L’Italia del rapimento di Moro, uno sfondo storico-sociale

Alle 9:00 del mattino di giovedì 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, un commando delle Brigate Rosse, dopo un preciso e rapido blitz, elimina la scorta armata e rapisce l’onorevole Aldo Moro: il presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, l’uomo delle significative aperture alle sinistre, uno dei personaggi che più aveva segnato con le sue idee due decenni di politica italiana e, probabilmente, un futuro candidato alla Presidenza della Repubblica.[1]

Si tratta di una vicenda notissima nei suoi contorni che si svilupperà per cinquantacinque giorni in un susseguirsi di indagini (più o meno svogliate), accesi confronti politici, comunicati brigatisti (9), frenetiche trattative informali, ombre e un ampio dibattito sociale nel Paese. Il tutto fino al ritrovamento del corpo dell’onorevole Moro, il 9 maggio, sempre a Roma, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani, luogo simbolicamente scelto perché una traversa di via delle Botteghe Oscure (sede del Partito Comunista Italiano) e poco distante da Piazza del Gesù (quartier generale della Democrazia Cristiana).

Se i cinquantacinque giorni del “sequestro Moro” restano un qualcosa di fortemente e drammaticamente presente nelle cronache e, soprattutto, nella coscienza collettiva, molto meno lo è la fase socio-economica in cui si inseriscono.

La scelta del 16 marzo non fu casuale: alle 10:00 del mattino erano attese a Montecitorio le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio (incaricato) Giulio Andreotti a cui sarebbe seguito, dopo la discussione in aula, il voto di fiducia per far nascere il nuovo governo, la cui composizione era stata annunciata pochi giorni prima. Il tempismo tattico del blitz delle BR fu decisamente notevole, la gestazione del nuovo esecutivo era stata infatti molto complessa, in una fase socio-economica decisamente traballante e segnata anche da forti condizionamenti internazionali.

Il precedente governo (Andreotti III) era nato dopo le storiche elezioni del giugno 1976 e durò in carica fino al gennaio del 1978, attraversando rispettivamente: una devastante crisi occupazionale (1.200.000 persone alla fine del 1977), soprattutto giovani tra i venti e i trent’anni; il varo continuo di misure draconiane di austerità (come il blocco della scala mobile per molte tipologie di stipendio, aumenti nelle tariffe ferroviarie ed elettriche, abolizione delle festività infrasettimanali); la caduta del cambio della Lira, con il conseguente generarsi di forti turbolenze s ociali nelle fabbriche, nelle periferie e nelle università. La drammatica fase economica[2] aveva quindi determinato un ruvido confronto dell’Italia con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e, in parallelo, con la Comunità Economica Europea (CEE) per contrattare un grosso prestito (di 500 miliardi per ciascuna organizzazione internazionale), cosa che obbligò il governo Andreotti a predisporre, in aggiunta a quanto già fatto, un preciso piano di tagli alla spesa pubblica e di contenimento del deficit di bilancio (per l’anno 1977 e 1978).

Per non parlare del fronte industriale: dall’autunno 1977 infatti, a partire dalla difficile congiuntura del settore chimico e dalla crisi europea della siderurgia, alcune delle più importanti fabbriche italiane si trovarono in situazioni di pre-fallimento e annunciarono drastiche riduzioni di personale, dall’Alfa Romeo alla Montedison, dalla Liquigas all’Unidal.[3]

Questo difficile momento venne segnato dall’acceso dibattito sulla possibilità o meno di un avvicinamento del Partito Comunista all’alveo di governo: un confronto pubblico e carsico fatto di continui discorsi ammiccanti di Berlinguer, inutili promesse di pace sociale del segretario CGIL Luciano Lama, poche timidissime aperture da parte della DC e bruschi “stop”, anche internazionali, come quello del Dipartimento di Stato del Presidente statunitense Jimmy Carter. Nonostante altri partiti (dai repubblicani ai socialisti) avessero con fatica digerito la possibile partecipazione del PCI al governo, giustificata da un clima di “solidarietà nazionale”, Andreotti in una conferenza stampa del 31 dicembre 1977 sbatteva le porte in faccia ai comunisti e già il 20 Gennaio 1978 rassegnava le dimissioni al Presidente della Repubblica Giovanni Leone, venendo immediatamente reincaricato di formare un governo.

