«Perché abbiamo bisogno degli imprenditori?» mi sono posto questa domanda retorica recentemente tornando a casa in treno. È una domanda sintomatica del livello di cultura economica generale di oggi. Chiunque dunque blateri in questo modo, pensa che l’innovazione sia una cosa naturale, automatica, che avviene senza la prestazione personale di individui disposti a rischiare (e dunque a perdere) il loro denaro, il loro tempo, una parte della loro vita. L’economia come perpetuum mobile, sviluppo come semplice problema di managment: una delle più grandi fantasie dell’economia moderna da ben prima di Karl Marx.
Infatti, chi oggi dice “imprenditore”, non pensa ai piccoli artigiani o alle imprese a conduzione famigliare, bensì ai manager delle grosse multinazionali come Nestlé, Novartis o USB. Queste grosse società per azioni appartengono a tutti e a nessuno. Non c’è un proprietario vero e proprio, vuoi una persona singola oppure una famiglia. Molti dei manager strapagati sono semplicemente gli amministratori di finanziatori anonimi che non conoscono, e rendono conto a funzionari strapagati che sono i loro superiori. Si comportano secondo le regole dell’alta burocrazia, con i suoi codici di condotta e i suoi obiettivi concordati. Già settanta anni fa l’economista Joseph Schumpeter paragonava il pensiero e le azioni degli amministratori delle società per azioni multinazionali a quello dei dipendenti pubblici.
In realtà manager e imprenditori possiedono caratteristiche radicalmente opposte. Punto uno: il manager può solo perdere il proprio lavoro, mentre l’imprenditore mette in gioco tutto, il suo lavoro, la sua fortuna, la sua reputazione e la sua esistenza. Punto due: le loro motivazioni sono completamente diverse. Una cosa mi è diventata chiara nel corso delle numerose interviste che ho realizzato con gli imprenditori: il profitto, un motivo generalmente molto serio e nobile, non è la ragione dei loro sforzi. L’imprenditore-tipo è l’esatto opposto dell’Homo Economicus: non lavora per massimizzare gli utili. E non lavora nemmeno per assicurarsi un reddito alto e garantito. Gli imprenditori non vivono di rendita, ma sono delle formatori creativi – mezzi matti – che hanno investito i loro soldi nell’azienda con la quale si sono sposati. Lavorano perché creano qualcosa, perché vogliono spuntarla, perché vogliono imprimere il segno delle loro idee e della loro opera sul mondo. Non vivono dall’impresa, ma per l’impresa.
Nassim Nicholas Taleb, un imprenditore autore di bestseller di successo in tutto il mondo, delinea nel suo libro Antifragile. Prosperare nel disordine (2013) tre tipi di azioni. Nella sua semplicità, la sua divisione costituisce il miglior esempio di etica della responsabilità che io conosca. Segue un solo e semplice criterio di discriminazione: giocarsi la pelle (skin in the game). Ci sono quelli che rischiano la pelle per aiutare gli altri: loro si prendono i rischi, gli altri ne approfittano. Questi sono i santi (pochissimi). Ce ne sono altri (pochi) che corrono dei rischi, e in caso di successo ne approfittano, e per di più il loro profitto va a vantaggio anche degli altri. Questi sono gli imprenditori. E poi ci sono quelli che prendono ben pochi rischi a livello personale, ma si arrogano il diritto di criticare quelli di cui approfittano: sono i parolai e i promotori di se stessi, tra i quali Taleb – a buon diritto – annovera anche i giornalisti.
Gli imprenditori non sono santi. Ma tirano da soli il carretto della loro impresa, con la loro volontà creativa, il loro coraggio, la loro propensione al rischio. I cittadini intelligenti e i loro esponenti politici farebbero bene ad apprezzare l’impegno di questi mezzi matti, consapevoli che altrimenti gli stessi chiacchieroni dovrebbero condurre una misera vita.
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