Giovanni Zoda, Mondo conoscibile
cm 46×49, resina e olio su tavola, 2016
Siamo soliti considerare le tecnologie che ci circondano come un prodotto della nostra intelligenza. In questo saggio, vorrei provare a convincervi piuttosto che è la nostra intelligenza a essere un prodotto delle tecnologie. Più precisamente, vorrei sostenere l’ipotesi per cui la cognizione umana non si fondi soltanto sul cervello e su un corpo agente, ma sia costituita dalle tecnologie. In altre parole, insomma, l’intento è dimostrare che noi siamo fatti anche di tecnologia.
Cosa c’entrino le scimmie in questo contesto è presto detto: le scimmie rappresentano metaforicamente (ma non troppo) la nostra condizione animale, sicché tale espediente retorico ha il fine di tarare il discorso che faremo sul piano seguente: per affrontare al meglio il rapporto tra tecnologie e il modo in cui interagiamo con esse, dobbiamo descrivere questo rapporto in termini evoluzionistici, investigando il rapporto tra cognizione e tecnologia archeologicamente. Mediante la comprensione dei meccanismi che hanno permesso la formazione delle menti moderne, faremo luce sulle possibili implicazioni che la tecnologia in generale, e le immagini in particolare, producono sulla nostra cognizione, oggi.
Tre, quindi, tre le questioni che solleverò: le tecnologie costituiscono ed estendono la cognizione umana; l’archeologia cognitiva si presenta come un utile strumento di indagine per capire tali fenomeni da una prospettiva ideale; le immagini forniscono un interessante studio di caso sulle possibilità di estensione sensoriale e cognitiva offerta dai media.
La costituzione tecnica nei media studies
Prima di proseguire, però, può essere utile contestualizzare questa ipotesi all’interno dei media studies, in primo luogo per presentare in modo più chiaro possibile l’idea in ballo, in secondo luogo per fornire una sintesi molto generale di quanto l’ipotesi di costituzione tecnica sia ben presente almeno da più di un secolo, in forme e declinazioni che saranno solo brevemente accennate.
A seguito dell’invenzione della fotografia e del cinema, della rivoluzione industriale e mediante il dominio dell’elettromagnetismo – con tutte le conseguenza tecnologiche ad esso associate – la riflessione filosofica ha cominciato a interessarsi genuinamente al problema della tecnica (Briggs, Burke, 2002: 131-148). L’imponente e vertiginosa crescita delle tecnologie costrinse i pensatori dell’epoca a osservare e comprendere l’impatto che esse avrebbero avuto sulla vita delle persone. Tuttavia, anche se lo sforzo interpretativo si intensificò a cavallo tra Otto e Novecento, i principi di funzionamento tecnologico e mediale hanno sempre accompagnato la nostra vita sulla Terra: dal dominio del fuoco di Homo erectus fino alla stazione spaziale internazionale, l’essere umano è sempre stato costituito dalla tecnologia. Essere costituito dalla tecnologia significa – e lo vedremo meglio tra poco – che non è possibile spiegare come siamo fatti, come funziona la nostra cognizione, insomma chi siamo, senza tenere in considerazione il mondo che ci circonda. Il mondo, però, non è mai semplicemente uno sfondo neutro, ma è arricchito da utensili e simboli che creano “ambienti associati”(Montani, 2012: 36) i quali, a loro volta, diventano parte costitutiva di noi(Simondon, 2011; Cecchi, 2013).
Tracce di questa consapevolezza filosofica si trovano nella fenomenologia di Martin Heidegger e nel pragmatismo di John Dewey: per entrambi, al netto delle ovvie differenze epistemologiche, il “Soggetto” non è qualcosa che si dà di per sé, ma diviene entità riconoscibile in virtù dell’esposizione al mondo e dell’ingaggio provocato da quest’ultimo(Heidegger, 2006; Dewey, 2007). Nel corso del Novecento, la sofisticazione mediale ha reso il mondo un posto sempre più complesso e stimolante, persino troppo stimolante. Cominciano a emergere concetti chiave che accompagneranno stabilmente la riflessione teorica e caratterizzeranno tutte le correnti filosofiche che attribuiscono importanza al mondo in quanto elemento costitutivo del soggetto (Pireddu, Serra, 2012). Esonero, protesi, estensione: tutti termini che, in un modo o nell’altro, indicano la tendenza naturale umana a farsi contaminare dalla tecnica, prolungandosi su di essa ma allo stesso tempo includendola organicamente. Essere esonerati dal sollevare un peso, accrescendo le condizioni naturalmente deficitarie dell’organismo (Gehelen, 2010); delegare alla ruota, invece che al piede, il compito dello spostamento, modificando la concezione stessa dei concetti di vicino e lontano (McLuhan, 2008); indossare degli occhiali come estensione o protesi delle facoltà percettive (Hall, 1976: 25-40).
