Intervista a Marco Maurizi su La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaca Book, Milano 2018)
S.M.
Caro Marco, innanzitutto grazie per avere accettato il mio invito a rispondere ad alcune domande sul tuo ultimo libro per i lettori di “Scenari”. Vorrei partire proprio dall’inizio del libro, cioè dall’Introduzione, che reca il sottotitolo abbastanza impegnativo Filosofia della musica postmoderna. Sottotitolo impegnativo sia di per sé, sia perché evidentemente modellato sul titolo della Filosofia della musica moderna, la principale opera musicologica del filosofo di cui sei un grande esperto e da cui prendi le mosse anche qui, cioè Theodor W. Adorno (pur avvertendo giustamente il lettore che il titolo originale del libro di Adorno parlava di neue Musik, musica “nuova”, e non “moderna”). Vuoi spiegarci allora, in primo luogo, in che senso quella di La vendetta di Dioniso è una filosofia della musica postmoderna? Che cosa sta a indicare qui l’aggettivo “postmoderno” e in che modo lo si può porre in relazione a una filosofia come quella di Adorno che postmoderna non era?
M.M.
L’uso del termine postmoderno nel libro ha una duplice funzione. Da un lato, si trattava di mettere in discussione ciò che cronologicamente e teoreticamente, negli anni ’80, è passato come momento di svolta, cambiamento di paradigma nell’ambito della musica colta: ovvero il sedicente “superamento” dei linguaggi del modernismo radicale (musica seriale, gestuale, aleatoria ecc.) in direzione del minimalismo, della musica iterativa e della nuova semplicità, operazione che ha trovato in Mertens e Nyman i suoi primi e principali alfieri teorici. Questi sviluppi si sono fusi con la montante marea dei cultural studies e il predominio della prima ondata di teorizzazioni post-strutturaliste e post-moderne (nel libro cito, come esempio paradigmatico, la musicologia femminista di McClary) che hanno messo una sorta di pietra tombale sulle esperienze dei decenni precedenti in un modo che a me è sempre parso una forma di “normalizzazione” della critica. Va da sé che Adorno è finito nel gran calderone del modernismo “totalizzante” ed “essenzialista”, e così, oltre a una pessima teoria, ci siamo ritrovati pure, spesso, con una pessima musica. Io penso piuttosto che la musica autenticamente postmoderna si trovi altrove e che questo Altro musicale, straniante e demoniaco, questo eroico furore, ci parli oggi non tanto dall’interno della tradizione della musica accademica, bensì dai territori sconfinati e spesso inesplorati della musica “di consumo”, della musica pop, dalla sperimentazione rock, dall’underground ecc. L’altro aspetto della questione, e vengo alla seconda parte della tua domanda, è che la musicologia adorniana (che doveva essere sacrificata come “passatista” per permettere al minimalismo di assurgere a nuovo paradigma di “ricerca” musicale) torna invece attualissima se volta all’analisi e alla comprensione delle dinamiche di sviluppo della musica pop. Un’ipotesi solo apparentemente trasgressiva di cui esplicito nel libro i presupposti e le conseguenze teoriche. Essa ovviamente presuppone, di nuovo, un duplice gesto. Anzitutto, sottrarre Adorno alla lettura banale di elitario e schizzinoso “spregiatore” della musica leggera: ci sono testi adorniani, in parte inediti, in parte no, che correggono queste sciocchezze, eternate e diffuse grazie alle pur preziose analisi di Middleton. In secondo luogo, e conseguentemente, cercare di comprendere le movenze di fondo della musicologia adorniana per rendere possibile quell’analisi della musica pop del secondo dopoguerra che Adorno non ebbe tempo, e forse non sarebbe stato culturalmente in grado, di affrontare. Appare così non solo che di postmoderno musicale si può parlare senza usare le categorie del postmoderno filosofico, ma che Adorno fu in grado di pensare e può aiutarci ancora a pensare cosa sia quel postmoderno musicale: non a caso, dunque, il postmoderno filosofico che è cieco rispetto al postmoderno musicale che lo eccede, è inconciliabile con il pensiero di Adorno. Ciò presuppone che si analizzi il linguaggio della musica da una prospettiva diversa che rende la musica un’esperienza più radicale della filosofia. Nel libro parlo infatti di un logos musicale, distinguendolo dal logos filosofico, ed è a partire da quello, e non da questo, che la categoria di postmoderno musicale assume un senso per me autenticamente critico.
S.M.
