Mare monstrum

 

 

 

 

Lo scontro istituzionale e politico sul caso della nave Diciotti, trattenuta nel limbo di un porto con 177 migranti a bordo  cui viene impedito di sbarcare,  offre purtroppo ancora una volta l’occasione per riflettere sulla questione dei confini nazionali, in questo caso marittimi, e sulle implicazioni  che la loro difesa comporta. Va detto che, nel caso specifico, qui non si tratta di limitare l’ingresso in Italia, poiché quei migranti si trovano già nel nostro Paese dal momento in cui sono saliti a bordo. La situazione è paradossale: una nave militare italiana non può attraccare in un porto italiano perché il Ministro degli Interni, italiano anche lui, lo impedisce. Ma la questione va, evidentemente, al di là del caso specifico e ha a che fare con problemi più generali: la difesa dei confini marittimi, l’intercettazione delle imbarcazioni, il diritto del mare, il rimpatrio dei migranti intercettati.

In generale, le zone marittime di confine vengono create tramite misure di interdizione delle rotte migratorie marittime attraverso l’estensione dell’autorità dello Stato al di là dei suoi confini territoriali. L’intervento di attori, apparati e funzionari pubblici proietta i confini verso l’esterno creando una zona di frontiera dai contorni non sempre ben definiti allo scopo di proteggere lo spazio tellurico dello Stato dalle minacce esterne. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos-United Nations Convention on the Law of the Sea), il diritto di intercettazione da parte di uno Stato è limitato alle acque territoriali o alla zona contigua (la cui istituzione è facoltativa, richiede una formale proclamazione da parte dello Stato costiero e può spingersi sino a 24 miglia marine), mentre in alto mare vale esclusivamente per le navi che battono la sua stessa bandiera. In questi spazi è lo Stato a disporre del monopolio dei mezzi di controllo e di coercizione, in linea con il modello di sovranità basato sul territorio. Per l’alto mare, che la Convenzione non a caso propone in termini negativi (“tutte le parti di mare che non sono comprese nella zona economica esclusiva, nel mare territoriale, nelle acque interne o nelle acque arcipelagiche”), vale il principio della perfetta eguaglianza e completa indipendenza di tutti gli Stati, per cui risulta interdetta ogni forma di giurisdizione esclusiva.

Nel corso degli ultimi anni è stata tuttavia inaugurata una linea di intervento che prevede tutta una serie di eccezioni attraverso lo strumento della interception at sea, ovvero l’intercettazione delle imbarcazioni che trasportano i migranti irregolari prima ancora che abbiano fatto ingresso all’interno dei confini marittimi del Paese di destinazione. Una prima serie di eccezioni è quella attuata tramite accordi bilaterali conclusi tra i Paesi di destinazione e i Paesi di origine o transito dei migranti, che permettono la sorveglianza in alto mare, ma includono anche controlli di polizia nelle acque territoriali degli Stati di imbarco o altre forme di interdizione esterne al territorio. Gli accordi bilaterali – i quali autorizzano lo Stato che attua l’intercettazione a bloccare o a respingere le navi che battono la bandiera dello Stato con cui hanno stretto l’accordo – sono basati su una molteplicità di strumenti: scambio di note diplomatiche, accordi di cooperazione tra le forze di polizia, memorandum d’intesa. Il primo accordo di questo tipo è stato siglato il 23 settembre 1981 tra gli Stati Uniti e Haiti a seguito dell’esodo di migranti haitiani dall’isola. Questi accordi, il cui scopo dichiarato è di creare una zona di vigilanza transnazionale così da rendere più efficaci le misure di contrasto all’immigrazione ‘illegale’, non sono affatto prive di precedenti – basti pensare alle forme di cooperazione tra gli organi di polizia dei diversi Paesi in funzione di contrasto al narcotraffico. Attualmente gli accordi bilaterali tra Stati intercettanti e Stati di imbarco sono diventati uno strumento di uso comune, e gli accordi sottoscritti tra gli Stati dell’Unione europea e gli Stati a sud del Mediterraneo, gli Stati Uniti e i loro partner nei Caraibi, l’Australia e nei paesi limitrofi nel Pacifico  si sono moltiplicati.

