Il modo con cui Renzi affronta la questione “lavoro” denuncia tre cose. La prima è la furbizia del premier, impegnato ad accusare gli altri di essere i portatori di vecchie ideologie novecentesche e ad affermare che la battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sarebbe una battaglia “ideologica”. A parte che, come molti hanno notato, se quella attorno all’art. 18 è una battaglia ideologica, perché questo premier sedicente post-ideologico ci investe tante energie? Non sarà che il suo intento è proprio di portare la minoranza del partito di cui è segretario a uno scontro ideologico sui “principi”, piuttosto che sulle “misure concrete”? Perché l’impressione che se ne ricava è proprio quella, di voler “spezzare le reni” ai “gufi”, di voler portare allo scoperto, con un pretesto, i “rottamati”, di cucirgli addosso (complici questi ultimi, caduti in pieno nel tranello) l’abito dei vecchi arnesi novecenteschi. Eppure non c’è posizione più ideologica di questa. E sia detto a scanso di equivoci: qui non si tratta di difendere i “vecchi arnesi”, oppure di parteggiare per la cosiddetta “minoranza” Pd, poiché la minoranza Pd è una carriera, e poiché le accuse che le vengono mosse non sono del tutto fuori bersaglio quanto alla capacità di cogliere la modernità politica che ci sta davanti e che ci sfida. Il dibattito interno al Pd non è poi così appassionante, non sono appassionanti i regolamenti di conti. Mi appassiona di più capire cosa il premier intende per “ideologia”, e come ciò si colloca dentro la sua visione della politica. Baudelaire diceva che il miglior trucco del diavolo è far credere di non esistere. A una posizione che si bolla come ideologica non si contrappone il vuoto virtuoso delle misure concrete, ma un’altra ideologia, solo più forte, solo vincente. A chi legge il compito di scoprire di quale ideologia si tratti. La seconda è la concezione della democrazia come immediatezza. Renzi non si rivolge al parlamento, ritenuto una sorta di porto delle nebbie in un mondo che invece richiede la velocità dei social network. Renzi parla direttamente alla nazione, e lo fa per l’appunto su Internet, versione 2.0 dei messaggi videoregistrati con la calza sull’obiettivo. La camicia bianca e le maniche arrotolate sono giochini degli spin doctors, simboli delle alacri giornate del premier che “è pieno di energia”, che si rimbocca le maniche, che non ha tempo da perdere con le istituzioni rispettabili come si rispetta un vecchio nonnino a cui si dà un buffetto sulla guancia mentre dice banalità d’antan. Naturalmente per questo, ma anche per il punto precedente e per quello che seguirà, non si tratta di una specificità dell’attuale presidente del consiglio. Quando lo Zeitgeist si incarna, fa dei begli scherzi: Renzi è il portatore di un’ideologia decisionista, fintamente pragmatista, presuntamente post-ideologica, che aveva già avuto modo di dar prova di sé in esperienze politiche che lo hanno preceduto, massime nel berlusconismo, del quale molti ritengono sia l’erede legittimo (sebbene qui il dictum marxiano sia rovesciato: la storia si ripete, ma la prima volta in farsa, la seconda in tragedia). Si pensi, ancora, alla cosiddetta commissione dei “saggi” nominata da Napolitano con finalità eversive, e che annoverava “ingenui” difensori del parlamentarismo poi dimessisi dopo aver squarciato (chissà come e perché) il velo. Certo quest’idea della democrazia come immediatezza nasce e cresce nella crisi della rappresentanza, ed è dunque una caratteristica della modernità politica. Ma non è, al contrario delle seppur sgangherate e forse irriflesse proposte del M5S (anche lì lo Zeitgeist si è divertito…), il risultato di un ripensamento profondamente critico della democrazia rappresentativa a favore della democrazia diretta. Insomma, non è la riflessione filosofica (tanto in odio al premier, che per bollare di inutilità un consesso lo definisce “filosofico”) sul rapporto tra Hamilton e Brutus. Quando i padri della Rivoluzione americana dovettero discutere quale modello di democrazia fosse più adatto a un grande paese, decisero – contro le tesi, appunto, dello pseudonimo Brutus (quanto mai indicativo nel suo essere da sempre caro alle tendenze monarcomache) – che la democrazia rappresentativa sarebbe stata la migliore scelta, e misero in soffitta la democrazia diretta degli Ateniesi. Ma adesso siamo di fronte non alle rivendicazioni del democratismo radicale, non alla reviviscenza di Brutus, quanto piuttosto al riaffacciarsi di un filone mai domo del pensiero politico, quello dell’uomo solo al comando, dotato di un consenso diretto della folla che lo acclama e che gli permette di saltare tutti i passaggi, di esautorare i corpi intermedi, che gli consente di intendersi col “suo” popolo con un cenno del capo (o con un tweet). Bando alle ciance, voi chiacchierate di filosofia, io decido, è il messaggio del premier. Che poi questo accada davvero, è tutto da vedere (finora i risultati sono assai deludenti). E posto che la decisione non mediata sia garanzia di efficienza ed efficacia delle decisioni prese (cosa tutt’altro che dimostrata: Tremonti si vantava di varare la legge di stabilità in 5 minuti…). E poi, anche se lo fosse (efficace), saremmo disposti a sacrificare la discussione democratica e la sua congenita “lentezza” sull’altare della performance? Certo, quando è troppo è troppo, e la discussione estenua: ma si può trovare un punto intermedio, che sia un punto politico