Dopo avere chiarito e approfondito il significato del sottotitolo dell’Introduzione al libro, facciamo un passo indietro (o in avanti, a seconda dei punti di vista) e passiamo al titolo del libro stesso, ovvero La vendetta di Dioniso. Il termine di riferimento qui non è tanto Adorno quanto Nietzsche, dal cui La visione dionisiaca del mondo trai la lunga citazione posta in apertura della terza parte del libro. Puoi spiegarci in che senso nella musica del secondo Novecento, e soprattutto in quella rock degli ultimi decenni, si sarebbe consumata una tale “vendetta”? Che cosa si intende propriamente con ciò nel libro?
M.M.
La “vendetta” di cui si parla è quella del postmoderno musicale rispetto al postmoderno filosofico e la sua incarnazione accademica. All’algida iteratività, alle rassicuranti armonie post-tonali, al populismo estetico del postmoderno accademico, contrappongo il gesto di rottura, la passione per il feedback, la violenza armonica, il gesto anti-grazioso e sfrontato di molta musica pop. Ho cercato nel libro di mostrare la funzione ideologica e regressiva dell’operazione teorico-musicale di Wertens e Nyman, mostrando come quell’esigenza di “semplicità” e “comunicatività” espressa dalla musica accademica a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 fosse smentita di fatto dagli sviluppi della musica rock che, dai Beatles a Frank Zappa, dai King Crimson ai Naked City, andava in direzione esattamente opposta, elaborando un linguaggio in cui la frattura, l’asimmetria, la dissonanza, l’aumento di complessità erano offerte a un pubblico spesso ben disposto ad accettarne le asperità, a crescere nell’ascolto attraversandone le difficoltà. In sintesi, una vera musica “postmoderna” (nel senso di mescolamento tra alto e basso, fusione non conciliante di generi diversi, ruolo attivo del pubblico, assenza di centro, critica del soggetto ecc.) mi sembra essere stata proposta nella musica pop degli anni ’60-’70 come radicalizzazione e non abbandono del modernismo, dunque in direzione esattamente opposta alla musica colta degli anni ’80. E se allora Dioniso è il nume tutelare nietzschiano del postmoderno, non è qui che ha celebrato i suoi riti.
S.M.
Una delle caratteristiche del Novecento post-avanguardista – se così possiamo chiamare l’età successiva tanto alle cosiddette avanguardie storiche di Schönberg, Webern, Bartók o Stravinskij, quanto ai vari Boulez, Stockhausen, Nono e altri ancora fra coloro che, nella seconda avanguardia, si richiamarono dapprincipio al “verbo” della serialità integrale – è stata l’instaurazione, e via via la normalizzazione senza più sorpresa o scandalo alcuno, di contaminazioni e collaborazioni tra compositori “seri” o “colti” e musicisti popular o “di massa”. Innumerevoli, se non infiniti, sono gli esempi che si potrebbero citare a tal proposito, per cui mi limiterò a ricordare qui, senza pretese di esaustività, opere come il raffinato arrangiamento di brani di Lennon e McCartney compiuto da Luciano Berio in Beatles Songs (1965-67), le rielaborazioni e rivisitazioni di parti dei lavori di David Bowie e dei Radiohead compiute da Philip Glass e Steve Reich (rispettivamente, “Heroes” Symphony del 1996 e Radio Rewrite del 2014), o l’uso sofisticato e nient’affatto kitsch (a differenza di quanto accade di solito in questi casi!) delle risorse di un’orchestra sinfonica che ha saputo fare Peter Gabriel in Scratch My Back del 2010. Tuttavia, a proposito del presunto “superamento della divisione tra cultura ‘elitaria’ e cultura ‘popolare’”, tu scrivi che esso “poggia su una svista madornale, anzi due. Non solo, infatti, la musica accademica neoromantica e minimalista non si è affatto ibridata alla musica popolare, ma è divenuta, sic et simpliciter, musica pop. La musica pop, nello stesso periodo di incubazione e sviluppo del minimalismo, aveva dal canto suo iniziato un percorso di fecondazione in senso inverso con i linguaggi del modernismo musicale. Ciò l’aveva portata a mettere in questione proprio quella semplicità che doveva essere il marchio di fabbrica della sua capacità comunicativa, del suo essere ‘popolare’. Nel minimalismo, quindi, l’accademia diventa pop assecondando un’immagine stantia di ciò che è ‘popolare’, mentre la musica pop stava definitivamente superando proprio quella presunta esigenza di immediatezza e accessibilità” (p. 28). Ti chiedo: