Marca Francese

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Ecco un libro ( Marca francese Saggi e note 2004-2018, di Massimo Raffaeli, Vydia Edizioni, Montecassiano, MC 2019) che conviene davvero leggere. Non solo per la chiarezza della  scrittura, ma anche, o meglio soprattutto perché Massimo Raffaeli, come ricorda egli stesso, non è per professione uno studioso di letteratura francese. Conosce però assai bene le cose di Francia, in particolare quelle della Francia dell’Ottocento e del Novecento e ne fornisce ragguagli tanto lucidi  e  precisi quanto cordiali, capaci di interessare anche lettori piuttosto lontani dalla cultura francese. Voglio dire che proprio la non professionalità di Raffaeli si trasforma, nella pratica dell’analisi e del ragguaglio, in uno stimolo alla cordialità della ricezione e alla precisione del rendiconto, senza peraltro cedimenti agli eccessi della simpatia e dell’adesione. Marca francese silegge come un libroricco di cultura,  di  ampia e solida informazione  e di agevole dettato. Firma che ben conoscono I lettori di Alias e del Venerdì di “Repubblica”, Raffaeli si è spesso distinto per aver dedicato la sua attenzione a scrittori italiani ingiustamente trascurati o dimenticati, in ogni caso di assai limitata notorietà, in certi casi con opportuna e fertile lettura o rilettura, in altri con forse eccessiva generosità. Il criterio di quella che possiamo chiamare la marginalità dell’oggetto appare o può apparire propizio e utile quando si tratti di autori di lingua italiana, ma  difficilmente potrebbe funzionare  quando si tratti invece di autori di lingua francese, dal momento che, nel caso, Raffaeli  è per così dire costretto a tener conto del criterio della maggiore notorietà e significatività degli autori. Né qualcuno potrebbe ragionevolmente dolersi delle sue scelte. Suddiviso in sezioni variamente denominate anche secondo l’ordine cronologico, Marca francese viola questo ordine per assegnare il primo posto a Céline, di cui Raffaeli analizza sia Nord sia Rigodon, soffermandosi inoltre sulle Bagatelles e su varie questioni. Per ragioni che saranno subito evidenti, inizialmente giova trascrivere almeno questo passo:

Uno dei maggiori critici del secolo scorso, Cesare Cases, a proposito di Louis Ferdinand Céline e del fatto che in costui convivessero un grande artista e un immondo razzista, ne parlava come di qualcuno da stampare la mattina e da fucilare nel primo pomeriggio. Cases riteneva Voyage au bout de la nuit il maggiore romanzo del Novecento né si asteneva, lui ebreo, da un’aperta ammirazione per la musica scrosciante di Bagatelle per un massacro…

De te fabula narraturI. Sia perché anche Raffaeli è ebreo, sia perché condivide pienamene i sentimenti che provava Cases nei confronti di Céline. Con la dfferenza, forse (postoche tale differenza sia possibile), che è  maggiore in lui l’ammirazione per lo scrittore francese. Tanto è vero che, quando egli parla di Céline, il suo stile si fa particolarmente sciolto e vivace  Comunque stiano le cose, nel libro di Raffaeli  Céline meritava il primo posto. Non senza il ricordo commosso di quel grande traduttore di Céline che è stato Giuseppe Guglielmi, poeta sensibile e intelligente.  E non senza che a quel ricordo l’autore di questa recensione provi il bisogno di aggiungere una sua piccola testimonianza. Un maestro dell’Italianistica  come Ezio Raimondi mi ha raccontato, infatti, che ogni domenica mattina, regolarmente, l‘amico Guglielmi lo raggiungeva a casa e, insieme, senza impegni editoriali, traducevano qualche pagina di Céline.

Ma torniamo a Raffaeli e al suo libro. Che, Céline a parte, non poteva iniziare  che con l’inizio di ogni inizio, e cioè con Baudelaire. Raffaeli è quasi ironico con  l’“immensa catacresi” che, anche grazie al contributo fornito da studiosi come Auerbach e Benjamin, sono diventati I Fiori del male.  La rispetta, però. E, dando conto di una nuova traduzione in lingua italiana (Muschitiello), mostra, fra l’altro, di avere un ottimo orecchio per il “gioco delle intramature e delle slogature foniche” offerto da quel grande libro. Ottimo orecchio presente, si capisce, anche nel saggio dedicato a Verlaine, pur in un esame che ha per oggetto il Verlaine “reazionario”. Una caratteristica del Raffaeli “francesista” sta nella capacità, messa in luce nel saggio su Rimbaud, di sorprendere i lettori  recuperando o scovando autori e indagini ignote  o poco note. Nel caso, “un ebreo di origine tedesca”, Benjamin Fondane, “un interprete refrattario sia  all’abuso  engagé sia a quello religioso”, autore, nel ’33, di Rimbaud le voyou, e “morto a Auschwitz nel ’44 e a soli quarantasei anni”. Come dire che ad attirare l’attenzione di Raffaeli è sempre, in qualche modo, il marginale, il negletto. A cui, come in questo libro, stanno spesso di fronte, o si congiungono, quasi in una non palese ma evidente dialettica, la notorietà e la complessità di certi “classici”, come Zola, o come Gide, o come Proust.

La particolarità della situazione della Francia occupata dai nazisti  (particolarità evidente soprattutto rispetto all’Italia, che, se si esclude Giovanni Gentile – giustiziato peraltro prima della fine della guerra – non ha avuto intellettuali collaborazionisti di rilievo) consente a Raffaeli di intitolare Canaglie un gruppo di articoli dedicati a intellettuali collaborazionisti, il più noto e discusso dei quali è Robert Brasillach, fucilato alla fine della guerra, unico giustiziato fra le “canaglie”. Sul capo supremo delle “canaglie”, Philippe Pétain, Raffaeli si sofferma con alcune acute osservazioni, opportunamente evitando  di tentare un impossibile confronto del generale francese con il filosofo italiano.

Chi si aspettasse che, con Brasillach, inizi, per Raffaeli, il Novecento francese, si ingannerebbe. Al Novecento, nel libro, è riservata  un’ampia, apposita sezione (seguono le sezioni intitolate Modiano, Tre scritti per Jaccottet, Cinema) nella quale una cordiale condizione empatica conduce l’autore a scrivere le sue pagine probabilmente più ricche di vitalità e di consenso. Né si tratta di autori illustri, quali sarebbero, poniamo, Apollinaire, o Breton, o Artaud, o Robbe-Grillet, ma di scrittori e di critici “marginali” nel senso migliore che può avere la parola, cioè assolutamente liberi da schemi e da influssi condizionanti: Crevel, Ramuz, Blanchot, Goldmann, e altri.

Fausto Curi


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