e non emotivo. Terza è la concezione del rapporto coi lavoratori e con il sindacato. Questo terzo aspetto ha molto a che fare con il secondo: Renzi tratta direttamente coi lavoratori, dice. Salta l’idea di rappresentanza, ma non – come si diceva – per accedere a una più diretta forma di consultazione popolare, bensì perché interpreta direttamente, in comunanza spirituale, il volere intimo del Popolo. “La gente è con me, non con i sindacati”, è lo slogan di queste ore (ma il refrain è vecchio). Si potrebbero sollevare questioni quanto all’accertabilità empirica di questo consenso (con quali lavoratori ha parlato Renzi? Con chi ha “direttamente” trattato?), ma il problema non sarebbe neanche quello. Il problema è che il nostro è un sistema parlamentare e, più in generale, un sistema democratico fondato sulla rappresentanza. Quando Renzi propone di stornare il tfr direttamente in busta paga, egli afferma di avere i lavoratori dalla propria parte. Sono anche disposto a crederci. Ma questa è una versione irrazionalista della politica e della democrazia, una versione spiritualista, in una parola: di destra. Infatti a cosa serve la rappresentanza, anche la rappresentanza politica? A portare gli interessi di gruppo dentro una discussione razionale (per quanto possibile, ché a questo punto mi pare che la razionalità in politica sia una pia illusione) che non fondi le decisioni sugli umori immediati. La mediazione è ragionamento a bocce ferme, e – diciamolo senza paura – la rappresentanza ha anche la funzione di guidare, di suggerire soluzioni migliori. Rappresentare non significa rispondere tout court agli input che derivano dai rappresentati (in quel caso, a cosa servirebbe la rappresentanza? Meglio la democrazia diretta, che peraltro è un’idea affatto balzana; oppure il mandato imperativo, che però è altra cosa), ma anche provare a fare vedere a questi ultimi vie e soluzioni che essi stessi non avevano visto. O che non potevano vedere perché assediati da altre esigenze. In altre parole, se chiedi ai lavoratori se vogliono il tfr direttamente in busta paga, ci sta benissimo che ti dicano di sì (del resto indagini demoscopiche dimostrano che la maggioranza sarebbe a favore di una dittatura decisionista per la “soluzione dei problemi”). Forse però quel sì è dovuto al bisogno che le famiglie hanno di liquidità. E non liquidità per i lussi e gli sfizi, ma soldi da buttare in quel buco nero che è diventata la vita quotidiana in tempo di crisi. Il tfr, così come sta succedendo per i famosi 80 euro, andrebbe a finire in un pozzo senza fondo di crescente disagio economico, dilapidando un gruzzolo che il lavoratore preso dal collo potrebbe volere ora (maledetto e subito) piuttosto che in tempo futuro (“poi si vedrà”). Peraltro la spiegazione di questa proposta è duplice: una, che risulta essere quella “nobile”, è ideologica, e ha a che fare con una concezione turbo-liberista secondo cui i soldi del tfr sono già soldi dei lavoratori e non si capisce perché non gli debbano essere versati in busta paga; l’altra, più terra terra, ha a che fare con il bisogno spasmodico di rilanciare i consumi, affrontato tuttavia con ricette non strutturali, avventuriste (per tacere della fattibilità della soluzione per le casse delle aziende). Il sindacato allora serve a mediare tra la chiamata emotiva e le ragioni dei diritti e dell’economia. E non perché i lavoratori siano bambini che «non possono rappresentarsi, sono un sacco di patate» (giusto per citare il Marx del Diciotto Brumaio a proposito dei contadini), ma perché la rappresentanza è – dovrebbe essere – la possibilità di sedersi a un tavolo senza avere il cappio al collo (o l’acqua alla gola). È dunque per tutto questo che – se, di nuovo, non vogliamo ripensare forme di democrazia diretta – urgono riforme che abbiano come obiettivo la rappresentanza, sia quella politica che quella sindacale. Quest’ultima dovrebbe essere una battaglia dello stesso sindacato, in modo che non gli si rinfacci di non rappresentare nessuno, in modo che non gli si dica che è un corpo intermedio che si può bellamente saltare per costruire un legame emotivo diretto con le masse. Buone norme sulla rappresentanza sono garanzia in primis dei rappresentanti, i quali potranno opporre una vera legittimazione a chi vuole liquidarli. E la rappresentanza significa rappresentanza di tutti, anche di quell’enorme numero di precari che il sindacato è stato accusato (a ragione) di non considerare. Perché se l’attacco al sindacato è sgangherato e iper-ideologico, se ricalca la peggiore propaganda berlusconiana (la quale attinge a una certa insofferenza socialista e craxiana, peraltro), è pur vero che ragioni di critica per il sindacato ve ne sono, e molte. Altrimenti la propaganda non basterebbe. La propaganda serve a estendere e amplificare vizi e difetti che, seppure in tono minore, sono già percepiti nettamente dall’opinione pubblica. Certo conservatore, certo corporativo, il sindacato ha bisogno di scrollarsi di dosso la patina di vecchio retaggio novecentesco che un po’ ha (ma andrà pur detto che il Novecento non è stato negato e superato in una nuova fase, ma chiede ancora di essere ‘chiuso’ attraverso una più completa affermazione dei diritti, mentre la strada intrapresa è ancora una volta quella di un salto a piè pari, senza Aufhebung, diciamo). Solo così si potrà tamponare la deriva populista dell’appello alle folle.
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