all’idea di un tale scambio incrociato di valori, significati e livelli non si potrebbe obiettare che essa è probabilmente valida e appropriata per certi fenomeni musicali del nostro tempo, ma non certo per tutti? (laddove la tua “filosofia della musica postmoderna” sembra avanzare pretese, se non certamente di completezza assoluta, comunque di capacità di dar conto dello sviluppo complessivo della musica contemporanea – e proprio una tale ambizione, aggiungo, non è l’ultimo dei motivi di fascino e interesse del tuo libro). Per esempio: non si potrebbe contestare l’associazione dei vari compositori comunemente conosciuti come minimalisti sotto un’unica etichetta di “accademia [che] diventa pop assecondando un’immagine stantia di ciò che è ‘popolare’”, evidenziando quanto siano diversi, piuttosto, i percorsi compositivi degli stessi Glass e Reich (per non dire di altri minimalisti e cosiddetti neoromantici)? E, viceversa, non si potrebbe obiettare che il discorso su una “musica pop [che] nello stesso periodo di incubazione e sviluppo del minimalismo aveva dal canto suo iniziato un percorso di fecondazione in senso inverso con i linguaggi del modernismo musicale” si applica abbastanza bene a figure molto particolari nel panorama pop-rock come Pink Floyd, Genesis, King Crimson, Frank Zappa ecc., capaci di elaborare i linguaggi popular oltre i consueti limiti della semplicità, accessibilità e, per dirla con Adorno, banalità, ma non si applica egualmente bene alla maggioranza dei protagonisti della scena musicale popular incapaci di elevarsi ai livelli dell’“art rock” (p. 254) e di evitare successioni melodiche o armoniche standardizzate o, sempre per dirla con Adorno, sincopazioni pseudo-individualizzanti?
M.M.
A domanda lunga risposta breve, spero! Anche perché la questione è abbastanza semplice in realtà. Come tu osservi la mia indagine non pretende essere esaustiva ma ha un’ambizione teorica, cioè definire i tratti essenziali della musica del presente, hegelianamente: elevare il presente (musicale) a livello del concetto. Ciò implica un impegno con la categoria della totalità, seppure in senso critico-negativo, adorniano. La totalità è il medium in cui avviene oggettivamente (e il pensiero riesce a ricostruire soggettivamente) il divenire storico della musica del ’900. Questa è la tesi del libro. Da ciò emergono gli esempi che ho fatto a proposito degli snodi storici in cui il comporre musica si definisce in questo divenire, esempi che ci parlano di opposizioni, forzature, superamenti e momenti di stallo. Gli esempi sono tutti discutibili, non pretendo l’incontrovertibilità. Ma la tesi filosofica di fondo andrebbe appunto accolta o rigettata assumendo lo stesso approccio, cioè cercando di rendere conto, possibilmente nel dettaglio tecnico-compositivo, di ciò che è accaduto nella musica del ’900 in particolar modo rispetto a questo scambio alto/basso, semplice/complesso di cui parli. Io non sostengo che tutta la musica rock, non dico si elevi, ma ci permetta di gettare uno sguardo oltre la ripetizione dell’identico, la forma di merce o il rito regressivo. Dico che dal suo magma emerge qualcosa che va in quella direzione (nel libro precedente scritto con Baptiste Le Goc: Musica per il pensiero. Filosofia del progressive italiano, analizzo anche i motivi per cui quella rivoluzione musicale era condannata al fallimento). Allo stesso modo può anche darsi che nella galassia minimalista e dalla nuova semplicità emergano fenomeni che guardano nella stessa direzione ma da un punto di vista inverso. Il problema è che la teoria che ne ha giustificato la nascita è falsa e ingannevole, come spero di aver mostrato. E non ho trovato finora giustificazioni teorico-musicali soddisfacenti. Se la giustificazione è che semplice e complesso sono concetti “relativi”, che per comprendere questo tipo di musica devi avere l’atteggiamento “giusto” ecc., sono considerazioni che non mi hanno mai convinto. So che ci sono anche eserciti di fenomenologi pronti a dimostrare che le cose stanno così e qui non posso che ripetermi: l’unica fenomenologia in grado di cogliere il divenire storico della musica è quella di Hegel. Il resto è una ricostruzione conciliante, in cui al logos musicale non è dato il posto che gli spetta nella costruzione del senso e del non-senso nell’avventura storica della libertà umana.
S.M.
