Indagando Criminal Minds: ipotesi su devianza e analisi comportamentale in una serie tv

 

 

Tra i telefilm che negli anni Duemila hanno maggiormente caratterizzato il panorama mediatico e si sono notevolmente protratti nel tempo, con un numero elevato di stagioni di programmazione, un posto di rilievo può probabilmente essere attribuito a Criminal Minds. Questa serie tv americana, avviata nel 2005 e giunta addirittura a 13 stagioni consecutive e tutt’ora in corso, si basa sulle indagini compiute dal BAU(Behavioral Analysis Unit– Unità di analisi comportamentale) dello FBI, ossia una sorta di sezione specializzata nell’affrontare casi di serial killer, criminali, psicopatici, sociopatici, terroristi, devianti in generale, autori di delitti reiterati, spesso efferati, maniacali, inquietanti. Il gruppo del BAU che si dedica a questi casi particolari è costituito da più personaggi, alcuni dei quali sono stati cambiati o si sono susseguiti nel tempo, ciascuno comunque assai caratterizzato rispetto a categorie precise e con un ruolo determinato all’interno del gruppo. Così, abbiamo il direttore generale del gruppo(in particolare Aaron Hotchner), la specialista nella comunicazione con i media e con le polizie locali(solitamente Jennifer Jereau), la “maga” di informatica (la colorita Penelope Garcia), gli agenti più coraggiosi e intraprendenti (su tutti lo spavaldo Derek Morgan), lo studioso geniale che sa tutto (il “ragazzo-meraviglia” Spencer Reid), gli agenti esperti di linguaggio (come in alcune stagioni Alex Blake), quelli legati a servizi segreti (Emily Prentiss), e anche autori di best seller su criminologia (come David Rossi), per ricordare quelli più ricorrenti e noti. Tutti questi notevoli personaggi mettono simultaneamente in atto le loro elevate abilità specifiche per analizzare i crimini e i contesti in cui si svolgono, in modo da poter progressivamente, attraverso ipotesi e teorie, raccolta di dati e indizi, analisi dei comportamenti e delle situazioni, pervenire a identificare il soggetto autore dei delitti.

Se si osserva con cura si può dire che essi, nel loro operare, svolgono, in definitiva, quello che si può considerare uno studio della devianza psico-sociale, sviluppando quella che definiscono come “analisi comportamentale”. Utilizzando tutta una serie di competenze specialistiche, da quelle psicologiche a quelle informatiche, passando per quelle mediche, psichiatriche, giuridiche, sociologiche, criminologiche e statistiche, questi agenti pervengono gradualmente a costruire il profilo del criminale e le motivazioni che hanno originato un determinato delitto. Spesso gli agenti si aiutano anche con “interviste cognitive”, ossia con particolari colloqui con testimoni o persone che comunque possono essere state coinvolte nelle situazioni indagate, colloqui che permettono di ricostruire e delineare dettagli decisivi, facendoli riaffiorare, attraverso domande precisamente calibrate, da ricordi inconsci, e memorie di suoni, immagini, sensazioni, odori.

Al di là delle vicende in sé e dei percorsi narrativi della serie, può essere in qualche misura interessante considerare Criminal Minds in una prospettiva di sociologia dei processi culturali, poiché il telefilm sembra riportare in modo abbastanza indicativo l’attitudine americana legata a un certo pragmatismo, positivismo e comportamentismo nel considerare le modalità di vita degli individui e le loro eventuali componenti devianti: in effetti, nelle scienze sociali, negli Stati Uniti vi è sempre stata una forte influenza della corrente del funzionalismo, segnatamente da Talcott Parsons in poi, che vedeva appunto la devianza sociale come un problema e una preoccupazione fondamentale. In Criminal Minds, infatti, si può ravvisare un meccanismo esplicativo della devianza di solito legato a una certa consequenzialità e quindi a una possibile prevedibilità: condizioni di disagio di partenza, di qualsiasi genere, eventi di stress che spezzano fragili equilibri avviando il comportamento criminale, disturbi gravi delle personalità dovuti tanto a contesti socio- esistenziali, che magari a patologie individuali, finali frequentemente tragici per il criminale. L’insieme delle conoscenze degli agenti appare come un “apparato”( o potremmo forse anche dire un “dispositivo”, se volessimo collocarci in una prospettiva foucaultiana)  sicuro cui attingere, che riflette una fede nella scienza e nelle sue possibilità di prevedibilità della realtà, anche quella delle relazioni umane e sociali. Evidentemente, il telefilm sembra caricare in misura abbastanza rilevante su questo aspetto, pur lasciando in taluni casi aperture a dubbi sulla perfezione assoluta di questi canoni, e infatti ogni puntata della serie in apertura e chiusura è accompagnata da un aforisma evocativo, spesso di celebri personaggi di cultura e di scienza che hanno attraversato la storia dell’umanità e che inducono a pensare in modo più articolato vicende e interpretazioni.

Criminal Minds può dunque essere letto, e qui sta il senso di questo piccolo contributo di riflessione, nell’ambito dei prodotti dell’industria culturale, che possono sempre risultare elementi da prendere in considerazione per come essi possono rispecchiare le condizioni e le caratteristiche  delle società complesse, in questo caso rispetto alla devianza: del resto la sociologia critica(dalla Scuola di Francoforte, sino a autori come Christopher Lasch e Zygmunt Bauman e Slavoj Žižek, per citare solo alcuni esempi possibili) sull’industria culturale ha posto da sempre spunti di riflessione anche acuti. Resta del tutto evidente che le scienze sociali hanno obiettivi di ricerca più sostanziali e ambiziosi nei processi politici, intellettuali e economici, ma non trascurare anche ambiti di ricerca legati a questi aspetti forse più comuni o “meno istituzionali”, può risultare un complemento utile per la comprensione globale della società contemporanea.

La realtà ci dice, in effetti, che generalmente non disponiamo di investigatori geniali e dalle personalità spettacolari come quelli che appaiono in Criminal Minds, ma il fatto che l’immaginario contemporaneo tenda a contemplarli è forse inquadrabile come un indicatore del desiderio, più o meno implicitamente celato, degli esseri umani di comprendere (e dominare) la devianza e sfuggire agli effetti perniciosi che essa può comportare quando appunto genera “menti criminali”. E in fondo, anche i tanti anni in cui la serie si protrae, continuando a riscuotere seguito e spettatori, sembrano costituire, in una prospettiva più ampia, un altro aspetto che non può non sollevare la questione, sociologico-filosofica e quasi ancestrale, dell’ambiguo fascino che il lato oscuro della mente umana con i suoi abissi ineffabili e turbanti può tendere assiduamente a esercitare.

 

Francesco Giacomantonio



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