“Slow profile”: pacatezza, introversione e altre dimensioni dimenticate nella network society

 

                  

 

Le società occidentali più complesse e avanzate sperimentano, già da molto tempo,  una condizione di grande frenesia e velocità praticamente in tutti gli ambiti di vita che le sono propri. Vasta letteratura di critica sociale(qui ci limitiamo a rinviare, indicativamente, tra i numerosi riferimenti possibili, a:Habermas, J., La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975, Giddens, A.,  Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, Beck, U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000,  Bauman, Z.,Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, Žižek, S., Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002) ha sottolineato come in queste società, definite “turbo-capitaliste”,  il lavoro, i sentimenti, la conoscenza, lo svago, si svolgano in maniera istantanea e rapida, anche sullo sfondo di aporie socio-politiche, e coloro che non riescono a stare al passo di questi sviluppi vengono facilmente lasciati indietro e/o esclusi: siamo ormai nella network society, nella società delle interconnessioni continue e immediate, sullo sfondo della “galassia internet”(su questa espressione si veda Castells, M., Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2006).

A seguito di questa condizione,  alcuni indirizzi di ricerca di teoria sociologica e di filosofia sociale, morale e politica hanno cercato di “opporsi” a tale modello, evidenziandone alcune possibili controindicazioni e enfatizzando concetti come decrescita, sviluppo sostenibile, lentezza. Nella lingua inglese, quando si vuole esprimere l’idea di uno stile misurato e non presuntuoso, si parla di Low profile, nel senso di basso profilo, moderato profilo; ricordando e ricalibrando questa espressione, ora, gli indirizzi di ricerca di cui abbiamo accennato,  potrebbero essere accomunati  sotto la definizione di “Slow profile”, ossia appunto di uno stile che valorizza la lentezza, la pacatezza. Questo concetto di Slow profile, peraltro contiene molte indicazioni e valutazioni corrette e, infatti, è indubbiamente presente nel dibattito contemporaneo mediatico e intellettuale. Alcuni, però, tendono a dare un’interpretazione un po’ distorta (e a volte pretestuosa) di queste teorie, vedendo nel richiamo alla lentezza o all’idea di decrescita, una sorta di ritorno al passato, un che di reazionario o una tacita apologia del lassismo e una  denigrazione dell’idea di efficienza. Dunque, diventa importante capire che questo Slow profile va opportunamente graduato e declinato, per non essere frainteso: il punto non è ovviamente quello di demonizzare la velocità e le tecnologie attuali che la permettono. Gli uomini hanno spesso la tendenza a trasformare le loro idee in simboli sotto cui accorparsi e distinguersi, per contrastare chi pensa diversamente. Chi sostiene le idee dello Slow profile in base a questa prospettiva, mostra in realtà una capacità interpretativa piuttosto limitata e superficiale: le idee andrebbero sempre contestualizzate, perché possano essere meglio comprese e valorizzate e, dunque, l’idea di pacatezza e lentezza non è pregevole e difendibile in se stessa, ma semplicemente, oggi, nel mondo attuale, ha senso perché ci è d’aiuto per apprezzare  le dimensioni correlate della introversione e della riflessione, aspetti spesso importanti e influenti per lo sviluppo e il progresso intellettuale e morale. Anche questo è un punto importante e su cui vale la pena soffermarsi. Va premesso che è vero che Aristotele e una lunga tradizione di pensiero etico-politico più o meno correttamente interpretata ci hanno insegnato che l’uomo è un “animale sociale”, che trova la sua realizzazione nel contatto, nel confronto e nel legame con gli altri. Questa idea,  tuttavia, è molto più problematica di quanto non appaia a una prima lettura, se si tiene presente che, nel pensiero e nella cultura contemporanee, si dibatte ancora ripetutamente sui temi di comunitarismo e individualismo radicale e possessivo, di tribalismo e soggettività. La dialettica identità-alterità non si lascia declinare facilmente e la storia dell’uomo è piena di solitudini più o meno note. Un tempo, addirittura, vi erano figure che della solitudine facevano un’istituzione: gli eremiti, a volte saggi, sapienti o mistici, a volte semplici uomini esiliati o esclusi e marginalizzati per le più varie motivazioni. Nella società contemporanea è insolito ritrovare questa figura dell’eremita, non fosse altro perché le tecnologie comunicative e informative  e le pratiche ad esse associate difficilmente permettono un’estraniazione totale dalla dimensione sociale, diventando piuttosto sempre più invasive. E, peraltro, la  nostra epoca spesso sembra manifestare quasi un  timore isterico per la solitudine e l’introversione, e molto spesso il nostro Zeitgeist ha determinato un rapporto distorto tanto con la solitudine quanto con la compagnia. E così chi sta solo diventa sospettoso e maldisposto verso il prossimo  e chi sta sempre in compagnia, si perde nella superficialità e non riesce a darsi un’autonomia di pensiero che non sia quella delle logiche corporative, gruppali, identitarie, professionali, a cui si aggrega. Si potrebbe a questo punto forse azzardare l’ipotesi che manca, allora, l’eremita saggio, che sta per conto suo, serenamente, intento ai suoi progetti, che non è assorbito da incontri e connessioni, ma che non disprezza  chi gli rivolge la parola e sa comunque essere cordiale. Nella vicenda della tarda modernità gli individui cercano i loro eroi tra celebrità dello star system e i potenti della politica e dell’economia e li considerano mitici. Forse i veri miti, proprio perché quasi irreali e simbolici, sono invece i saggi eremiti, perché capaci di cogliere correttamente la solitudine, riempiendola proficuamente e rendendola l’elemento che poi permette un rapporto più raffinato, attento e ricco con l’alterità.

Ma il saggio eremita,  in fondo, nasce nella riflessione, non nell’individualismo fine a se stesso, non nella misantropia, non nel desiderio di affermazione o rivalsa sugli altri. E la riflessione richiede una certa capacità immaginativa che va oltre la misera e un po’ banale polarizzazione di razionalità e passione, a cui il pensiero nelle società attuali tanto facilmente si abbandona con disinvolta compiacenza. Tutti questi discorsi che qui abbiamo cercato sommessamente di evocare potrebbero essere facilmente trascurati da uomini troppo vissuti o dive presunte, che ricorderanno sempre che la vita “è troppo più complicata” di queste considerazioni teoriche. C’è del vero anche in questa possibile obiezione, che dovremo comunque tenere presente, in una fase storica peraltro dominata dal disincanto, e per questo non è il caso di contraddirli. La saggezza, a ben guardare la storia della civiltà, è sempre stata un (a volte forse anche doloroso) privilegio per pochi. Per troppi altri sembra, invece, già avviato un più o meno ingenuo cammino, nella società critica della teoria e fissata sull’utilità pratico-strumentale, nella fabbrica del non senso, nel “deserto del reale” e in tutte le variegate ramificazioni, propaggini e succursali di tali cupe dimensioni, che, in fondo, forse, sono il lato nascosto(e insidioso) dietro i luccichii della network society.



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