Dopo una domanda fin troppo lunga come quella precedente, ti faccio una domanda più semplice e rapida. Facendo riferimento per comodità a categorie ed etichette abbastanza comuni, nel tuo libro c’è moltissima musica “seria” o “colta” o “accademica”, moltissima musica “leggera” o popular o “di consumo”, e però, mi sembra, relativamente poco jazz. Se non vado errato, cioè, nella tua ricostruzione e interpretazione delle avventure e disavventure del Novecento musicale il jazz figura solo in maniera marginale, facendo capolino qua e là in rapporto al tema dell’improvvisazione ma scomparendo quasi subito dall’orizzonte del discorso. E ciò, nonostante sia opinione diffusa che il jazz rappresenti una delle “manifestazioni musicali più originarie e più vitali che ha prodotto il [XX] secolo”, come diceva ad esempio il musicologo tedesco Joachim-Ernst Berendt (criticatissimo da Adorno, peraltro!). Se è così, puoi spiegarci le ragioni della tua scelta?
M.M.
Ma è ovvio, perché sono un adorniano e quindi non capisco niente di jazz! In realtà è solo apparentemente vero che il jazz sia marginale rispetto alla traiettoria del mio libro. Il problema è intendersi su cosa voglia dire “jazz”. Se il tema fondamentale del libro è la totalità musicale e il modo in cui essa viene a esprimersi nei singoli brani musicali e come i singoli brani la configurano al proprio interno, appare evidente come, da questo punto di vista, il jazz occupi un ruolo ambiguo. Perché qui l’aspetto compositivo e improvvisativo, la struttura e l’eccedenza rispetto alla struttura, la costruzione della forma e l’ispirazione dell’irripetibile, si trovano in una dialettica unica, peraltro difficilmente sistematizzabile. La stessa storia del jazz testimonia di questa tensione interna. Uno dei capitoli centrali del libro è dedicato proprio a questo, al ruolo decisivo che l’improvvisazione gioca nella definizione della totalità musicale. Ovviamente ho dovuto fare delle scelte nel trattare gli sviluppi della musica del ’900 e ho deciso di affrontare in modo più analitico i momenti in cui, per così dire, alcuni nodi vengono al pettine, soprattutto i nodi in cui la forma, il “genere”, viene trasceso, diventa altro. A me interessava qui soprattutto parlare dei luoghi in cui il jazz si aliena da sé, smette di esprimere un genere e un’identità e diventa potenza negativa, non-identico in azione, processo le cui contraddizioni immanenti si acuiscono e tendono ad esplodere. Va detto per inciso che se ciò che Adorno diceva della sincope e della pseudo-individualizzazione di un’improvvisazione che non è davvero tale fosse stato interamente falso non si capirebbe perché il jazz abbia prodotto dal proprio interno fenomeni reattivi, abolendo lo swing e liberando l’improvvisazione dagli schemi che la ingabbiavano. Mi sono così interessato alla commistione tra avanguardia e free-jazz, all’improvvisazione radicale e non-idiomatica, nel libro cito Braxton, Derek Bailey e gli Area ma ovviamente gli esempi avrebbero potuto moltiplicarsi. Adoro Coleman, Coltrane e Sun Ra. Ho divorato Nefertiti, Bitches Brew e In the Corner, ma il punto non era mettere dentro al libro i dischi che amo, altrimenti avrei dovuto fare un capitolo sugli Stooges, sui Kraftwerk, sui Kaleidoscope o…sui Queen (che credo di non aver nemmeno citato!). Anche qui il punto era cercare l’essenziale. D’altro canto, il jazz è stato fonte di ispirazione per molti altri generi di cui parli nel disco. Probabilmente è troppo presente perché se ne possa parlare in modo settoriale e specifico.
S.M.
