Giovanni Zoda, Ex voto
cm 91×119, grafite e olio su tavola, 2012
È risaputo che il senso di un’immagine fotografica non dipende soltanto dalle scelte operate dall’autore, né queste scelte conferiscono un significato che vale una volta per tutte. Il significato di un’immagine come oggetto culturale è rintracciabile nello scarto esistente fra la funzione che il creatore conferisce alla sua immagine e la funzione d’uso (culturale e sociale) che il destinatario gli assegna. Una medesima immagine ideata secondo una precisa idea dell’autore può produrre dunque esperienze di senso che sono radicalmente differenti a secondo di chi e quando la guarda. L’analisi della ricezione delle immagini, del loro potere su chi le guarda è una interessante tematica che si è sviluppata nell’ambito degli studi di cultura visuale e che è al centro di libri come Il potere delle immagini di David Freedberg e Immagini che ci guardano di Horst Bredekamp (Cfr. Freedberg, 2009; Bredekamp 2015).
Prima dell’avvento della fotografia, le arti visive occidentali nel rappresentare e simulare il mondo ricorrevano ad un sistema tripartito composto da spettatore/sguardo dell’artista/sguardi all’interno della rappresentazione. L’avvento della fotografia sembrò accantonare l’idea di una soggettività dello sguardo a favore dell’occhio meccanico che rappresenta oggettivamente la realtà. Secondo Belting, questo processo si è poi invertito con l’avvento dell’era post-fotografica (e delle immagini digitali) reintroducendo il principio della finzione nella creazione delle immagini e nell’esercizio dello sguardo (Belting, 2008). Nello spazio intermedio tra l’orizzonte del realismo e quello della messa in scena si situano oggi alcuni usi e pratiche connesse al medium fotografico per le quali quest’ultimo si è evoluto fino ad oggi attraverso una storia discontinua. Instagram esemplifica bene questa doppia tensione.
Com’è noto, instagram è un’applicazione gratuita disponibile per dispositivi mobili (smartphone, tablet, etc.) che permette agli utenti di scattare foto e di condividerle con altri utenti iscritti alla piattaforma o su altri social network con la possibilità di applicare filtri fotografici. Sfruttando gli hashtag è possibile categorizzare la propria foto per argomento e renderla accessibile all’interno di community che utilizzano la medesima parola chiave. Inoltre Instagram (così come altri social network) si avvale della geolocalizzazione integrata nei dispositivi mobili. La possibilità infatti di segnalare la propria posizione nelle bacheche dei social network costituisce ormai una pratica quotidiana per chi utilizza queste piattaforme per comunicare e condividere esperienze con altri utenti. Questo strumento del tag è fondamentale nelle dinamiche di funzionamento della condivisione delle foto e costituisce una delle possibili modalità di visualizzazione di “profili fotografici” degli altri iscritti al social network. Infatti è possibile accedere ai profili fotografici degli altri utenti tramite la visualizzazione dell’intero album fotografico (scorrendo le singole foto) o tramite la visualizzazione di una mappa digitale nella quale sono “taggate” tutte le foto scattate da quella persona, visualizzabili nel luogo esatto dove sono state scattate, in una sorta di mappa personalizzata contenente la storia fotografica di ogni persona iscritta alla piattaforma.
Le foto in Instagram infatti non sono organizzate in singoli “album” ma scorrono in un flusso continuo. Contemporaneamente il loro essere localizzate geograficamente instaura una forte relazione con il luogo fisico di riferimento, favorendo l’instaurarsi di connessioni di natura spaziale e di tipo socio-economiche. È possibile, infatti, che le foto di un utente scattate, ad esempio, presso un Hard Rock Cafè di una qualsiasi città del mondo renda visibilità al brand e ai suoi prodotti innescando un processo di “marketing dal basso”. In maniera inversa le multinazionali, le aziende, fino ad arrivare alle piccole e medie imprese, utilizzano questa piattaforma per sponsorizzare in maniera diretta i loro prodotti. Se effettuiamo una ricerca su Instagram, è possibile trovare, dissimulate tra le foto e i ricordi personali di milioni di utenti che hanno effettuato un’esperienza in un determinato luogo, anche foto di esercizi commerciali, prodotti e servizi con l’indicazione geografica del luogo.
L’azione degli utenti di “geotaggare” foto di esperienze quotidiane all’interno dei luoghi dell’economia globale (in particolare ad esempio le grandi multinazionali del “food”) innesca meccanismi di autopromozione del sé e condivisione della propria esperienza tramite tracciabilità e immedesimazione con un brand specifico, nonché processi di (in)consapevole sponsorizzazione di quel determinato marchio. Il realismo e la messinscena delle immagini ottenute e condivise (a qualsiasi “genere” o “posa” fotografica queste si ascrivano) sono ancorati fortemente rispettivamente a quell’ “hic et nunc” del tag geografico e dell’hashtag che le accompagna. Il primo – il tag geografico – lo è poiché conferisce all’istantanea precise indicazioni spaziali ed include anche, come vedremo, ogni “fuori campo” possibile (ma conferisce anche precise indicazioni temporali). Manovich, del resto, già nel 2013 aveva indicato come una delle principali caratteristiche dell’applicazione Instagram quella di favorire le connessioni spaziali rispetto a quelle temporali, proprio grazie alla possibilità di taggare su una mappa l’esatto luogo dove si è scattata la foto. (Hochman, Manovich, 2013). Il secondo – l’hashtag – perché abilita la conversione di quello spazio in un luogo, o meglio in una dimensione sociale (si pensi ad esempio ad un hashtag quale “foodporn”). Il tag geografico dunque funziona come addizionatore di “campo” dell’immagine; paradossalmente come inclusore di ogni spazio “off”. A proposito della questione dello spazio nell’atto fotografico in rapporto allo spazio pittorico, Philippe Dubois in L’atto fotografico afferma:
“Lo spazio fotografico [invece] non è dato. E neppure lo si costruisce. È, al contrario, uno spazio da prendere (o da lasciare), un prelievo nel mondo, una ‘sottrazione’ che si effettua in blocco. Il fotografo non è affatto nella posizione di riempire progressivamente un quadro vuoto e vergine, già lì. Il suo gesto consiste piuttosto nel sottrarre d’un sol colpo tutto uno spazio ‘pieno’, già riempito, ad uno spazio continuo. La questione dello spazio, per lui, non è di ‘mettere dentro’ qualcosa, ma di ‘togliere’ in un sol colpo solo” (Dubois, 1996).
In altre parole, ciò che la fotografia precedente all’era post-fotografica non mostra viene oggi “incluso” dal tag geografico. Lo scatto post fotografico di Instagram, nel momento in cui viene condiviso, si interconnette per “contiguità” con il “fuori campo” che aveva escluso. Non solamente attesta, ma ancora più dinamicamente, designa.
[Estratto del saggio: R. Schembri, “Instagram tra realismo e messinscena ”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano 2018]
Bibliografia:
Belting H., Per un’iconologia dello sguardo, in R. Coglitore (a cura di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, Palermo, Duepunti 2008.
Bredekamp H., Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, a cura di F. Vercellone, Raffaello Cortina, Milano 2015.
Dubois P., L’atto fotografico, QuattroVenti, Urbino 1996.
Freedberg D., Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 2009.
Hochman N., Manovich L., Zooming into an Instagram City, in “First Monday”, 18, n. 7, 2013.