L’etichetta con cui generalmente viene definito questo modo di ragionare sulle questioni tecnologiche prende il nome di paradigma protesico (Granata, 2015). Nell’ambito dei media studies ha conosciuto la sua massima fortuna probabilmente con gli studi di Marshall McLuhan e, più in generale, della Scuola di Toronto, ma si ritrova presso molti autori a cavallo tra mediologia, estetica e antropologia. Solitamente, sull’altro lato della medaglia del paradigma protesico troviamo la definizione di determinismo tecnologico: il determinismo tecnologico è l’ipotesi per cui i media siano da ritenere – al di là di ogni forma di controllo individuale, politico, sociale, economico – l’unico reale fattore causale del cambiamento sociale. Il determinismo tecnologico è una tesi controversa e criticata, in quanto per molti autori è difficile immaginare un unico motore causale che sottintende i processi di mutamento. Tuttavia, anche la tesi opposta – quella per cui ogni fenomeno vada spiegato mediante cause genericamente sociali – non gode di assoluta fortuna. In generale, è l’assolutizzarsi di uno dei due poli a non convincere i teorici dei media (Ortoleva: 34-35).
Per non affrontare la questione nel dettaglio, ma tenendo viva la centralità dei media nel processo di costruzione del mondo sociale, può essere utile ricorrere al concetto di mediazione. La mediazione è l’insieme delle interazioni che accadono tra organismi e ambiente, l’intero sistema di connessioni intercorrenti tra noi e il mondo che abbiamo attorno. Il teorico dei media Richard Grusin l’ha definita radicale, affermando, ancor più provocatoriamente, che la distinzione stessa tra soggetto e oggetto sia mal posta: non esiste niente di predeterminato ontologicamente – il soggetto da una parte, il mondo dall’altra –, ma ogni possibile distinzione si crea in virtù del processo di mediazione (Grusin, 2017).
Insomma, il determinismo tecnologico è una tesi obsoleta, ma nel prossimo paragrafo presenterò degli argomenti in favore di una sua possibile rilettura nell’ambito degli studi cognitivi, discutendo due modelli teorici che hanno l’ambizione di spiegare il controverso rapporto tra individui e tecnologie.
La scimmia si estende: Radical Embodied Cognition (REC) e Material Engagement Theory (MET).
Come abbiamo visto, la riflessione prettamente mediologica inizia in pratica con la rivoluzione industriale. Ma questo non deve ingannarci: la mediazione è un processo che esiste, regolando le nostre vite, già da prima di noi. Se un macaco si esercita con una stecca per un certo periodo, svolgendo compiti di presa, dopo qualche minuto la stecca diventa parte del suo organismo, da un punto di vista neurofunzionale (Iriki, Michio, Yoshiaki, 1996: 2325-2330; cfr. Parisi, 2015: 125-148).
Questo filone di esperimenti dimostra in modo semplice ed elegante l’idea di base: gli aggeggi con cui entriamo in relazione ci estendono, letteralmente. Tali dispositivi non si limitano a supportare il soggetto, ma ne modificano costitutivamente la presa sul mondo. La metafora più calzante per fornire una rappresentazione di questi concetti è quella del cyborg: noi siamo cyborgs naturali (Clark, 2003) perché abbiamo potenziato i nostri corpi e le nostre menti con l’innesto di tecnologie che, retroagendo, hanno alterato stabilmente la nostra relazione col mondo. L’aspetto fantascientifico della questione non deve farci credere di essere di fronte a un fenomeno vagamente possibile, per due ragioni: in primo luogo, esistono già dei cyborgs, siano essi persone tenute in vita da un pacemaker o artisti performers che hanno deciso di farsi impiantare fisicamente oggetti nel corpo – Neil Harbisson è il primo cyborg legalmente riconosciuto: acromatoptico (non vede i colori) usa un’antenna impiantata stabilmente nel cranio che traduce in suoni i colori. Ha condotto una battaglia legale affinché il suo status venisse riconosciuto formalmente, mediante la foto del passaporto che lo ritrae con il suo eyeborg -; in secondo luogo, non è necessariamente la connessione fisica permanente a creare un cyborg, ma la relazione protesica che si instaura tra l’individuo ed elementi del mondo. Per illustrare cosa intenda con relazione protesica, farò riferimento ad alcuni studi di stampo cognitivista, orientati sia alla filosofia della mente tradizionale, sia all’archeologia cognitiva, ovvero quella scienza che studia la nascita delle mente moderne a partire dal ritrovamento di utensili e tecnologie simboliche dei nostri progenitori.
