Contrariamente a quello che molti hanno immaginato a una prima lettura superficiale, il cratere cui si fa riferimento nel titolo, non è quello di un vulcano, magari del Vesuvio, vista anche la prossimità geografica di questo con i luoghi in cui la vicenda della famiglia Caroccia è ambientata, la periferia Nord del capoluogo campano. Silvia Luzi e Luca Bellino metaforicamente ci parlano invece di un mondo lontano, di un universo e una costellazione poco luminosa, quasi invisibile, collocata nel cielo del sud del mondo, l’emisfero australe, denominata per l’appunto il Cratere. Le stelle che compongono questa costellazione, a cavallo dell’equatore, sono poco luminose, non visibili a occhio nudo, ma basta avere un telescopio anche non professionale per poterle osservare. Per scoprirle ci deve essere una precisa volontà, nessuna casualità.
Fin dalla scelta del titolo Il Cratere, c’è quindi da parte dei due autori una chiara dichiarazione d’intenti: per voler scoprire e osservare i membri di questa famiglia di giostrai e bancarellari – formata da qualche adulto e molti minori, tra questi anche Sharon, che all’epoca del film aveva solo dodici anni – deve esserci una scelta e un’intenzionalità, non è più semplice osservazione del reale, ma la sua riscrittura. La vicenda non ha degli attori “casuali”, ma attori che, nel solco di una tradizione “realista” zavattiniana, interpretano se stessi. L’intero cast del film, esclusi alcuni personaggi marginali, è composto dalla famiglia Caroccia. Realismo e finzione si fondono, in una chiave interpretativa nuova, che si presta a molteplici letture.
Una tra le tante, che riguarda il lavoro sulla recitazione e la scrittura del film, si può trovare nella prefazione di un libro di Franco Ruffini, storico e critico del teatro italiano. L’autore descrive una scena nella quale Stanislavskij osserva, dalla finestra, due giovani che passeggiano per la strada e a un tratto si fermano e compiono dei gesti significativi e significanti, mentre si guardano in volto. Parlano e tacciano. Poi riprendono a camminare. “Dei due giovani non si conosce il nome, né la condizione sociale, né il luogo di provenienza, né le ragioni dell’incontro, […] essendo ignoto il contesto, gli eventi sono senza significato. Tuttavia ogni azione è credibile. […] Essendo motivata e finalizzata, cioè logica, l’azione è credibile: anche se, ovviamente, non è leggibile” (Ruffini, 1994). Poi la scena raccontata si sposta nella scuola di Stanislavskij: degli allievi interpretano i due giovani descritti sopra, compiono gli stessi gesti, dicono forse le stesse parole, ricominciano a camminare ed escono dalla scena. In questo caso dei due si sa tutto, se ne possono controllare anche i movimenti, le parole, perché scritti in un copione. “Dopo la prova, il maestro pronuncia la sentenza […]: ‘Non ci credo’. Essendo noto il contesto, ogni azione ha un significato chiaro e preciso. Ma l’osservatore non riconosce […] né una ragione né uno scopo di quelle azioni. […] L’azione non è credibile, sebbene sia del tutto leggibile” (Ruffini, 1994).
Ne Il Cratere, l’interpretazione, in particolare di Sharon e del padre Rosario, ci consegna la rappresentazione di un mondo in cui il reale può essere messo per iscritto, incasellato in una sceneggiatura, della quale Rosario Caroccia è anche co-autore per altro, non solo quando si sta svolgendo davanti alla macchina da presa, ma anche quando è già passato, rendendo la finzione, dichiarata e mai nascosta, sempre credibile e del tutto leggibile. In questo c’è molto di un certo cinema antropologico e antropomorfico, che lo stesso Zavattini aveva sintetizzato negli anni cinquanta, dichiarando “il cinema può dare a qualsiasi avvenimento piccolissimo e grande, ricostruendolo, o meglio ancora ritenendolo durante il suo formarsi, la suggestione e il monito che esso per sua natura contiene” (De Vincenti, 2013).
