenza perduta, per quello che in fondo si sa, o si saprebbe, e contro cui sembra schierato tutto questo fare».
Quello dell’evaporazione del padre è quindi un tempo che rivela una mancata elaborazione del lutto, senza la quale non può esservi alcuna nuova assunzione di responsabilità.
A subentrare è un’emozione che, intrecciandosi in modo inscindibile alla nostalgia, sembra permeare tutta l’opera di Sorrentino, la melanconia. Una forma di adesione completa del soggetto alla perdita stessa capace di incrinare la capacità di comprendere l’importanza, oltre che di compiere, degli atti fondativi. L’assenza di una figura simbolica paterna sembra infatti cristallizzare i personaggi in una dimensione puerile in cui lo sguardo è sempre rivolto verso il passato, e più freudianamente, verso la madre in quanto segno di una totalità perduta.
Come ben dimostra la controversa vicinanza di Geremia alla madre ne L’amico di famiglia. Questo tipo di nostalgia agisce sui personaggi come un fattore paralizzante, che li mantiene costantemente subordinati a una sovra identificazione con un sistema di riferimento assente, negandogli qualsiasi possibilità di reinvenzione. Si pensi ai vari Antonio, Tony, Titta, Cheyenne, Jep, Fred, Lenny Belardo, Sir John Brannox e a come l’ombra soverchiante del passato insista su di loro riducendo l’esistenza alla sterilità.
La perseveranza con cui essi continuano a perpetuare certi comportamenti ormai svuotati di senso, interpretando superficialmente un ruolo che non sembra più appartenere loro, lascia emergere una mancata elaborazione di un lutto, sia reale che simbolico, e un attaccamento-identificazione con l’oggetto perduto. Esemplare è il caso di papa Brannox e della sua vita costruita interamente sul tentativo di trasformarsi nel defunto fratello gemello Adam, al punto da appropriarsi dei suoi scritti teorici e finire per realizzare la carriera ecclesiastica a cui lui sembrava destinato.
L’intensità dello sguardo nostalgico attraverso cui questi personaggi guardano alla vita, finisce per costituire una distorsione onnipresente nella loro visione della realtà. Una distorsione che Sorrentino ci svela in tutti i suoi risvolti grotteschi. È il caso di Cheyenne, che nonostante i cinquanta anni compiuti si veste e si trucca ancora come un’adolescente. Ogni settimana, si costringe inoltre a fare visita alle tombe di due giovani fan, della cui morte si ritiene responsabile. Scorgiamo il grottesco nella triste esibizione in una deserta piazza di provincia di Tony Pisapia, simbolo di un cantante senza più ascoltatori. Così come è significativamente grottesca la gaffe compiuta dall’altro Pisapia, Antonio, quando si presenta vestito da calciatore a una serata di gala, o il suo passare nottate intere a provare schemi sul tavolo del subbuteo, vero e proprio simulacro del campo da calcio a lui precluso.
Grotteschi sono anche Titta nella sua eccessiva serietà e nella sua dedizione completa all’autocontrollo e Jep con il suo stile di vita giovanilistico portato avanti a dispetto dei sessantacinque anni compiuti, tendenza amplificata ulteriormente nel Berlusconi di Loro. Così come lo sono a livelli differenti tutti i personaggi che ne La grande bellezza appaiono come allegorie del mondo interiore di Jep. In particolare Dadina, la direttrice nana, che sembra essere plasmata dalla proiezione di un mondo infantile anteriore. A metà tra una figura materna e una compagna di giochi. È grottesco il modo in cui suor Mary in The Young Pope ingaggia degli attori per impersonificare i genitori di Lenny Belardo, al fine di mettere in scena il tanto agognato ricongiungimento e risolvere le incertezze del papa appena eletto. O la telefonata in cui Berlusconi si improvvisa venditore di appartamenti solo per dimostrare a se stesso di essere ancora l’abilissimo persuasore di un tempo.
Nella rappresentazione dei rapporti di forza fra individuo e potere su cui si fonda tutto il cinema di Sorrentino, la nostalgia sembra manifestarsi sempre come segno della sconfitta e dello smarrimento dei protagonisti. Questi personaggi sono sempre rivolti al passato, che sembra essere l’unica materia di cui possono parlare e in cui possono riconoscersi e farsi riconoscere. Come in Youth, quando sentiamo dire al giovane attore Jimmy Tree di aver scoperto ciò che manca alla sua vita in una citazione di Novalis: «Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre» .
Il tempo delle loro storie sembra in tal modo flettersi su se stesso sino a divenire circolare. Un tempo che ruota attorno a un punto che è al contempo di attrazione e sofferenza, un punto di godimento.