In linea generale nelle scienze cognitive contemporanee vige il cosiddetto approccio embodied (incarnato) della cognizione.Semplificando, secondo questo approccio – anche se sarebbe meglio dire galassia di approcci – non possiamo spiegare come funziona la mente umana senza considerare l’organismo che la ospita. In altre parole, il cervello da solo non fa la cognizione, bisogna comprendere il sistema cervello-corpo nella totalità delle sue interazioni. Questa impostazione è ormai largamente diffusa e definisce lo standard della ricerca contemporanea nelle science cognitive (Caruana, Borghi, 2013: 23-48; cfr. Clark, 2016). Sull’onda della svolta embodied, altri programmi di ricerca si sono sviluppati. Il ragionamento di base è grossomodo il seguente: se il cervello non basta a spiegare la cognizione e abbiamo bisogno del corpo, come possiamo davvero capirci qualcosa senza tenere in considerazione lo spazio dove tale corpo agisce? In altre parole, abbiamo capito che studiare astrattamente le funzioni mentali (cerebrali) non conduce alla risoluzione di annosi problemi filosofici, allora perché non considerare anche l’ambiente e le sue tecnologie come ingredienti di base per la spiegazione dell’attività cognitiva umana?
A seguito di questa e altre considerazioni teoriche si è affermato l’enattivismo, la corrente filosofica che considera come costitutivi per la cognizione umana non solo il cervello e il corpo, ma anche il mondo circostante e le tecnologie contenute in esso. Anche nel caso dell’enattivismo, non esiste un solo approccio (Noë, 2004; Thompson, 2007; Gallagher, 2017)
In questo testo discuterò le tesi di Daniel Hutto e Erik Myin, evidenziando gli aspetti di estensione e relazione protesica presenti nel loro modello teorico, conosciuto con l’acronimo REC – Radical Embodied Cognition – (Hutto, Myin, 2013; Hutto, Myin, 2017). Secondo Hutto e Myin, la cognizione umana si fonda sull’irrinunciabile combinazione di fattori corporei e ambientali. Le nostre menti nascono prive di contenuto o di rappresentazioni e solo la costante esposizione al mondo le rende capaci delle sofisticazioni a cui siamo abituati.
[Estratto del saggio: F. Parisi, “La scimmia visuale. Immagini mentali, cave art e retroazione mediale”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano 2018]
Bibliografia:
Briggs A., Burke P., A social History of the Media. From Gutenberg to the Internet, tr. it. di E. Mannucci, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, il Mulino, Bologna 2002.
Caruana F., A.M. Borghi, Embodied Cognition: una nuova psicologia, in «Giornale italiano di psicologia» 1/2013.
Cecchi D., La costituzione tecnica dell’umano, Quodlibet, Macerata 2013.
Clark A., Natural Born Cyborgs. Minds, Technologies and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, New York 2003.
Clark A., Surfing Uncertainty: Prediction, Action, and the Embodied Mind, Oxford University Press, Oxford 2016.
Dewey J., Art as Experience, tr. it. di. G. Matteucci, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo 2007.
Gehelen A., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Mimesis, Milano 2010.
Granata P., Ecologia dei media. Protagonisti, scuole concetti chiave, Franco Angeli, Milano 2015.
Grusin R., Radical Mediation (2015), in R. Grusin, A. Maiello (a cura di), Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, Pellegrini Editore, Cosenza 2017.
Hall E.T., Beyond Culture, Anchor Press/Doubleday, New York 1976.
Heidegger M., Sein und Zeit, tr. it. di A. Marini, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006.
Iriki A., Michio T.., Yoshiaki I., Coding of modified body schema during tool use by macaque postcentral neurones, in «Neuroreport», 7, 1996.
McLuhan M., Understanding Media. The Extensions of Man, tr. it. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2008.
Montani P., Tecnoogie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina, Milano 2012.
Ortoleva P., Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, il Saggiatore, Milano 2010.
Parisi F., Tecnologie enattive. La mediazione da una prospettiva cognitivista, in «Reti, Saperi, Linguaggi», 7(1), 2015.
Pireddu M.,Serra M. (a cura di), Mediologia. Una disciplina attraverso i suoi classici, Liguori, Napoli 2012.
Simondon G., L’individuation à la lumière des notions de formes et d’information, tr. it. di G. Carrozzini, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, Mimesis, Milano 2011.