Dal canto loro i due autori, non lasciando mai libertà di movimento agli attori/personaggi, con un uso estremo dei primi piani e degli sfocati, stando sempre addosso ai volti, giocando con una focale fissa e un diaframma spinto al massimo dell’apertura, mettono ancora più in risalto la loro “interpret-azione” del reale, che non è più fatta di gesti, ma di sguardi, espressioni, tic e occhi che si chiudono per il fumo di sigarette. In questo modo riescono a raccontare la tentata ribellione di ognuno dei protagonisti: una figlia che non riesce a cantare come il padre vorrebbe, ma che gli tiene testa, perché quello è il vero senso della sua lotta; un uomo che per migliorare la propria condizione economica sarebbe disposto a sacrificare l’adolescenza della propria figlia, la sua istruzione per renderla una cantante di successo e poi si ritrova a lavarle i capelli e accudirla come fosse la madre, facendo diventare quei gesti quotidiani la vera ribellione dal proprio essere; una madre che invita la figlia dodicenne a contare solo su se stessa, suggerendole quello che lei non è mai riuscita a fare nell’arco della sua vita, né col marito né con i figli, essere libera.
È vero che in fondo sono tutti dei vinti, ma non nell’accezione classica del Verismo, in cui si aspettava la Provvidenza. Nella casa dei Caroccia, al contrario di quella del nespolo de I Malavoglia, non ci si affida per niente alla Provvidenza. C’è invece una lotta quotidiana condotta dai membri della famiglia, contro un nemico, un padrone, che non sempre risulta essere riconoscibile, poiché molte volte nascosto dentro ognuno di loro. In questa lotta, in cui il campo di battaglia diventa la casa della famiglia, la loro “vera” casa, le aperture verso l’esterno diventano minime, così come le aperture del campo visivo dell’immagine: raramente si passa dai piani stretti e con sfondo sfocato, anche sui dettagli del corpo, non solo sui volti, a un’immagine in cui la profondità di campo riesce a delineare i contorni degli oggetti e delle persone. Ma esiste un momento in cui l’immagine respira. Verso la fine del film Rosario mette in pratica un sistema di sorveglianza all’interno della casa, fatto di piccole camere nascoste collegate a dei monitor. Quello diventa il luogo dal quale non si può più uscire, né ricevere visite. Il campo della lotta è diventato una prigione, in cui Sharon deve continuare ad allenarsi per diventare una cantante, tentando di fuggire continuamente al padre. “L’esercizio della disciplina presuppone un dispositivo che costringe facendo giocare il controllo; un apparato in cui le tecniche che permettono di vedere inducono effetti di potere, e dove, in cambio, i mezzi di coercizione rendono chiaramente visibili coloro sui quali si applicano” (Foucault, 1975).
La premeditazione della ribellione di Sharon ci viene mostrata attraverso il dispositivo di controllo, realizzato dalle mani del padre/padrone. Rosario immobile davanti ad uno schermo, guarda la registrazione in cui sua moglie Nunzia esorta la figlia a prendere in mano la propria vita. Per assurdo questa distanza di osservazione, questo distacco, in cui le stelle del Cratere possono essere osservate solo attraverso delle lenti, non consente un intervento diretto, ma solo una constatazione della sconfitta, di nuovo il reale che è già stato scritto. Rosario attraverso quello stesso schermo, una trappola che si è costruito da solo, pensando invece di poter ingabbiare la figlia, osserva impassibile la fuga di Sharon, come se fosse la sua di fuga, quella che non è mai riuscito a mettere in atto, da se stesso e dalla vita. Da quel momento in poi non ci interessa più dove la ragazza sia andata, l’importante è pensarla libera. Almeno lei.
Bibliografia:
Ruffini F., Teatro e boxe, l’”atleta del cuore” nella scena del novecento, il Mulino, Bologna 1994.
De Vincenti G., Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video, rete, Bulzoni Editore, Roma 2013.
Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.