Nei suoi film, Sorrentino stabilisce un legame con il passato inteso come oggetto perduto, alimentando così un desiderio nostalgico. Al contempo ci spinge però a riconoscere un vuoto contenutistico negli oggetti che lo rappresentano.
In questo senso potremmo affermare che il lavoro del regista è quello di privare il desiderio nostalgico del suo supporto fantasmatico, svelando come l’attaccamento e il rimpianto del passato, siano una questione che riguarda essenzialmente il suo rapporto dialettico con un presente incapace di rimodellarsi in nuove forme. La nostalgia è uno schermo-fantasma attraverso cui il soggetto, richiamando a sé un presunto senso identitario smarrito occulta il vuoto della soggettività. Funge da copertura immaginaria del trauma, ma diviene al contempo indice di un’assenza nel campo esperienziale ed esistenziale.
La maschera nostalgica indossata dai personaggi altro non è che una proiezione attraverso cui cercano di mediare al vuoto identitario, all’angoscia che dietro di questa sembra comunque emergere. Ciò che è stato escluso dalla realtà diegetica dei personaggi di Sorrentino riappare infatti come traccia significante sullo schermo attraverso cui essi, e lo spettatore con loro, guardano alla vita. Un significante che funge da rappresentante, da traccia della rappresentazione esclusa e rimossa dalla realtà del film.
In tutte le pellicole di Sorrentino possiamo infatti riscontrare l’emergere frammentato e incoerente del passato dei personaggi. Elementi opachi che, sebbene influiscano in modo netto sull’intreccio narrativo, restano spesso esclusi dalle sue spiegazioni. Come spiega il filosofo Slavoj Žižek, «quando un oggetto fantasticato, immaginato, proveniente da uno spazio interiore, penetra nella nostra realtà ordinaria, la struttura della realtà viene deformata».
Questi elementi a volte fanno la loro comparsa nella forma di inserto sonoro, come per il diario del padre di Cheyenne, di cui sentiamo leggere sempre e soltanto le prime righe. O il refrain di Simple song che sentiamo più volte accennato in Youth. Altre volte come immagini, scene parziali di cui fatichiamo a comprendere il senso. Come nel caso del ricordo dello scenario di morte del fratello di Tony, o di quello di Sir John Brannox, le rapide comparse di frammenti del passato di Titta o quelli di Lenny Belardo. Oppure in entrambe le forme come ne Il divo dove sono ricorrenti i flash back dell’attentato a Falcone e gli inserti sonori del memoriale di Aldo Moro o ne La grande bellezza, dove il ricordo di Elisa è evocato in varie sequenze attraverso i suoni o le immagini del mare.
Se da una parte la nostalgia inquina il ricordo impedendone il superamento, dall’altro rimane legata alla sua verità individuale riproponendola in forma sintomatica.
Solo nei finali di questi film, quando i protagonisti avranno terminato il viaggio attraverso le proprie fantasie illusorie, potremmo ricomporre tutti i frammenti dei loro ricordi e osservare per intero la scena mancante. Questo perché avranno affrontato le proprie esistenze da soli, con le proprie responsabilità e senza alibi, sostenendo quindi autonomamente una traumatica vicinanza all’esperienza del Reale. Un paradosso così illustrato da Žižek:
Per dimenticare veramente un fatto dovremmo essere abbastanza forti da ricordarlo correttamente. Per illustrare questo paradosso dovremmo ricordare che l’opposto di esistenza non è inesistenza, ma insistenza: quel che non lasciamo esistere continua a insistere, a lottare per emergere all’esistenza.
Esplicativo è l’epilogo di Youth. Più volte nel corso del film viene nominata, o sentiamo brevi frammenti, di Simple song, senza che ci sia data la possibilità di conoscere la storia di questa composizione, né di ascoltarla nella sua interezza. È come l’incipit di un ricordo che non riesce a riemergere completamente. Solo nel finale, quando sarà lo stesso Fred a dirigerne l’esecuzione, riusciremo ad ascoltare per intero la Simple song e capirne la storia. Questo perché Fred nel frattempo avrà fatto i conti con il suo passato e in particolare con la moglie malata e abbandonata, che di quell’opera era stata l’interprete originale. L’ostinazione con cui Fred ha impedito per anni che altri potessero occupare il ruolo simbolico avuto dalla moglie, è la dimostrazione di come egli fosse incapace di colmare un vuoto attraverso nuove forme rappresentative individuali e artistiche. Fronteggiando il trauma e trovando un modo di riassorbirlo in un nuovo quadro significante, Fred ritrova così una nuova spinta vitale e assume quel ruolo di padre e marito che più volte nel film gli viene rinfacciato dalla figlia di non essere mai stato.