Un secondo approccio giuridico, introdotto al fine di superare i limiti territoriali e i vincoli all’intercettazione previsti dal Diritto del mare, è costituito dalle proclamazioni nazionali unilaterali. Si tratta di una pratica in realtà scarsamente utilizzata, a cui gli Stati fanno ricorso solo se già prevista da un accordo bilaterale. Per quanto riguarda l’Italia, la legge Bossi-Fini n. 189 del 2002 ha previsto una zona contigua al limite delle acque territoriali, nella quale le unità militari italiane possono esercitare poteri di polizia. A questa zona contigua fa riferimento il Decreto interministeriale 14 luglio 2003, che detta le indicazioni operative per implementare l’art. 12 del testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini. Il terzo approccio consiste nella possibilità di esercitare eventuali atti di ingerenza nella navigazione di imbarcazioni non registrate o prive di bandiera nel quadro di una interpretazione “evolutiva” della nozione di schiavitù. Se la nave non presenta alcun segno di riconoscimento e vi siano ragionevoli motivi di sospetto per ritenere che sia impegnata nell’attività di smuggling, ciascuno Stato firmatario del protocollo di Palermo del 2000 può bloccare e ispezionare l’imbarcazione adottando i provvedimenti che considera necessari.

Quando questi strumenti non funzionano, come nel caso della nave Diciotti, entra in gioco la cosiddetta “soluzione australiana”, evocata in questi giorni dal Ministro dell’Interno. Questa soluzione consiste nel creare zone di confine offshore situate sul territorio di altri Stati. Queste zone, come l’isola di Nauru, nel Pacifico, o l’isola di Manus, nella Nuova Guinea, o come i “Centri di selezione e controllo” nelle regioni di origine e di transito emersi anche recentemente come un perno nelle proposte europee ai Paesi africani in cambio di contropartite e incentivi – come l’offerta di formazione, attrezzatura e risorse finanziarie connesse al controllo dell’immigrazione. Anche l’istituzione di questi spazi di diritto borderline avviene tramite accordi bilaterali – non necessariamente, però, con Paesi terzi. Può infatti prevedere il reclutamento di soggetti privati, come vettori e compagnie aeree, oppure organizzazioni internazionali come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom/Oim) o l’Unhcr. In questo modo gli Stati non solo cercano di evitare eventuali contraccolpi sul piano “umanitario” senza per questo rinunciare ai poteri e alle prerogative che sono propri dell’ordinamento giuridico, dal momento che queste topologie giuridico-politiche sono finalizzate ad assicurare la protezione di uno spazio interno normalizzato. Ma si mettono in condizione di disattendere gli obblighi internazionali e di trasferire la responsabilità di eventuali errori, abusi e violenze ad attori relativamente “irresponsabili”. La disconnessione tra scelte politiche e misure di applicazione offre agli Stati l’opportunità di autoassolversi e mantenere intatte le loro presuntive credenziali umanitarie. Una opportunità permessa anche da strumenti come gli accordi di riammissione, il trattenimento del primo Paese di arrivo e il trasferimento in un third safe country (Paese terzo sicuro). Gli accordi di riammissione, che dovrebbero garantire la effettività delle espulsioni e dei respingimenti, si sono di fatto tradotti nello sbarramento dei percorsi, divenuti sempre più pericolosi, dell’immigrazione ritenuta irregolare. Nel caso dei migranti forzati, il concetto di primo Paese di arrivo/Paese terzo sicuro implica che essi dovrebbero essere trattenuti nel primo Paese di ingresso in condizioni di garantirne la sicurezza. Anche questo approccio assolve i paesi più lontani dalle zone di conflitto dall’assumersi la responsabilità giuridica di assicurare asilo e protezione a legali ai rifugiati e permette alle agenzie di controllo di ridimensionare alcune delle costrizioni legali e giuridiche che i governi potrebbero incontrare sulla scena nazionale. Ciò avviene principalmente tramite il dialogo bilaterale e regionale, il partenariato e gli accordi di associazione, l’assistenza tecnica e finanziaria oltre che attraverso incentivi complementari.

Naturalmente, le scelte politiche di questi giorni non sono il frutto di decisioni estemporanee, ma sono la prosecuzione coerente di scelte pregresse. Basti pensare alle campagne contro le Ong, accusate di essere i “taxi del Mediterraneo” e sospettate di lucrare sul traffico di esseri umani – ma che in realtà soccorrono i migranti in linea con la cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979 e con altre norme sul soccorso marittimo – servono anche a fare in modo che le facoltà d’intervento e i margini di discrezionalità concessi alle agenzie di controllo siano posti al riparo da sguardi indesiderati. Queste scelte sono coerenti con il tentativo di trasformare il Mediterraneo in un mare monstrum: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha comunicato che dall’inizio dell’anno sono quasi 1.500 le persone decedute mentre tentavano di raggiungere le coste europee. La rotta del Mediterraneo centrale verso l’Italia resta la più letale, con 1.104 vittime registrate da gennaio, quasi quattro volte gli annegamenti sulla rotta per la Spagna (294), e ciò nonostante il numero degli arrivi nella Penisola iberica sia ormai decisamente superiore.


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