Neanche una settimana dopo, capito il messaggio, Berlinguer accorciò il tiro e parlò di una partecipazione “contrattata, riconosciuta ed esplicita” alla maggioranza che avrebbe sostenuto il nuovo governo; un esecutivo che continuerà, anche con l’Andreotti IV, a essere un monocolore democristiano, perfino se sorretto da una ampio sostegno assicurato dai voti del PCI di Enrico Berlinguer, ma anche del Partito Socialista di Bettino Craxi, del Partito Socialista Democratico Italiano di Pier Luigi Romita e Mario Tanassi, e del Partito Repubblicano Italiano di Oddo Biasini e Ugo La Malfa.

Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse si inserisce in un più ampio e frastagliato contesto di lotta armata di sinistra (nel 1977 si contavano 91 gruppi clandestini fino a superare i 125 nel 1979[4]) e in mesi di rapido riorganizzarsi del terrorismo di destra, con il protagonismo dei Nuclei Armati Rivoluzionari, operanti già dall’anno prima, e qualche sussulto del morente Movimento Politico Ordine Nuovo; tuttavia il blitz delle BR costituisce sicuramente l’azione più incisiva della storia del terrorismo rosso nell’Europa occidentale.

Non va tuttavia immaginato un contesto unico, né tantomeno un’unica sfera dove collocare forme, anche violente, di conflittualità[5] e partecipazione sociale dal basso degli anni Settanta, che continuarono a manifestarsi in modo plurale nella magmatica società italiana del tempo, come per esempio il movimento femminista[6] o le lotte di nuove figure precarie e metropolitane[7]: soggetti e istanze lette in modo decisamente riduttivo dalle BR[8] (come del resto dal PCI[9]).

L’eco del boato del sequestro Moro fu amplissima e nei poco meno di due mesi che lo seguirono, la sorte del leader democristiano (e lo scontro tra partito della “trattativa” vs fronte della “fermezza”[10])  fu il tema prevalente che  andò a modificare inevitabilmente, soprattutto dopo la sua tragica conclusione, la grammatica del confronto sociale italiano.[11]
Un ulteriore pezzo nel complesso mosaico della storia del nostro paese, da inserire sempre in una lettura più generale che contestualizzi quegli anni all’interno di una violentissima fase di riorganizzazione e ristrutturazione capitalistica a livello mondiale (quasi globale): uno sfondo necessario per cogliere la straordinaria e molteplice vicenda degli anni Settanta in Italia.



[1] M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma 2007, pp. 203-205.

[2] P. Frascani, Le crisi economiche in Italia. Dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 166-190.

[3] G. Mammarella, L’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 414-416.

[4] G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, p. 247.

[5] Per un inquadramento delle possibili definizioni vedi I. Sommier, La Violence Politique et son deuil. L’après ’68 en France et en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2008.

[6] A. Bravo, “Un equilibrio fragile: le donne tra libertà e violenza”, in Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, (a cura di) M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci, Rizzoli, Milano 2010, pp. 71-87.

[7] L. Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Carocci, Milano 2016; M. Galfè e S. Neri Serneri (a cura di), Il movimento del ’77, Viella, Roma 2018.

[8] Questo elemento è lucidamente presente nella ricca memorialistica brigatista: M. Moretti (intervista di R. Rossanda e C. Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Anabasi, Milano 1994; P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani, Milano 2006; M. Scialoja e R. Curcio, A viso aperto, Mondadori, Milano 1993; B. Balzerani, Compagna Luna, Feltrinelli, Milano 1998.

[9] A. Gagliardi, “Nella crisi della società del lavoro”, in M. Galfè e S. Neri Serneri (a cura di), Il movimento del ’77, Viella, Roma 2018, pp. 97-114.

[10] S. Colarizi, Storia dei partiti politici nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 482-487.

[11] L. Graziano, “Compromesso storico e democrazia consociativa – Verso una nuova democrazia?”, in AAVV, La Crisi italiana, Einaudi, Torino 1979; G. Galli, I partiti politici italiani, BUR, Milano 2010, pp. 192-196, oppureA. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 338, e S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005, pp. 467-469.



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