In un modo simile, La grande bellezza può essere interpretato come il viaggio del protagonista attraverso la perdita, la nostalgia e il tentativo di recupero dell’oggetto d’amore. Come ci dimostrano i numerosi fallimenti nella sua ricerca, la grande bellezza inseguita da Jep non è quella di un oggetto nella sua materialità. È piuttosto incarnata nello sguardo del desiderio.
Come afferma Lacan in La direzione della cura non si guarisce perché si ricorda, ma si ricorda perché si guarisce. Al termine del film, Jep può finalmente attingere ai ricordi attivamente, e da essi far emergere un nuovo senso della realtà, perché ha stabilito un rapporto con il vuoto della propria soggettività, una distanza dall’oggetto del lutto e del godimento. Ha smesso di cercare il luogo del significato ultimo, il luogo del Padre, ed ha assunto la responsabilità di occupare lui stesso quel ruolo. Il suo diviene un atto etico, il gesto attraverso cui le illusioni che tengono separato l’uomo dalla vocazione del suo desiderio si manifestano nella loro inconsistenza, esponendolo a una pericolosa, ma potenzialmente fruttuosa, vicinanza al vuoto e all’insensatezza del Reale. In modo analogo, Lenny Belardo nell’Angelus finale di The New Pope accetta il fatto di non poter trovare tutte le risposte, accetta il mistero dell’esistenza come nucleo fondante della credenza e della propria identità. Accetta il silenzio del padre e così facendo accetta finalmente anche i suoi fedeli riconoscendovisi, abbracciandoli uno ad uno nel finale della serie. Un percorso che ritroviamo in tutti quei personaggi del cinema di Sorrentino capaci di un atto etico, di un rifiuto totale dell’ordine Simbolico esistente e quindi del mandato simbolico o del ruolo da loro assunto, che apre alla possibilità di reinvenzione.
Gli unici a distanziarsi profondamente da questo modello narrativo sono non a caso le due figure che il potere lo incarnano, Andreotti e Berlusconi. La figura politica del primo, come scrive Carmagnola, è quella di un soggetto scisso, «attraversato dalla Legge che lo separa dal godimento impossibile», il rappresentante della Legge e del suo sostegno osceno inconfessabile. Berlusconi ci riporta invece alla figura del padre freudiano dell’orda, il potere come esercizio illimitato del godimento che non prevede eredi, né testimonianza.
Ne L’uomo in più Tony, riconoscendosi nel desiderio del suo doppio Antonio, uccide il presidente corrotto della squadra di calcio. Per quanto tale azione comporti la sua totale esclusione dall’ordine sociale, compiendola Tony muta, riacquista la soggettività, la capacità di ricordare – la confusa visione delle sagome in spiaggia che appare in modo sintomatico nel corso del film diviene chiara, mostrandoci che si tratta dell’episodio in un cui è deceduto il fratello – e, come afferma lui stesso nel finale, la libertà.
Ne Le conseguenze dell’amore è Titta a seguire senza compromessi il proprio desiderio, sino a giungere al gesto etico di protesta contro il potere mafioso che gli costerà la vita. Ma è proprio negli istanti che precedono la sua morte che egli sembra riguadagnare la sua soggettività e la capacità di una narrazione personale. Nel montaggio alternato del finale, fra le immagini della sua immersione nel cemento e quelle dell’amico d’infanzia, ritroviamo infatti quell’apertura verso l’Altro assente in tutto il film.
Gli effetti dell’attraversamento della fantasia di Geremia ne L’amico di famiglia sono invece restituiti dalla morte della madre, allegoricamente uccisa dal gesto di insubordinazione del figlio e dall’umiliazione che il padre, di ritorno dopo anni di assenza, gli infligge nel finale. Due scene che esprimono simbolicamente il modo in cui Geremia spezza il legame incestuoso e morboso con la fantasia che da sempre guida la sua vita, quella dell’avere tutto e a qualsiasi costo, costringendosi così a riconoscere l’esistenza di un limite da tracciare individualmente.
Infine This Must Be the Place, dove Cheyenne riesce a comprendere la testimonianza paterna, e così a liberarsi della maschera immaginaria in cui lo show business lo ha imprigionato, solo con un altro gesto che per molti versi va al di là della morale. Un gesto di vendetta che non passa attraverso la dimensione pulsionale dell’omicidio, ma in quella simbolica della fotografia e dell’umiliazione dell’ormai centenario nazista che aveva a sua volta umiliato il padre.
Quello di Sorrentino non è quindi solo un cinema dei padri assenti e della loro ricerca, ma anche, o forse soprattutto, un cinema di figli che imparano a riconoscersi nel proprio desiderio, o con le parole di Lacan, a fare a meno del padre a condizione di servirsene.
Bibliografia
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