Da ultimo, tornando al titolo del libro, o meglio al suo sottotitolo (La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana), se è abbastanza chiaro perché la tua narrazione cominci con Schönberg, il padre di un certo modernismo musicale con l’emancipazione della dissonanza, l’atonalità e la dodecafonia, non altrettanto chiara può risultare la decisione di individuare nei Nirvana la fine, la conclusione di tale percorso. Sembra quasi che tu voglia attribuire a Kurt Cobain & soci un valore di “soglia epocale” o qualcosa del genere. Il che risulta senz’altro stimolante, senza dubbio incuriosisce non appena si veda il tuo libro sullo scaffale in libreria e se ne legge il titolo, e però, come dicevo, non per forza appare immediatamente chiaro, necessitando perciò di un chiarimento da parte dell’autore. D’altra parte, aggiungo che, non appena ho avuto il tuo libro fra le mani, mi è scattata in testa un’associazione mentale spontanea fra il riferimento ai Nirvana nel tuo libro, quello nel cap. 1 di Realismo capitalista di Mark Fisher (pp. 38-39) che vede in Cobain l’incarnazione tragica delle contraddizioni di un’epoca in cui “non c’è più alcuna alternativa”, e quello nel booklet del cofanetto di 4 cd Ten Years Solo Live di un pianista jazz raffinato e colto come Brad Mehldau che spiega così la propria scelta di eseguire, o meglio reinventare, Smells Like Teen Spirit in concerto per piano solo: “Kurt Cobain, with his lyrics and way of singing, inadvertently become a spokesperson for my generation. That music spoke to the way we all felt lost and untethered in the world. […] Kurt Cobain had that “for-real” vulnerability, and it seemed he had no choice but to scream it out at us, completely unhinged, like a scared man-child. That’s what made his expression so strong”. Tutte testimonianze che, seppure in modo diverso, sembrano davvero fare di Cobain una figura-chiave della nostra epoca: cosa che, fosse solo per l’attaccamento che ho nei suoi confronti per evidenti motivi anagrafici e di appartenenza generazionale (tieni conto che una delle persone che ammiro e insieme invidio di più al mondo è il mio amico Ivan che nel 1994, a 16 anni, scappò di casa, saltò su un treno Siracusa-Roma senza neanche fare il biglietto, e andò a sentire i Nirvana in quello che fu uno dei loro ultimi concerti, affrontando poi impavidamente la madre inferocita al momento di tornare a casa!), mi incuriosisce e stuzzica non poco.
M.M.
È ovvio che il sottotitolo sia un po’ di effetto, perché il libro si spinge a trattare autori, tendenze ed opere successive, arrivando oltre i 2000. Ma è vero che ai Nirvana ho voluto dedicare un passaggio importante del libro, quello che porta a esaurimento, dal mio punto di vista, l’esperienza della scena “alternative”. Mi è parso che Cobain riuscisse, dall’interno dello stallo teorico-compositivo del rock underground, di forzare i limiti di quel discorso lì, fondato su dualismi adialettici (autentico/inautentico, artistico/commerciale, rock/pop) e su una sperimentazione sonora (“sonic”) ormai frustra, in cui la dissonanza e il feedback, l’urlo e la distorsione, avevano esaurito le possibilità espressive e si erano ridotte a mero segnale identificativo: “eccoci, siamo alternativi al mainstream”. In quelle pagine ho usato, come ho spesso fatto nel libro, analisi di Adorno che funzionano alla lettera quando vengono decontestualizzate e spostate su oggetti diversi. La critica adorniana al potenziale regressivo e identitario della musica radiofonica funziona alla perfezione per descrivere la scena alternative, piuttosto che il mainstream. Ecco, rispetto a questo la grandezza di Cobain, la geniale via di fuga da quella impasse storica sta, come spesso avviene nei momenti cruciali della storia della musica, in un guardare indietro. È stato così per Schönberg e per Stravinsky. Cobain mise in campo una risorsa apparentemente banale che spostò però il baricentro dal timbro, dal sound, alla struttura propriamente musicale: compose canzoni, accordi, melodie, testi, in un modo nuovo, incredibilmente fresco e originale eppure immediatamente comprensibile. Realizzò ancora una volta quella che secondo Adorno è la magia della musica leggera, eteronoma: attraverso un linguaggio apparentemente esaurito dire ciò che non era stato ancora mai detto. I pezzi dei Nirvana non sono sperimentali nel senso dell’avanguardia o dell’underground (Cobain soffriva una specie di senso di colpa per il fatto di fare “solo” rock ’n’ roll) e molti elementi della loro musica vengono da fonti abbastanza facilmente individuabili. Eppure lo stile di Cobain è unico, riconosceresti un suo pezzo, o un pezzo ispirato a lui, tra mille al primo ascolto. Una specie di miracolo. Devo dire che all’epoca non me ne accorsi. Li ascoltai e amai ma non in modo esclusivo. Se guardo indietro oggi svettano da soli tra la musica che ascoltavo allora. E il giudizio storico (se valutiamo in termini di effetti di lungo periodo, di quanto la musica dei primi anni ’90 sia ancora ascoltata oggi dai giovani) mi pare sia inequivocabile.